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Storia delle epidemie - 28

Nel mezzo della Grande Guerra, il misterioso virus dell’encefalite letargica

Uno dei lavori più noti sull’argomento è “Risvegli” del neuropsichiatra newyorkese Oliver Sacks che, nella metà degli anni Sessanta, prese in cura alcuni pazienti vittime del virus nel Bronx. La vicenda è raccontata anche dall’omonimo film con Robert De Niro e Robin Williams

I tempi erano oscuri. Mai a memoria d’uomo era scomparsa tanta gente nei campi di battaglia. Gli uomini si erano dati la morte con una furia e con mezzi tecnologici mai visti prima. E quando la Grande Guerra era ancora nel pieno del suo orrore, era comparsa una enigmatica malattia a continuare la semina mortale, presto seguita da un’altra epidemia sconvolgente, l’influenza spagnola, destinata a mietere decine di milioni di vittime. Anche la natura ci si era dunque messa, dispiegando una forza dirompente che con singolare coincidenza aveva sferzato le società umane proprio nel momento della loro massima fragilità.

Lo spazio si restringeva e il tempo rallentava. Era come se il corpo si trasformasse in una prigione, congelato su sé stesso. Il volto inespressivo, lento, senza mimica, come una maschera. “Sono come vulcani spenti” commentò sconsolato un medico che tentava di guarire quei malati ancora vivi ma sprofondati in uno stato di totale apatia e prostrazione. La pelle lucida, cerea, lo sguardo assente, perso lontano verso spazi indefiniti. Tuttavia questa generale rarefazione della vita era stranamente contraddetta da segni esagerati di movimento. Allora i globi oculari iniziavano improvvisamente a ruotare e la bocca si contorceva disegnando strani arabeschi mentre la lingua protendeva in tutte le direzioni. Oppure erano gli arti e il capo a scuotersi d’improvviso e a muoversi casualmente disegnando archi bizzarri lungo direzioni prive di significato, senza alcun fine. Talvolta poi era l’intero corpo a essere dominato da un attacco epilettico. Una contraddizione motoria. Un enigma.

Questi malati erano stati colpiti dall’encefalite letargica, un virus misterioso che apparve in Europa e negli Stati Uniti fra il 1916 e il 1917. Venne chiamata anche “malattia del sonno europeo”, in opposizione alla Trypanosomiasi africana, trasmessa dalla celebre mosca tse-tse. I malati mantenevano un barlume di lucidità, si ricordavano chi fossero e dove fossero ricoverati, ma in pratica trascorrevano le loro giornate dormendo: avrebbero potuto morire di inedia nel sonno. Si svegliavano per brevi periodi solo se sollecitati dagli infermieri. La gran parte di loro non riuscì a sconfiggere il morbo, che in pochi mesi compiva un decorso fatale. E anche chi sopravvisse restò per tutta la vita in uno stato di sopore e permanente astenia “simile a una statua”; alcuni di loro erano attraversati da continui tremori, altri ancora scivolarono verso la psicosi e la follia.

La piaga durò circa dieci anni, uccise 5 milioni di persone e poi scomparve per sempre. Mai più nessuna epidemia, nessun focolaio soltanto qualche caso isolato. La mortalità era elevata, potendo raggiungere, in alcune casistiche, il 30% e persino il 50% dei casi colpiti. Il virus però venne pressoché ignorato dall’opinione pubblica ma anche dalla comunità scientifica, perché dalle trincee della Prima guerra mondiale arrivò, come suddetto, l’Influenza spagnola (che sarà argomento della prossima puntata).

C’è anche chi ha supposto che la più celebre vittima dell’encefalite letargica fosse Adolf Hitler che, come è noto, negli ultimi anni di vita era percorso da bruschi tremori e aveva perso il controllo della mano sinistra; sarebbe stato in tal senso lo stato confusionale provocato dal morbo a spingerlo ad attaccare la Russia nel 1941. Ma questa rimane poco più di una suggestione.

L’encefalite letargica fu scoperta quasi contemporaneamente da due neurologi, il francese Jean- René Cruchet e l’austriaco Constantin von Economo e per questo nei manuali medici appare con il nome di “Sindrome di von Economo-Cruchet”. Entrambi descrivevano un “forte rigonfiamento delle pareti cerebrali che conduce a un profondo letargo”.

La cause mediche della sindrome sono ancora incerte, avvolte da una nuvola di ipotesi e supposizioni: le più accreditate evocano un’origine autoimmune o comunque una reazione autoimmune a altre infezioni virali o batteriche, come per esempio l’influenza che si combina molto bene con le encefaliti. Di sicuro diversi sintomi sono molto somiglianti a quelli provocati dal morbo di Parkinson, ma il rapporto tra le due patologie è tutto da stabilire. La gestione dei traumi post- encefalici era tutt’altro che facile e fino agli anni Sessanta non si trovarono terapie efficaci per alleviare la vita dei malati.

Nel 2010 la Oxford University press pubblicò un lungo articolo consacrato all’encefalite letargica definendola “il più grande enigma medico del XX Secolo”, aggiungendo che, sostanzialmente, le conoscenze odierne non sono molto diverse da quelle che la medicina aveva negli anni Trenta, concludendo che l’eziologia e gli agenti causali del virus sono “ancora del tutto oscuri”.

Gli epidemiologi, gli storici e anche gli scrittori si sono sbizzarriti nel ricercare la prima apparizione di questo misterioso virus. L’austriaca Laurie Winn Carlson ha avanzato una tesi affascinante: la malattia sarebbe nata in alcune comunità della Nuova Inghilterra intorno alla fine del 17esimo Secolo, il focolaio sarebbe stata la cittadina di Salem, teatro tra il 1692 e il 1693 del più celebre processo alle “streghe” della storia americana, che portò all’esecuzione di 14 donne e sei uomini. Una psicosi collettiva che individuò nei comportamenti “bislacchi” di diverse giovani donne affette da mutismo, allucinazioni, crisi psicotiche: una chiara testimonianza di “stregoneria”.

Ecco cosa scrive Winn Carlson nel suo “A fever of Salem”: “Comparando i sintomi descritti dai coloni americani con quelli dei pazienti colpiti da enchephalitis lethargica all’inizio del 20esimo Secolo, una combinazione che accredita le ipotesi secondo cui la caccia alle streghe della Nuova Inghilterra fu una risposta ai comportamenti inesplicabili dovuti all’epidemia di encefalite”.

Uno dei lavori più noti sull’argomento è senza dubbio “Risvegli” del neuropsichiatra newyorkese Oliver Sacks che, nella metà degli anni Sessanta, prese in cura alcuni pazienti vittime del virus nell’ospedale Beth Abraham del Bronx. La vicenda è raccontata anche dall’omonimo film interpretato da Robert De Niro e Robin Williams. Era il 1965 quando Oliver Sacks entrò a far parte dell’equipe medica dell’ospedale e fu proprio in questo luogo che conobbe alcuni pazienti postencefalitici rinchiusi dai tempi dell’epidemia di encefalite letargica avvenuta quasi cinquant’anni prima.

Si trasferì poi al Il Mount Carmel Hospital, un ospedale per malati cronici, per cui era difficile trovare medici disposti a lavorarci; tuttavia era la sola struttura in cui poter studiare determinate tipologie di pazienti, specie quelli con disordini neurologici gravi. Qui vi trovò il più folto gruppo di pazienti postencefalitici di tutti gli Stati Uniti, un’ottantina in tutto. Molti di questi si trovavano in condizioni drammatiche: immersi in una sorta di sonno patologico, senza possibilità di proferire parola o effettuare movimenti e totalmente dipendenti dalle cure del personale infermieristico. Tra il 1966 e il 1969 che Sacks riunì tutti i pazienti postencefalitici nell’ospedale e ne fece gruppo a parte cercando in tutti i modi di trattarli prima come persone piuttosto che pazienti cronici.

Tutto il personale che si occupava di questi pazienti fece il possibile per migliorare la loro qualità della vita: dalle ricerche per ritrovare parenti e amici al comportamento atto a eliminare il classico e freddo rapporto personale-paziente. Molti di questi pazienti subivano la malattia in maniera del tutto soggettiva. Alcuni di essi avevano perso ogni speranza, raggiungendo uno stato di completa assenza sapendo che non vi erano più possibilità di risvegliarsi.

Altri (ma forse tutti), non accettavano lo stato delle cose; si sentivano come derubati dei migliori anni della loro vita e questo li distruggeva e li portava a desiderare oltre che una cura, anche una sorta di risarcimento per tutto ciò che avevano perduto.

Fu proprio grazie al contributo di Oliver Sacks che i pazienti postencefalitici del Mount Carmel riuscirono a “ritornare alla vita”, anche se solo per un breve periodo. Egli chiamò questo periodo “risvegli” perché, effettivamente, si trattò di un risveglio da un sonno, dovuto alla malattia, durato decenni e decenni: “Risvegli è la sola descrizione che esista per quei malati, del loro pluridecennale “sonno” e del loro improvviso e clamoroso “risveglio” nel 1969.”

Ancora Sacks: “Ciò che è stato sprezzantemente liquidato dalla maggior parte dei miei colleghi si dimostrò esattamente il contrario (per me): era una situazione ideale in cui osservare, assistere, esplorare. Risvegli sarebbe stato scritto, io credo, anche se non ci fosse stato alcun “risveglio”; sarebbe stato (…) un resoconto dell’immobilità e del buio di queste vite fermate e congelate, nonché del coraggio e della rassegnazione positiva con cui i pazienti, nonostante tutto, affrontavano la vita”.

Erano quindi pochi i medici disposti ad analizzare minuziosamente questa tipologia di malattia e soprattutto la tragedia umana che si consumava dietro di essa. L’approccio di Sacks ai pazienti era del tutto singolare e totalmente dissimile da quello dei suoi colleghi. Era la persona giusta nel posto giusto, vista la sua estrema curiosità nel comprendere i meccanismi più profondi e le implicazioni neurologiche che si esprimevano in chi soffriva di questa peculiare malattia. Inoltre la sua umanità, la sua disponibilità all’ascolto e alla comprensione e, soprattutto, la sua attitudine a trattare questi pazienti come persone prima che malati, lo rendeva il medico perfetto per quel tipo di ambiente clinico.

Per meglio comprendere l’operato di Sacks nei confronti dei pazienti e del suo lavoro, possiamo iniziare col dire che era il tipo di medico che passava dalle 12 alle 15 ore al giorno con i malati. In questo tempo cercava in tutti i modi di partecipare al loro stato: li osservava, li studiava, ci parlava (anche se non rispondevano) e teneva lunghi diari in cui annotava tutte le eventuali reazioni e situazioni che si venivano a creare. Inoltre, documentava il tutto con la sua macchina fotografica, essendo consapevole del fatto che determinate cose non si erano mai viste e, con tutta probabilità, non si sarebbero più viste.

Il dottor Sacks, oltre a utilizzare con profitto la musicoterapia, somministrò ai malati un farmaco che ebbe effetti davvero notevoli il “L-Dopa”, un “farmaco miracoloso” che ha reso possibile, seppur per un periodo di tempo limitato, il risveglio dei pazienti postencefalitici.

Già alcuni anni prima degli studi di Sacks, si scoprì, nel 1960, che nelle persone affette dal morbo di Parkinson le aree del cervello colpite avevano difficoltà a metabolizzare la dopamina. Infatti, come afferma lo stesso Sacks: “Le parti colpite del cervello presentavano un deficit del neurotrasmettitore della dopamina, […] in quelle aree vi era inoltre un’alterazione del trasporto e del metabolismo della dopamina”. Nei pazienti che soffrivano di encefalite letargica, si provò a quindi a somministrare il precursore naturale della dopamina ossia la L-Dopa (levo-diidrossifenilalanina) con risultati assolutamente incoraggianti.

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