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L'intervista

Lo storico bergamasco che trova cimeli della Grande Guerra sulle Alpi: “Come una macchina del tempo” fotogallery

Il ritiro dei ghiacciai sulle Alpi della Lombardia e del Tentino Alto Adige sta rivelando nuovi reperti e tra i protagonisti del recupero c'è Stefano Morosini: "Toccare con mano le condizioni estreme di fame, freddo, povertà e sofferenza in cui hanno vissuto i soldati, e che i reperti rilevano, ha scatenato un’empatia con questi poveri ragazzi al fronte ancora più umana, profonda".

Il ritiro dei ghiacciai sulle Alpi della Lombardia e del Tentino Alto Adige sta rivelando nuovi reperti della Grande Guerra (1915-1918).

La “guerra bianca”, definita così proprio perché ha attraversato le alte cime delle Alpi e delle Dolomiti svela, a più di un secolo di distanza, la vita – e la morte – che è passata in quei luoghi. Dalla baracca in legno che i soldati austro-ungarici scavarono in una grotta sulla vetta del Monte Scorluzzo (3094 metri di altitudine) che domina il passo dello Stelvio, spuntano armi, munizioni, oggetti di vita quotidiana, lettere e diari dei soldati che in questo angusto spazio restarono per oltre tre anni e che si sono conservati congelati per più di un secolo. Ghiaccio che ora, sciogliendosi via via a causa del riscaldamento globale, ci offre preziosi reperti storici.

La presenza della caverna sul Monte Scorluzzo era già nota, ma è stato solo nel 2015, quando il ghiaccio che l’aveva occlusa ha iniziato a sciogliersi, che i ricercatori hanno potuto entrare. Il rifugio era stato chiuso quando la guerra finì nel novembre 1918; i soldati lo abbandonarono in tutta fretta e lì restarono gli oggetti della loro vita quotidiana: letti di paglia, vestiti, lanterne, giornali, cartoline, monete, cibo in scatola, ossa di animali.

Tra i protagonisti di questo progetto, promosso da Ersaf (Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste) e dal Parco nazionale dello Stelvio, e realizzato con la collaborazione del Museo della Guerra Bianca di Temù in Adamello, c’è Stefano Morosini, storico bergamasco, ricercatore associato all’Università della Svizzera italiana e docente all’Università degli studi di Bergamo nonché dirigente del CAI e grande appassionato di montagna, che del Parco dello Stelvio è il consulente storico.

Morosini sta partecipando e seguendo sul campo le ricerche che, solo pochi giorni fa, grazie ad un’inchiesta giornalistica del quotidiano inglese The Guardian, hanno fatto il giro del mondo rimbalzando da The New York Times alla CNN, Daily Mail, EuroNews, The Independent e molti altri.

Ai microfoni c’era lui, Stefano Morosini, con cui abbiamo avuto il piacere di chiacchierare anche noi.

Innanzitutto: è emozionato?

La sensazione è quella di aver viaggiato con una macchina del tempo ed essermi ritrovato sullo scenario della Grande Guerra. Ho visto oggetti che erano lì dal 1918, che nessuno ha mai toccato e che sono giunti a noi perfettamente conservati. La conservazione di questi reperti è forse l’unico aspetto positivo di un fenomeno globale drammatico: il surriscaldamento del nostro pianeta. Toccare con mano le condizioni estreme di fame, freddo, povertà e sofferenza in cui hanno vissuto i soldati, e che i reperti rilevano, ha scatenato un’empatia con questi poveri ragazzi al fronte ancora più umana, profonda. La guerra è sempre dolorosa, ma combattuta in alta montagna a meno 40 gradi sotto zero e con mezzi di fortuna, totalmente inadeguati al contesto, rende tutto ancora più assurdo, insensato.

Cosa ci raccontano questi reperti?

Che la Prima guerra mondiale è stata anche una guerra contro la Natura, che lì si è rivelata ‘matrigna’. Sono state ritrovate giacche e guanti di pecora e pelli di animali, noccioli di albicocca svuotati dall’interno e ossa di bovino scavate allo stesso modo per cibarsi della parte molle. Emerge la totale inadeguatezza dei mezzi e una privazione alimentare incredibile. Così fu per entrambe le parti: questa guerra è stata un dramma sia per l’esercito italiano che per quello austroungarico, che hanno condiviso le stesse disumane condizioni.

Tra i ritrovati, cosa l’ha colpita di più?

Una piccola bilancia per pesare il pane, non diversa da quelle presenti nei campi di concentramento, usata per razionare il cibo al minimo della sopravvivenza. E poi una lettera del 1917 scritta da un ragazzo del 1900 che quindi su quel fronte e in quelle condizioni stava a soli 17 anni, poco più che bambino.

Come saranno valorizzate le nuove scoperte?

Il ritrovamento di questo sito, sostenuto con finanziamenti provenienti dall’Unione Europea, dallo Stato italiano e dalla Regione Lombardia con un investimento di circa tre milioni di euro, permetterà di realizzare un museo interamente dedicato alla Prima guerra mondiale che sorgerà nel centro storico di Bormio, in Alta Valtellina. Qui sarà esposta la struttura lignea della caserma ritrovata, e tutti i reperti storici. I reperti sono ora conservati nel Museo della Guerra Bianca in Adamello, mentre la struttura della baracca è conservata nei depositi del parco dello Stelvio. Attualmente ci troviamo in chiusura della progettazione definitiva del nuovo museo la cui apertura è prevista a fine 2022.

Un nuovo museo è anche un elemento di rilancio del turismo di quei luoghi?

Certamente. La visibilità internazionale che sta avendo questo progetto di ricerca è sbalorditiva. Il museo della ‘guerra bianca’ è una grande occasione per attirare un turismo di qualità, attento ai temi della cultura e della sostenibilità ambientale. Questa guerra è stata combattuta sulle Alpi non in altri luoghi, e questi luoghi hanno l’opportunità, che è anche una grande responsabilità, di raccontarla in modo autentico, scientificamente rigoroso e fruibile ai più.

Un lavoro europeo, di squadra e multidisciplinare.

Il progetto di ricerca europeo che sto coordinando sta finanziando borse di studio in diversi centri di ricerca italiani che quotidianamente impegnano ricercatrici e ricercatori di diverse discipline. Il Parco nazionale dello Stelvio è già da anni un grande laboratorio di ricerca interdisciplinare, dal cambiamento climatico agli aspetti faunistici; oltre alla natura si fa carico anche della valorizzazione degli elementi storici del suo territorio. Questo ritrovamento è un soggetto di studio molto interessante in chiave interdisciplinare e impegna diverse materie di studio e approfondimento, dalla glaciologia alla botanica, all’epidemiologia alla genetica finanche all’economia del turismo. Attorno alla parte di ricerca storica gravitano undici centri di ricerca, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche a numerose Università e musei, coordinanti dall’Università degli studi di Padova.

Qual è il messaggio profondo che questo museo può offrire a partire dai più giovani?

La disumanità che emerge dai reperti rende ancor più comprensibile la scelta che fecero i Padri costituenti nella scrittura dell’art. 11 della Costituzione, che afferma che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (…)”. Ripudiare è un verbo che esprime tutta la forza di una scelta radicale, definitiva. Il nuovo museo che presenterà gli orrori della Prima guerra mondiale vorrebbe essere un monito per tutti.

reperti stelvio

 

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