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Storia delle epidemie - 38

Dalle pesti antiche al Covid la fragilità umana è rimasta la stessa

Ripercorrere le vicende di malattie che hanno prostrato l’umanità, è stato un modo per avere sia migliore comprensione di questi terribili fenomeni, ma anche per farci coraggio, per ricordarci che alla fine l’uomo è sempre stato in grado di reagire, di trovare forze e anticorpi giusti e di ricominciare

Abbiamo visto, nel corso del nostro lungo racconto dedicato alla “Storia delle epidemie”, quanto esse hanno accompagnato tutta la storia dell’umanità. Un capitolo a parte meriterebbe l’epidemiologia dell’Africa, che vive costantemente sotto la minaccia di mali come l’Ebola che fanno molte vittime fra la popolazione. Ma questo continente non vive sotto i riflettori dei mass media. Fa più rumore la prima vittima negli Stati Uniti che una popolazione sub sahariana sterminata da un’epidemia.

Dopo questa doverosa precisazione, rimaniamo quindi nell’ambito a noi più vicino. Il problema delle epidemie e/o pandemie diventa cruciale in un mondo caratterizzato da una grande mobilità globale con un interscambio di popolazioni e migrazioni di ampiezza intercontinentale; rete globale di mobilità di cui le città sono i nodi e, per quanto attiene la trasmissione di malattie epidemiche, anche i punti critici trattandosi di luoghi ad alta densità di persone potenzialmente contagiabili e in genere poco controllabili. Il che implica una grande responsabilità sociale, nonché politica, per i ricercatori, che hanno dovuto uscire dalle “torri d’avorio” dei loro laboratori per misurarsi con l’intera società: con i suoi sogni tanto quanto i suoi incubi, i suoi bisogni tanto quanto i suoi desideri. Per dirla in una formula: sarà questione, è già questione, di scienza e democrazia.

Del resto, sono ancora le parole a dirlo: poiché epidemia e democrazia hanno la medesima componente base, quel demos che soccombe alla prima e si fa interessato ospite della seconda. Un’epidemia, nonché efficacissimo stress-test a cui sottoporre la scienza medica, è al tempo stesso più di una guerra e in modo diverso la via per mettere alla prova la coesione, la stabilità, la resilienza di una democrazia. La sua forza. Ad Atene, per esempio, la democrazia non resse all’epidemia e alla guerra.

A un attento osservatore, non sfugge come le epidemie passate, le descrizioni antiche, i sintomi, lo smarrimento, le caratteristiche della diffusione del morbo, le difficoltà dei medici e delle strutture di cura, le reazioni della gente, abbiano similitudini con le vicende odierne. Solo l’ingenuo si stupirà: giacché chi abbia familiarità anche superficiale con la storia di questi fenomeni, che è poi la Storia dell’Uomo, ne conosce la regolarità e ripetibilità, ma assai di rado gli uomini sono stati disposti a imparare dalla loro storia. I progressi della scienza saranno pur stati straordinari, ma la fragilità umana è rimasta la stessa. E a questa, la scienza non parla.

Nel corso della attuale pandemia abbiamo visto che quando la “peste” sopraggiunge, la città, la polis e la civitas, rattrappiscono. Dall’esterno viene circondata, messa in quarantena, talché chiunque cerchi di uscire ne viene con la forza impedito, e lo stesso accade a chi cerchi di entrare. La città diventa un sistema chiuso impedito dall’esterno all’interno, e viceversa. Una sorta di (relativo) carcere a cielo aperto, luogo di reclusione che accomuna contaminati e contaminabili, quiescenti e resilienti, morti, moribondi, e viventi; si tratta di una condizione innaturale, perché la città è per sua intima costituzione un sistema aperto, ma necessaria. Certo le conseguenze sono nefaste: in questo senso la malattia distrugge la città ancora prima di avere ucciso i suoi abitanti, la loro socialità, il proprio lavoro.

Questa chiusura, insieme alla paura, se non panico, per il contagio, disgregano le relazioni sociali di prossimità nonché di buon vicinato fin dentro i rapporti amorosi.

Inoltre, i luoghi abituali di frequentazione sociale, caffè, ristoranti, sale da ballo, giardini pubblici, strade del passeggio, scuole, negozi, centri commerciali, insomma l’intero tessuto degli spazi pubblici d’incontro, viene disertato, o piuttosto desertificato.

Che molti milioni di persone possano essere tenute “prigioniere”, nel nome della salute pubblica, in una zona delimitata è di per sé triste e, come abbiamo vissuto sulla nostra pelle, assai difficile. Ci siamo passati. È stato necessario. Auguriamoci di non tornarci più.

L’epidemia inoltre modifica il tempo. La persona vive tra un presente che non vorrebbe e un futuro impredicibile. Nessuno sa quanto durerà il flagello del morbo.

Ogni modello è parziale e soggetto a errori statistici che hanno un ordine di grandezza pari alle dimensioni del futuro che si intenderebbe prevedere. Rimane il passato. Cui ci si abbarbica disperatamente, perché l’uomo vive nel tempo. Se il tempo viene a mancare muore.

Il mondo è cambiato molte volte, e sta cambiando di nuovo. Tutti noi dovremo adattarci a un nuovo modo di vivere il tempo. Ma come per tutti i cambiamenti, ci saranno alcuni che ci perderanno più degli altri, e saranno quelli che hanno già perso troppo. Il meglio che possiamo sperare è che la profondità di questa crisi ci costringa a rivedere le nostre priorità. Più di un anno fa, ormai, si diceva: “nulla sarà più come prima”, e dietro questa affermazione generica si intravvedeva, anche se indistintamente, l’adozione di uno stile di vita più sobrio e responsabile, più consapevole dei limiti umani, più generoso e solidale. Non sembra stia accadendo. Anzi.

Tornando alla nostra Storia, abbiamo imparato come le malattie sconosciute, o più appropriatamente nel nostro caso le pandemie, sono state, nel corso dei secoli, metafora di una annichilazione della civiltà urbana cosmopolita come un incubo adagiata nel profondo dell’inconscio collettivo. Un incubo dormiente ma con sonno leggero, che un piccolo niente, può risvegliare. Un virus sconosciuto proveniente da chissà dove: gli spazi interstellari tanto quanto un qualche laboratorio di apprendisti stregoni delle biotecnologie, o dall’animale di casa, o un virus conosciuto che credevamo debellato e invece riprende vigore fino all’esplosione, o qualcos’altro ancora ben oltre la nostra immaginazione. Infatti, chi mai pensava possibile ciò che è accaduto?

L’annichilimento di cui si diceva, lo si prova anche assistendo alla battaglia tra virus e antivirus che infuria nella città virtuale globale, internet e il web. Come, del resto fra pro-vax e no-vax. E si resta quantomeno basiti osservando che la corretta contrapposizione non appare possibile: la disinformazione e le “notizie false”, che non sono certo una novità, dilagano; esse sono, soprattutto oggi, pericolose, perché pochi sono a conoscenza del loro potere di polarizzare le società e la politica. Cosa mai accaduta nelle precedenti pandemie, la convergenza di Covid-19 e disinformazione virale è probabilmente unica nel suo potenziale di causare danni sociali significativi, inclusa la perdita diretta di vite umane.

Il programma di vaccinazione di massa sembra essere l’unica strategia di uscita praticabile per sconfiggere il Covid-19. Purtroppo, come quotidianamente vediamo, questa sfida si è imbattuta inevitabilmente in un attivismo anti-vaccinazione disinformato che potrebbe minare in modo significativo la sua efficacia e portare a molte più vite perse, come ha già fatto su scala minore per altre malattie in tutto il mondo. Inoltre, un fallimento nell’imparare le lezioni della disinformazione sul Covid-19 ci lascerà tutti più vulnerabili a qualche futura pandemia, che (per quanto ne sappiamo) potrebbe essere dietro l’angolo.

Come già accaduto in passato, il virus, la malattia, il terrore e l’ansia che provocano, saranno con noi per molti mesi (se non anni) a venire. Così saranno gli sforzi per combatterli. Sarebbe il caso di adottare tutte le misure possibili a nostra disposizione, esercitando la dovuta diligenza, per proteggere i diritti umani alla vita e alla salute. Queste misure devono anche includere la comunicazione di informazioni accurate sulla salute pubblica. Non è solo necessario trovare un giusto equilibrio tra diritti e interessi potenzialmente in competizione tra loro. Proteggere la libertà di espressione è essenziale e per combattere efficacemente la pandemia non è necessaria la soppressione ingiustificata della parola, ma porre limiti alla diffusione senza ostacoli della disinformazione virale, quello sì.

La velocità della nostra vita e la globalizzazione del nostro mondo sono una grande forza, ma non aiutano di certo a contenere un virus, che in passato avrebbe oltrepassato l’oceano dopo mesi.

È anche vero che ognuna di queste malattie ha avuto proprie caratteristiche, adattandosi all’ambiente e al periodo storico in cui si sono diffuse.

Eppure, queste pandemie hanno anche modus operandi simili: l’origine animale, le condizioni igieniche sfavorevoli, la trasmissione rapida tramite contatto umano, le problematiche economico-sociali, la confusione e la paura. È naturale per l’uomo temerle, benché da questo sentimento sia nata una forte consapevolezza che ci invita a non ripetere gli stessi errori.

Ripercorrere le vicende di malattie che hanno prostrato l’umanità, è stato un modo per avere sia migliore comprensione di questi terribili fenomeni, ma anche per farci coraggio, per ricordarci che alla fine l’uomo è sempre stato in grado di reagire, di trovare forze e anticorpi giusti e di ricominciare.

Tutte queste epidemie, che hanno cambiato il corso della storia in più modi, hanno quindi lasciato dietro di esse molte vittime premature ma anche tanti insegnamenti.

Le pandemie sono parte della nostra Storia, e se dobbiamo imparare a gestirle e il più possibile prevenirle, dobbiamo anche metabolizzare l’idea che da queste si rinasce.

Occorre imparare non solo a sopravviverle, ma anche a credere in una futura rinascita che è sempre avvenuta. Certo occorrerebbe non privilegiare l’interesse di categoria e di bottega, l’idea che sia più importante che prima sia tutelato il singolo rispetto ad altri, che è proprio il contrario del “farcela tutti insieme”.

Bisognerebbe, proporzionalmente al ruolo che si ricopre e alle proprie competenze, caricarci la nostra parte di responsabilità e smettere di cercare ossessivamente un colpevole o un nemico. Occorre un nuovo patto sociale, ma vero questa volta: iniziamo a ricostruire mettendo su un tavolo comune quello a cui ognuno di noi è disposto a rinunciare per ripartire. O aspettiamo e ci auguriamo che il virus passi da solo, come già è accaduto in passato. Ma la Storia non sempre si ripete.

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