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Xxv rapporto economia

Covid, clima e ingiustizie: il mondo è fragile, impari la lezione della condivisione fotogallery

Ai primi di luglio del 2021, il mondo non ha ancora superato l’insieme di rischi e incertezze provocati dalla pandemia. Il XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia guarda all’esperienza complessa dei mesi passati con l’obiettivo di cogliere le tendenze che già si intravvedono per il futuro, le lezioni apprese, le nuove opportunità.

È stato presentato nella mattina di giovedì 8 luglio il “XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia” del Centro Einaudi, curato da Mario Deaglio con i contributi di Giovanni B. Andornino, Giorgio Arfaras, Giuseppina De Santis, Ivan Lagrosa, Paolo Migliavacca, Giuseppe Russo e Giorgio Vernoni – è pubblicato da Guerini e Associati e sostenuto da Intesa Sanpaolo.

Pubblichiamo alcuni spunti come sintesi del rapporto.

Ai primi di luglio del 2021, il mondo non ha ancora superato l’insieme di rischi e incertezze provocati dalla pandemia. Il XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia guarda all’esperienza complessa dei mesi passati con l’obiettivo di cogliere le tendenze che già si intravvedono per il futuro, le lezioni apprese, le nuove opportunità.

Come tutte le grandi crisi, questa che stiamo vivendo spezza equilibri consolidati, accelera sviluppi che erano già in atto, espone fragilità più o meno nascoste. L’andamento della pandemia –
e soprattutto le risposte che i diversi governi hanno dato nell’emergenza – conferma la difficoltà delle società democratiche dell’Occidente a far fronte in maniera coordinata ed efficiente a un
pericolo nuovo: si riconoscono modelli diversi di reazione nei diversi paesi e una diffusa difficoltà ad allineare l’attività di governi, parlamenti e burocrazie. Ai contrasti interni – politici, ma anche
sociali e culturali – si aggiungono incomprensioni e fratture tra governi e paesi diversi: equilibri e rapporti di forza economica e politica vengono profondamente trasformati dalla pandemia; la
globalizzazione, come l’abbiamo vissuta negli ultimi trent’anni, è solo più argomento per i libri di storia.

I lockdown che accompagnano la diffusione del contagio trasformano il lavoro: si contano a centinaia di milioni nel mondo gli addetti – delle banche, assicurazioni e società finanziarie, delle
utilities, delle pubbliche amministrazioni ma anche degli studi professionali e delle società di informatica, dalle minuscole alle gigantesche – che da un giorno all’altro si ritrovano a lavorare da
casa; mentre le strutture sanitarie ma anche spedizionieri e corrieri infoltiscono i ranghi (la sola Amazon aggiunge oltre 400.000 persone ai suoi dipendenti, ossia cresce del 50 per cento in un
anno come numero di addetti), molti altri – a cominciare dai servizi legati all’ospitalità e al turismo e dal piccolo commercio – perdono redditi e posti di lavoro. Se però, come stiamo vedendo, le
persone hanno solo voglia di riprendere a viaggiare e a frequentare bar e ristoranti, altri comportamenti hanno subito mutamenti più profondi. Commercio on line e smart working sono qui per restare: a certificare la fine di un’epoca, nel 2020 le vendite di vestiti grigi – il simbolo del lavoro impiegatizio e manageriale nel secolo scorso – sono più che dimezzate rispetto al 2011.

In apparenza, e finora, l’impoverimento indotto dalla pandemia non ha messo paura alle Borse, che dopo alcune brusche cadute iniziali si sono riprese e hanno continuato a correre alla grande,
premiando in particolare le multinazionali dell’information technology e le società del settore biomedicale. Questa esuberanza può tuttavia indurre a sottovalutare alcuni rischi: fra i primi, la
ripresa dell’inflazione, alimentata da fattori più o meno contingenti (la scarsità di materie prime provocata dai lockdown e dalla rottura delle catene produttive che ne è conseguita; l’impennata
dei debiti pubblici, comune a tutti i paesi colpiti, che paradossalmente ha fatto accumulare liquidità sui conti correnti di chi avrebbe voluto ma non poteva più spendere) e da fattori strutturali: in primo luogo, la dinamica demografica, ossia l’invecchiamento della popolazione nei paesi sviluppati, Cina compresa, con la progressiva riduzione della popolazione attiva non controbilanciata da un’offerta “esogena” di lavoro, come invece era accaduto all’inizio della globalizzazione.

Alle prese con una crisi senza precedenti, l’Unione Europea, dopo qualche esitazione e qualche passo falso, trova la forza per una risposta condivisa e solidale. “Siamo ambiziosi. Non lasciamo
indietro nessuno. E offriamo prospettive per il futuro” dichiara all’inizio del suo mandato la neo Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Pochi mesi dopo l’impegno viene messo alla prova. Il risultato sarà l’iniziativa Next Generation EU, il cui asse è il cosiddetto Recovery Fund, volto a sostenere in tutti i paesi dell’Unione, e soprattutto in quelli più colpiti dalla pandemia, la transizione verde e digitale, nel quadro del cosiddetto Green Deal europeo: “il nostro trattato di pace con la natura”, come lo ha definito il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, ossia l’ambizioso obiettivo di raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050. Il che significa la possibilità di azzerare le emissioni nette di gas a effetto serra, in modo da avere un impatto climatico pari a zero.

Gli Stati Uniti, in cui il Presidente Donald Trump si è giocato la rielezione ai primi di novembre del 2020, rispondono alla crisi in maniera caotica sul piano strettamente sanitario e di controllo
dell’epidemia. L’Amministrazione Trump fa partire tuttavia un gigantesco piano di sostegno ai redditi di famiglie e imprese, e soprattutto avvia la cosiddetta Warp Speed Operation (Operazione
velocità della luce) che, attraverso una inedita collaborazione fra istituzioni pubbliche, ricerca e industria farmaceutica, sostenuta da decine di miliardi di dollari federali, realizza un’impresa
scientifica e organizzativa senza precedenti: dai primi casi documentati di Covid all’autorizzazione del primo vaccino passano solo undici mesi. Lascia però in eredità all’Amministrazione Biden un
paese sempre più diviso: all’interno degli Stati Uniti – anche, letteralmente, in senso geografico – si consolida una quota consistente di popolazione che si caratterizza per una rappresentazione del
mondo imperniata non solo su un diverso giudizio dei fatti quanto proprio su “fatti” diversi.

La Cina, a sua volta, reagisce alla pandemia mostrando una straordinaria volontà e capacità di controllo del contagio al proprio interno, dopo avere però sprecato le prime settimane cruciali in
cui, forse, il virus poteva essere contenuto e la pandemia evitata. Tanto il fallimento delle prime settimane quanto il successo dei mesi seguenti si devono al sistema politico cinese, che in seguito
ha provato a usare la pandemia come strumento di proiezione globale (per esempio, attraverso la donazione dei vaccini) e di affermazione internazionale del proprio “modello”. L’economia cinese
è la meno toccata nonché la prima a riprendersi e tornare alla crescita, ma ciò avviene in un contesto di riaffermata superiorità del partito stato (e dei suoi signori pro tempore) all’interno del paese e di chiusura crescente al resto del mondo, come gli esiti insoddisfacenti dell’indagine dell’OMS sull’origine del contagio o il giro di vite su Hong Kong ampiamente dimostrano.

Di fatto, il nuovo Presidente americano Joe Biden su un solo punto pare in sostanziale continuità con il suo predecessore Donald Trump: ed è quando afferma che “se la Russia è la maggiore minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti nell’immediato, il competitore primario però è la Cina”. Questa competizione è economica, scientifica, culturale, indirettamente militare. Si dispiega
su tutti gli scacchieri geopolitici internazionali, dall’Europa, al Pacifico, all’Africa, all’Asia Centrale. È, anche questa, un’evoluzione in corso da anni, ma che negli ultimi diciotto mesi ha subito una
brusca e vistosa accelerazione.

Sullo sfondo resta la questione del cambiamento climatico, una sfida che coinvolge tutto il pianeta, su cui la collaborazione a livello globale è indispensabile, e il cui successo si gioca largamente sui tempi. La transizione energetica incombe e un mondo diverso comincia oggi a delinearsi: sempre più auto elettriche, ricorso crescente alla produzione di elettricità mediante fonti rinnovabili, aumento dell’uso dell’idrogeno sia in campo industriale sia nei trasporti. La decarbonizzazione potrebbe rivelarsi il volano di una rivoluzione produttiva e ambientale capace di cambiare il mondo. Ovviamente, in meglio. Il problema diventano le scelte connesse, tutte squisitamente politiche.

E l’Italia, in tutto questo? Arrivato alla crisi dopo vent’anni di stagnazione, il nostro Paese ha oggi per la prima volta, con il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato con il Next Generation EU), le risorse per realizzare una trasformazione che non può essere solo produttiva. Alla riconversione dell’industria in direzione green e digitale devono accompagnarsi le riforme – in primo luogo giustizia, pubblica amministrazione e fisco – di cui hanno bisogno le imprese per esprimere il loro potenziale. Questo potenziale è straordinario, come dimostra la competitività inalterata della manifattura italiana, la ripresa dell’edilizia, la ritrovata solidità del sistema bancario, pur in un anno terribile. Di riforme però hanno bisogno non solo le imprese ma anche le persone. Ovunque nel mondo, la pandemia ha esacerbato le ingiustizie e colpito in modo più pesante i più deboli. In Italia, ciò si è tradotto in un ulteriore infragilimento del lavoro, in un
sostanziale passo indietro dal punto di vista reddituale e di partecipazione al mercato del lavoro delle donne, in un inasprimento dei divari fra il Nord e il Sud del Paese esteso, questa volta, a esiti
educativi che segneranno giovani e giovanissimi per gli anni a venire. Per ripartire l’Italia ha bisogno di investimenti “buoni”, in infrastrutture, in ricerca e innovazione, in formazione del
capitale umano.

Non è solo un problema italiano, certamente: quando il 30 e il 31 ottobre prossimo i capi di stato e di governo del G20 si incontreranno a Roma scopriranno, se ancora non lo sapessero, che il
nostro è un pianeta piccolo, dove nessuno è al sicuro se non siamo tutti al sicuro. Vale per la pandemia e le possibili evoluzioni del virus. Vale per il cambiamento climatico. Vale per la
condivisione della conoscenza scientifica e delle capacità tecnologiche. Vale per il contrasto alle ingiustizie che la pandemia ha per un verso esacerbato, per un altro verso illuminato. L’Italia ha
l’occasione di presentarsi al G20 mostrando di aver imparato dal passato. In questo caso, forse, avrà anche qualche cosa da insegnare.

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