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Storia delle epidemie - 34

L’Aids, a lungo con mortalità al 100%: oggi si cura, ma non è debellata

Dal 1996 una combinazione di farmaci riesce a "immobilizzare" il virus negli individui, bloccando lo sviluppo della sindrome immunodepressiva, ma non a eradicarlo, cronicizzando quindi l'infezione.

Anche se già negli anni Settanta erano stati riportati casi isolati di Aids negli Stati Uniti e in numerose altre aree del mondo (Haiti, Africa ed Europa), la malattia fu riportata per la prima volta in letteratura nel 1981, con il nome di Sindrome da Immunodeficienza Acquisita, altrimenti nota come AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome). Essa rappresenta lo stadio clinico terminale dell’infezione causata dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV, Human Immunodeficiency Virus).

L’HIV è un virus a RNA che appartiene a una particolare famiglia virale, quella dei retrovirus, dotata di un meccanismo replicativo assolutamente unico. Grazie a uno specifico enzima, la trascrittasi inversa, i retrovirus sono in grado di trasformare il proprio patrimonio genetico a RNA in un doppio filamento di DNA. Questo va ad inserirsi nel DNA della cellula infettata (detta “cellula ospite” o “cellula bersaglio”) e da lì dirige la produzione di nuove particelle virali. Le principali cellule bersaglio dell’HIV sono particolari cellule del sistema immunitario, i linfociti T di tipo CD4, fondamentali nella risposta adattativa contro svariati tipi di agenti patogeni e oncogeni. L’infezione da HIV provoca quindi un indebolimento progressivo del sistema immunitario (immunodepressione), aumentando il rischio sia di tumori che di infezioni da parte di virus, batteri, protozoi e funghi.

Alla fine del 1980, Michael Gottlieb, ricercatore dell’Università della California, stava svolgendo una ricerca clinica sui deficit del sistema immunitario. Analizzando le cartelle cliniche dei ricoverati in ospedale, si imbatte nel caso di un giovane paziente che soffriva di un raro tipo di polmonite dovuta a Pneumocystis carinii, un protozoo che solitamente colpisce solo pazienti con un sistema immunitario indebolito. Nei mesi successivi Gottlieb scopre altri tre casi di pazienti, tutti omosessuali attivi, con un basso livello di linfociti T. Nel 1981 il Centers for Disease Control and Prevention (CDC di Atlanta) segnala sul proprio bollettino epidemiologico, il Morbidity and Mortality Weekly Report (Mmwr), un aumento improvviso e inspiegabile di casi di polmonite da Pneumocystis carinii in giovani omosessuali. Successivamente vengono segnalati ai Cdc nuovi casi di pazienti che soffrono di un raro tumore dei vasi sanguigni, il sarcoma di Kaposi. Con la pubblicazione di questi dati, si fa lentamente strada la consapevolezza di essere di fronte a una nuova malattia. Pochi giorni dopo il Cdc costituisce una task force espressamente dedicata alla ricerca sul sarcoma di Kaposi e sulle altre infezioni opportunistiche.

Sebbene non siano chiare le modalità di trasmissione e di contagio, cominciano a nascere le prime teorie sulle possibili cause di queste infezioni e tumori: l’infezione da Cytomegalovirus (Cmv), l’uso di droghe, un’eccessiva stimolazione del sistema immunitario. L’ipotesi più accreditata è comunque quella che la malattia colpisca soltanto gli omosessuali. Il messaggio arriva anche a livello dell’opinione pubblica, con il titolo del New York Times: “Raro cancro osservato in 41 omosessuali”. Alla fine dell’anno, però, la malattia comincia a colpire anche gli eterosessuali e, soprattutto, esce dal confine degli Stati Uniti: viene registrato infatti il primo caso europeo, in Inghilterra.

Alla fine del 1981, la malattia non ha ancora un nome. Mentre dal Cdc parlano di linfoadenopatia o di sarcoma di Kaposi o di altre infezioni, sulla carta stampata si cominciano a leggere le definizioni più disparate: The Lancet parla di “gay compromise sindrome”, mentre sui quotidiani nazionali di diversi Paesi si leggono espressioni come “immunodeficienza gay-correlata (Grid)”, “cancro dei gay”, “disfunzione immunitaria acquisita”.

Quando nel giugno 1982 viene registrato un gruppo di casi fra maschi omosessuali nel sud della California, comincia a serpeggiare fra i ricercatori l’ipotesi che la malattia abbia un’origine virale. Nel mese successivo, quando si contano 452 casi totali in 23 Stati diversi, si registrano i primi casi fra gli emofiliaci, individui portatori di un difetto ereditario nei processi di coagulazione del sangue e obbligati quindi a sottoporsi a continue trasfusioni.

Durante il mese di agosto, nel corso di un congresso promosso dalla Food and Drug Administration (Fda), viene proposto per la prima volta il termine “sindrome da immuno-deficienza acquisita” per definire la nuova malattia. L’espressione indica come ci si trovi di fronte a una malattia di origine non ereditaria, ma che viene invece acquisita attraverso un meccanismo di trasmissione ancora ignoto, e che consiste in una deficienza del sistema immunitario. “Sindrome” perché non è un’unica malattia, ma si presenta sotto forma di diverse manifestazioni patologiche.

Il 1982 si chiude con due eventi significativi: la prima morte, a seguito di una trasfusione infetta, di un bimbo emofiliaco e il primo caso di trasmissione materno-fetale dell’Aids. Si fa dunque sempre più strada la consapevolezza di essere al cospetto di una nuova malattia in diffusione, che riguarda tutti e non più solo piccole categorie, anche al di fuori del confine degli Stati Uniti.

Nel 1983, in un incontro presso il Cdc, si comincia a discutere su come prevenire la trasmissione dell’Aids, considerando anche i rischi legati alle procedure di trasfusione, soprattutto nel caso di pazienti emofiliaci. È ormai chiaro che la malattia si può trasmettere anche fra eterosessuali e non soltanto fra omosessuali come si riteneva all’inizio.

Nel maggio del 1983 all’Istituto Pasteur di Parigi il virologo francese Luc Montagnier riporta l’isolamento di un nuovo virus che potrebbe essere l’agente responsabile della trasmissione della malattia. Il virus viene isolato dalle cellule coltivate in laboratorio di un paziente omosessuale con linfonodi ingrossati, privo però di alcun sintomo di Aids. Inviato al Cdc di Atlanta, il virus viene analizzato e denominato Lav (Virus associato a linfoadenopatia), quindi viene inviato al National Cancer Institute di Bethesda, per ulteriori ricerche.

Un anno dopo, il 22 aprile 1984, il Cdc dichiara pubblicamente che il virus francese Lav è stato definitivamente identificato come la causa dell’Aids dai ricercatori dell’Istituto Pasteur. Il giorno successivo Margaret Heckler, il segretario dell’Health and Human Services, annuncia che Robert Gallo, direttore del laboratorio di biologia cellulare dei tumori del National Cancer Institute, ha a sua volta isolato da pazienti malati di Aids il virus candidato a essere il responsabile della malattia, chiamandolo Htlv-III (Virus umano della leucemia a cellule T di tipo III). Il nome assegnato al virus indica come faccia parte di una famiglia di retrovirus identificata dallo stesso Gallo, costituita da virus che infettano i linfociti T umani e che sembrano essere coinvolti nella proliferazione anomala di queste cellule, come la leucemia appunto. Gli Htlv sono i primi retrovirus umani mai scoperti. Nell’annuncio viene anche dichiarato che sarà presto disponibile un test commerciale per diagnosticare l’infezione.

Inizia così una vera e propria battaglia legale fra i due prestigiosi istituti di ricerca, che rivendicano entrambi la paternità della scoperta, tanto clamorosa da valere il premio Nobel. Nei primi mesi del 1985 vengono pubblicati numerosissimi lavori sui due virus oggetto del contendere: la conclusione collettiva è che si tratti dello stesso virus. Nel 1986 un comitato internazionale stabilisce un nuovo nome per indicare il virus dell’Aids: d’ora in poi si parlerà soltanto di Hiv, ovvero “Virus dell’immunodeficienza umana”.

Diffusasi in maniera esponenziale in tutto il mondo, diverrà una vera e propria pandemia e, a differenza di tutte le altre epidemie fino ad allora conosciute, fu a lungo mortale in percentuali vicine al 100% dei casi diagnosticati (pur nella variabilità dei tempi di sviluppo dei sintomi). Inoltre, la connessione presto dimostrata con la sfera sessuale e con l’uso di sostanze stupefacenti (eroina) legò indissolubilmente il contagio, nell’opinione generale, a comportamenti stigmatizzabili, in quanto “trasgressivi”: la sieropositività è ancora oggi vissuta come una condizione potenzialmente discriminatoria.

Dal 1996 una combinazione di farmaci riesce a “immobilizzare” il virus negli individui, bloccando lo sviluppo della sindrome immunodepressiva, ma non a eradicarlo, cronicizzando quindi l’infezione.

Tutt’altro che debellata, la sindrome da HIV è diventata endemica nei paesi sviluppati, dove è crollato il numero di decessi, ma non quello dei contagi, mentre è ancora uno dei più gravi fattori di mortalità nei paesi in via di sviluppo, all’origine di gravi problematiche sociali, etiche, economiche e organizzative.

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