Il 12 agosto 2001 la vita di Severa Giudici e di suo marito Eraldo Cossali è cambiata per sempre.
Era un sabato, a tarda sera: Debora, la loro unica figlia, stava rientrando dal lavoro quando a Parre, a pochi chilometri dalla casa di Cerete dove vivono, un’altra auto travolse la sua.
Poi la corsa d’urgenza in ospedale a Bergamo, dove i medici da subito sono stati chiari con la famiglia: “Ci hanno detto che c’era poco da fare – racconta mamma Severa – È rimasta comunque altri due giorni in ospedale, perchè così dice la legge: l’hanno operata, drenando il sangue dell’emorragia. Alla fine ci hanno chiamati, mettendoci di fronte a un dilemma: insieme a suo marito dovevamo scegliere se donare o meno i suoi organi”.
Dell’argomento, però, in famiglia se ne era parlato qualche mese prima, a cena di fronte alla tv: “Ricordo un monologo di Adriano Celentano, durante il quale si disse sostanzialmente contrario alla donazione – continua Severa – Un discorso che ci diede fastidio e fu proprio Debora a sottolineare quanto fosse inopportuno. Ci disse: ‘Io sarei favorevole, se questi organi non servono più a me perchè non dovrei donarli?’. Aveva deciso di iscriversi ad Aido, si stava informando”.
Parole dentro una conversazione familiare come tante altre e che, invece, si sono rivelate tremendamente necessarie: perchè quella volontà espressa in modo così chiaro, che Debora avrebbe voluto mettere nero su bianco, ha aiutato Severa ed Eraldo a compiere una scelta che è stata comunque complicata, in un momento di ineguagliabile dolore.
“Aveva 27 anni, si era sposata appena un anno prima – ricorda la mamma con la voce ancora rotta dalla commozione – Era giovane e sana, gli unici organi compromessi nell’incidente erano i polmoni. Il suo cuore è andato a una donna di 43 anni di Pavia, il rene a una donna bergamasca di 46, l’altro rene e il pancreas a un uomo di Milano, il fegato, diviso in due, a una donna di Padova e a una bambina che in quel momento si trovava ricoverata a Bergamo. Per un anno intero ho telefonato al centro trapianti per sapere delle loro condizioni di salute, ho sempre augurato a tutti ogni bene e spero che si ricordino di mia figlia nelle loro preghiere”.
Quello fu il loro primo incrocio con il mondo della donazione, ma non l’ultimo.
Da donatori, infatti, 6 anni più tardi Severa ed Eraldo si sono trovati dall’altra parte della barricata: “A mio marito è stato diagnosticato un tumore al fegato – continua – È stato un altro choc, perchè quindici anni fa non c’erano così tante informazioni sul trapianto, che ci dissero subito essere l’unica via. Io non posso far altro che elogiare tantissimo i medici che abbiamo trovato sulla nostra strada: ci hanno spiegato tutto nei dettagli, senza negare che esistesse una buona quota di incertezza sull’effettiva riuscita dell’intervento. Mio marito è un gruppo B positivo, abbastanza raro, con pochi donatori ma anche poche persone in lista d’attesa: a settembre 2007 si è messo in coda e a novembre è stato trapiantato agli allora Riuniti. Dio ha voluto che l’intervento andasse bene”.
Nel momento di gioia per il successo del trapianto, Severa ha ripensato a quando era toccato a lei decidere per la donazione degli organi della figlia: “Sapevo che in quello stesso istante una famiglia stava piangendo un caro che non c’era più, presumibilmente un giovane in buona salute come la mia Debora – racconta – Mi ha fatto pensare: il fegato era appena arrivato dal Piemonte, i medici stavano per salvare mio marito, ma c’era sicuramente una famiglia disperata come lo eravamo noi nel 2001″.
Il percorso di avvicinamento a quel momento non è stato affatto semplice: “È stato difficile da accettare, è complicato sia psicologicamente che fisicamente – sottolinea – Poi, però, è ritornata la vita. L’intervento è stato da manuale, in quindici giorni era fuori dall’ospedale. Piano piano impari a conviverci, passando da controlli frequentissimi a quelli solo annuali come ora. Ogni volta che ci venivano dilatati i tempi tra un esame e l’altro io mi preoccupavo: i medici, con grande delicatezza e professionalità, mi hanno spiegato che invece era un bel segnale, che mio marito stava bene. La sua malattia mi ha spinto a lottare per lui e mi ha distolto un po’ dal pensiero fisso di nostra figlia”.
Ma Severa non vuol sentire parlare di “ricompense”: “Abbiamo donato perchè quello era il desiderio di nostra figlia e negli anni ho poi realizzato la profondità delle sue parole, quando ci diceva che ciò che a lei non sarebbe più servito ad altri avrebbe salvato la vita. Grazie a Dio il trapianto di mio marito è andato per il verso giusto, in quei momenti ci siamo messi nelle sue mani perchè la fede è l’unica cosa alla quale ti puoi attaccare per avere un po’ di sollievo. Ci siamo sempre chiesti il perchè sia capitato a noi, ma un risposta non esiste”.
Esperienze di vita ruvide, che hanno tracciato un solco profondo: oggi a riempirlo parzialmente è la consapevolezza che la scelta di donare sia un gesto d’amore infinito.
“Ma è una decisione che va presa per tempo – è l’appello di Severa – Quando siamo stati chiamati a dare la nostra testimonianza speriamo di aver almeno spinto ragazzi e non ad elaborare un pensiero sul tema. Perchè già è durissima affrontare un lutto: in quello stato mentale si potrebbero prendere decisioni affrettate e per le quali non si è mai preparati”.
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