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Il commento

Piazza de André, l’omaggio di Bergamo a una figura fondamentale della nostra cultura popolare

Marco Cimmino commenta l'intitolazione a Faber della piazza di fronte alla vecchia centrale di Daste e Spalenga, partita da una sua iniziativa

Il sole sembrava accarezzare la piazza, e sfiorare quelle piante inverosimili, sospese su una roggia d’altri tempi, mentre il profilo purpureo di Città Alta salutava la pianura. Di fronte alla vecchia centrale di Daste e Spalenga, restituita a nuovi fasti, un semicerchio di persone, intorno a una targa, ancora coperta da una bandiera tricolore.

Mi sono unito a loro, con quel sentimento di sospetto e di indefinibile disagio che mi accompagna sempre in queste circostanze. Ma si trattava di intitolare quella piazza a Fabrizio de André e bisognava esserci, perché De André è stato un prezioso dono per tutti, un genio di tutti.

Proprio per questo, in una città come la nostra, piuttosto campanilista nell’odonomastica, nulla ha pesato il suo non essere bergamasco, nella decisione di intitolargli uno spazio pubblico. Accanto alla targa, il Sindaco Gori e Dori Ghezzi: poche parole, essenziali, e poi la scopertura. Nessuna retorica, nessuna pretesa di propaganda, ma solo poche frasi, succinte e decorose.

Poi, all’interno della bellissima struttura, restituita alla città, il concerto: tre musicisti, anziani, compagni d’avventura del Faber, di mostruosa abilità, tanto che pareva di ascoltare i dischi e non una performance dal vivo.

Peccato per il cantato: l’assenza del vocalist ha costretto uno dei tre a cantare, con voce rotta. Unica pecca: la voce profonda e avvolgente di De André era lì, come un convitato di pietra, a determinare lo iato tra l’oggi e lo ieri. Ma, bravi, anzi, bravissimi, per il resto.

Io mi guardavo attorno, in quella sala immensa, dall’altissimo soffitto, e mi domandavo, come, probabilmente, tutti si domandavano: che ne parrebbe al Faber di questo nostro modo di dimostrargli affetto, e ricordo, e nostalgia? E, quasi, mi sembrava di vederlo occhieggiare, lassù, tra le enormi tubature e il ponteggio sospeso, spettatore in disparte: davvero, come gli sarebbe sembrata tutta la faccenda? Mentre sul palco cantavano “Bocca di rosa”, era patente un moto di imbarazzo e, forse, di fastidio, del generale, del colonnello, del vice-questore, al risuonare di certe strofette, poco deferenti verso l’Arma e le armi in generale.

Ma questo era Faber: prendere o lasciare: niente di personale. La cosa migliore, la cosa più vera, al di là delle inevitabili convenzioni, è stata l’essere lì a ricordare il cantore dei nostri anni più belli: a dimostrargli, per una volta, tangibilmente, la nostra gratitudine.

Quel complesso restaurato, quella piazza, quel bellissimo bar ristorante, dato in gestione a bravissimi giovani chef e sommelier, è il grazie di Bergamo a una figura fondamentale della nostra cultura popolare: è un tributo a una delle icone del XX secolo.

Poco importa che qualche imbecille ne faccia una questione politica: ieri sera, la politica era lontana mille anni.

C’era amicizia, nostalgia, voglia di stare assieme: non politica, perlomeno come la si intende comunemente.

Alla fine, siamo finiti a un tavolo, Gori, Valesini e io, con uno spirito che di politico aveva poco. Era una bella cena che concludeva una bella serata: il commis era un mio ex alunno, Dori Ghezzi, chiacchierava rilassata con le sue compagne di tavolo.

C’era nell’aria una gran voglia di normalità, di socialità, di gioia, in definitiva. Insomma, una serata perfetta. La serata che speravo sarebbe stata una serata dedicata a Fabrizio de André.

I miei dubbi, i miei pregiudizi, erano del tutto dissipati. E, mentre andavo via, in vespa, passando accanto alla vecchia centrale nata a nuova vita, ho buttato un’occhiata verso il cielo. C’era qualcuno, seduto a cavalcioni dell’ampio cornicione di una finestra: assomigliava terribilmente al Faber. E mi è sembrato che sorridesse.

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