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Storia delle epidemie - 31

L’influenza asiatica del 1957 e le analogie con la pandemia da Covid

Il morbo si diffuse inizialmente in tutta l’Oriente, trasmesso, si disse, da alcuni profughi cinesi in fuga da Mao, circostanza che in Occidente contribuì ad associare la Cina comunista non solo alla minaccia ideologica del comunismo (si era in piena Guerra fredda), ma anche a un pericolo biologico.

I timori, mai del tutto sopiti, di una pandemia simile alla spagnola, si ripresentarono nella seconda metà degli anni Cinquanta, con la comparsa del virus A/Asia/577. Il morbo si diffuse inizialmente in tutta l’Oriente, trasmesso, si disse, da alcuni profughi cinesi in fuga da Mao, circostanza che in Occidente contribuì ad associare la Cina comunista non solo alla minaccia ideologica del comunismo (si era in piena Guerra fredda), ma anche a un pericolo biologico.

Inizialmente poco attenti alle dinamiche della malattia in Asia, i mezzi d’informazione occidentali cominciarono a occuparsene con una certa apprensione quando, nel maggio del 1957, l’influenza colpì Hong Kong assumendo un carattere epidemico.

A parte le teorie sociopolitiche, si sa che il ceppo originò da una mutazione avvenuta nelle anatre selvatiche in combinazione con un ceppo umano già esistente. Il virus era già stato identificato per la prima volta nel 1954 nella provincia cinese di Guizhou. Raggiunse Singapore nel febbraio 1957, Hong Kong a maggio e gli Stati Uniti a giugno, in seguito l’Europa.

In contrasto a quanto osservato nel 1918, le morti si verificarono soprattutto nelle persone deperite, affette da malattie croniche, anziani, bambini piccoli e immunodepressi; meno colpiti da forme gravi furono i soggetti adulti e sani. A seguito dell’isolamento e dell’identificazione del virus, fu preparato un vaccino che contenne, in parte, l’epidemia. Il virus dell’Asiatica (un influenza di tipo A) era destinato ad una breve permanenza tra gli esseri umani e scomparve dopo soli 11 anni.

Come detto, l’Europa fu colpita per ultima, accompagnata da un crescendo di notizie che presentavano dinamiche e chiavi di lettura analoghe a quelle attuali. Nonostante l’altissimo numero di contagiati, che provocò la paralisi di interi comparti produttivi e sistemi educativi e mise a dura prova i vari sistemi sanitari nazionali (proprio in quegli anni oggetto di una riorganizzazione ed estensione in senso universalistico), il numero di vittime fu però incomparabilmente minore rispetto a quello dell’influenza del 1918-1920. Le autorità pubbliche non adottarono drastiche misure di limitazione del contatto sociale e fornirono ampio risalto a questo importante dato, con l’evidente finalità di tranquillizzare l’opinione pubblica.

Anziché rassicurare, però, questo fatto provocò la diffusione di notizie secondo le quali i governi stessero sottovalutando gli eventi o mentissero deliberatamente per nascondere alla popolazione la reale gravità della pandemia. Anche se l’evolversi della pandemia fu seguito in maniera sobria, non mancarono, come oggi, gli episodi contraddittori: alla fine di agosto il giornale “La Stampa” titolava: “Non giustificato l’allarme per l’influenza asiatica”, mentre dieci giorni dopo soltanto un piccolo trafiletto sul fondo di pagina 7 annunciava tra le “ultime notizie” l’arrivo del contagio in Piemonte. A ottobre, sempre su “La Stampa”, Il giornalista Paolo Monelli scriveva che “il terrore per una gentile influenza è dovuto solo al nome: asiatica”. Nel complesso, per aumentare le vendite, alcuni giornali usarono titoli a effetto e spesso vennero diffuse notizie false o non confermate o tendenti, come visto nell’esempio visto qui sopra, a una sottovalutazione.

La mediatizzazione della pandemia giunse comunque prevalentemente attraverso la stampa e solo in misura minore mediante la televisione, presente in alcune realtà, come l’Italia, solo da pochi anni, generalmente sotto un rigido controllo pubblico. Alcune centinaia di migliaia di italiani poterono comunque ascoltare e vedere in televisione il senatore Mott, l’Alto commissario per l’igiene e la sanità (il Ministero della Sanità sarebbe stato creato soltanto l’anno successivo), mentre garantiva che “il decorso della malattia era nel complesso benigno”. Mott potrebbe quindi essere stato il primo politico in assoluto a pronunciare in televisione le parole “non è il caso di allarmarsi”.

Allora come oggi la politica si divise, anche se l’epidemia non ottenne mai il centro del dibattito (nemmeno il contagio della moglie del presidente della Repubblica, il settantenne Giovanni Gronchi, riuscì a portare l’influenza in prima pagina). I comunisti accusarono il governo guidato dal democristiano Adone Zoli di non aver affrontato adeguatamente l’epidemia e dalle pagine del quotidiano di partito “L’Unità” scrissero che “si doveva e si poteva fare di più”.

In Francia le autorità furono costrette ripetutamente a negare l’imminente apertura di speciali centri di vaccinazione per arginare il dilagare della malattia.

In Italia si diffuse la notizia che l’epidemia fosse provocata da nuvole contaminate dalle radiazioni frutto degli esperimenti atomici. Un brutale delitto compiuto in quei giorni nella provincia di Milano fu attribuito al “delirio” provocato dall’influenza. Anche allora, come nel 1918, si tornò alle cure fatte in casa, con il risultato che non pochi furono i casi di avvelenamento. Ci furono anche dei casi di suicidio.

In Italia l’influenza asiatica arrivò molto prima delle classiche influenze stagionali. I primi casi, infatti, vennero riscontrati nel meridione, in piena estate, con Napoli, la città maggiormente colpita, che ad agosto vide un terzo dei suoi cittadini colpiti dal virus. A favorire la propagazione della malattia in tutta la penisola contribuirono i soldati di leva che, tra licenze, esercitazioni e parate, si muovevano per tutto il Paese.

Il bilancio in termini di vittime fu elevato, 1-2 milioni a livello globale, di cui 116mila negli Stati Uniti e alcune decine di migliaia in Europa. Le stime sui contagiati variano molto, tra il 10 e il 35 per cento dell’intera popolazione mondiale. In Italia contrasse la malattia un italiano su due, 26 milioni di persone, tra cui l’85 per cento della popolazione tra i 6 e i 14 anni. Con una mortalità stimata inferiore allo 0,2 per cento. L’influenza asiatica era comunque più pericolosa di una normale influenza stagionale, che ha una mortalità in genere dello 0,1 per cento e solitamente viene contratta dal 10-15 per cento della popolazione. In Italia, le morti causate dall’asiatica furono stimate in circa 30 mila, di cui 20.000 erano militari.

Il diverso contesto internazionale, la presenza di una rete di allerta globale, rappresentata in prima istanza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, costituita nel 1949 e dotatasi nel 1951 di un primo corpus di norme vincolanti per evitare la propagazione internazionale delle malattie, e la presenza di servizi sanitari nazionali, oltre ovviamente ai progressi della medicina, furono probabilmente i fattori che in parte influirono sull’esito di quella pandemia. I costi economici furono invece ingenti, sia in termini di ore di lavoro perdute sia di spese sanitarie.

Da sottolineare che la produzione di vaccini per l’influenza asiatica iniziò circa tre mesi dopo i primi focolai verificatisi in Cina: nell’Istituto di microbiologia di Wright-Fleming di Londra, venne prodotto un vaccino che limitò e rallentò gli effetti dell’epidemia in modo significativo, anche se non riuscì a debellarla. Le prime dosi di vaccino sono diventate disponibili a settembre e a metà ottobre, al culmine della pandemia negli Stati Uniti, era stata somministrata meno della metà dei circa 60 milioni di dosi prodotte.

Nel dicembre 1957 il peggio sembrava essere passato. Tuttavia, durante il gennaio e il febbraio 1958, ci fu un’altra ondata di malattia tra gli anziani. Questo è un esempio della potenziale “seconda ondata” di infezioni che possono svilupparsi durante una pandemia. Come il Covid-19 ci ha insegnato, la malattia infetta prima un gruppo di persone, le infezioni sembrano diminuire e poi le infezioni aumentano in una parte diversa della popolazione.

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