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Storia delle epidemie - 26

Le ultime pandemie dell’Ottocento: un milione di morti per l’influenza russa

Ma anche morbillo e peste ammorbarono il mondo e l'Europa

Morbillo, peste, influenza mortale: sono le ultime epidemie dell’Ottocento.

Morbillo

Il morbillo ha accompagnato molta storia dell’uomo, visto che la sua comparsa viene datata tra il 600 e il 500 a.C. Il virus era già presente in Medio Oriente e India già 4.000-8.000 anni fa, ma solo come responsabile della peste bovina. Il microrganismo avrebbe fatto poi un salto di specie dai bovini agli uomini quando si sono formati gli agglomerati urbani. Infatti, nelle antiche città, l’agente patogeno ha potuto circolare e rimanere stabile grazie alla densità abitativa. All’inizio il morbillo non è stato riconosciuto, ma veniva confuso con varicella, scarlattina e vaiolo. Tuttavia la malattia eritematosa è differente perché non lascia segni, al contrario ad esempio del vaiolo, ritrovato su mummie egiziane

Così, nelle aree affollate, il virus ha trovato un habitat favorevole, sviluppandosi e contagiando gran parte della popolazione. In questo modo, il Morbillivirus in passato ha causato epidemie cicliche, con centinaia di migliaia di morti, soprattutto nelle città medievali, decimate dal virus che ha bisogno di 250.000-500.000 persone per generare epidemie.

Le epidemie di morbillo nei secoli passati si scatenavano con una certa ciclicità: in alcuni periodi si verificavano epidemie contenute della malattia ogni 2-5 anni. In Europa, nel V secolo, l’esistenza del morbillo è stata sospettata a Vienna per un’epidemia caratterizzata dai sintomi specifici. Sulle isole britanniche, tra il VI e l’ XI secolo, si registrarono per iscritto ben 49 “piaghe”, molte delle quali ritenute epidemie di morbillo: una media di 1 epidemia ogni 10 anni, giusto il tempo di far raggiungere alla popolazione locale un numero tale da consentire la propagazione di una nuova infezione.

Soltanto nel IX-X secolo, l’infezione viene separata dalle altre, come si evince dal “Libro del vaiolo e del morbillo” scritto dal medico persiano al-Razi. Secondo l’autore, che descrive accuratamente il disturbo, il morbillo era una patologia più temuta del vaiolo. In seguito alle scoperte di al-Razi fu realizzata una documentazione scientifica, di rilievo storico, sulla malattia in Europa e Nord Africa.

L’epidemia di morbillo di Cuba nel 1529 causò la morte di due terzi della popolazione nativa che si stava riprendendo da un altrettanto letale epidemia di vaiolo. Due anni più tardi, il morbillo fu responsabile per la morte di metà della popolazione nativa dell’Honduras, causando decine di migliaia di morti anche in tutta l’America Centrale fino a colpire la civiltà Inca. Nel 1533, verso il termine della spedizione di Francisco Pizarro in Perù, scoppiò un’altra epidemia di morbillo in Nicaragua, poco dopo il passaggio di Pizarro. Non fu l’ultimo episodio di contagio di massa della popolazione nativa: per almeno un altro secolo la popolazione nativa verrà letteralmente sterminata dal morbillo, dal vaiolo, dall’influenza e da altre malattie infettive.

La patologia da Morbillivirus e la sua diversità da altre analoghe sono state chiarite nel 1676 dal dottor Thomas Sydenham. Nel trattato “Osservazioni mediche sulla storia e sulla cura delle malattie acute”, il medico fornisce i primi dettagli sulla malattia. Ma solamente nel 1757 è stato evidenziato che il morbillo è dovuto a un agente infettivo presente nel sangue dei malati.

Nel 1875, poco dopo che le isole Figi vennero annesse all’Impero Britannico, esse vennero devastate da una tra le più drammatiche epidemie causate dal morbillo. Proveniente dall’Australia il virus provocò morte e distruzione. Le isole furono disseminate di cadaveri e interi villaggi furono bruciati. Un terzo della popolazione, per un totale di 40.000 persone, morì.

Il morbillo può indurre complicazioni come diarrea o encefalite, e gli adulti tendono a sperimentare complicazioni più severe. In secoli ben lontani dalle conquiste della medicina moderna e caratterizzati da un basso livello di igiene, avere un sistema immunitario indebolito esponeva a seri rischi e poteva facilmente minacciare la sopravvivenza di moltissimi pazienti.

Peste

Una pandemia di peste ebbe inizio intorno al 1855 nella provincia cinese di Yunnan. Per via dello spostamento di truppe, conseguente alla “guerra dell’oppio” contro l’Inghilterra conclusasi nel 1842, produsse, in quest’area, una rapida diffusione dell’epidemia, culminata nel 1855 lungo la costa meridionale della Cina, al confine col Vietnam, Laos e Myanmar. Da lì la malattia si diffuse velocemente. La peste arrivò in Russia nel 1877 nelle aree rurali vicine alla catena degli Urali e al Mar Caspio, arrivando poi a colpire Hong Kong, dove uccide due milioni di persone, a Canton nel 1894, e a Bombay nel 1898, mentre negli anni seguenti, si propagò rapidamente nel mondo intero tramite le navi a vapore delle flotte commerciali che avevano sostituito i vascelli a vela. La propagazione raggiunse l’Africa, l’Europa, le Hawaii, l’India, il Giappone, le Filippine e il Sud America. Nell’arco di 10 anni (1894-1903), la peste comparve in 77 porti dei 5 continenti.

Durante la grande pandemia di peste che colpisce Hong Kong nel 1894, un giovane medico svizzero naturalizzato francese, Alexandre Yersin, che aveva lavorato per l’Istituto Pasteur di Parigi e già si era trasferito nel Sudest asiatico, viene inviato a Hong Kong dal governatore francese dell’Indocina, preoccupato che il contagio possa estendersi. Ha il compito di studiare la malattia e cercare di scoprire l’agente patogeno, ma gli inglesi non gli concedono il permesso di lavorare nell’ospedale. Così Yersin si costruisce una baracca, la adatta a laboratorio di fortuna, si procura per suo conto i cadaveri e comincia a studiare i bubboni, ottenendo in breve due risultati fondamentali: in primo luogo, identifica il microrganismo responsabile della malattia, il coccobacillo (cioè un batterio di forma intermedia tra una sfera e un bastoncino) oggi chiamato, in onore dello scopritore, Yersinia pestis; poi, partendo dalle testimonianze antiche e dall’esperienza dei contadini cinesi e indiani, in base alle quali in occasione delle epidemie di peste era usuale trovare anche molti cadaveri di ratti, esamina anche questi e scopre nel loro sangue lo stesso batterio.

Nel contempo anche il medico e batteriologo giapponese Shibasaburo Kitasato annuncia, indipendentemente da Yersin, l’isolamento del batterio responsabile. Sebbene inizialmente la scoperta gli venne attribuita, la descrizione di Yersin fu quella più accurata ed inoltre fu lui ad utilizzare, due anni più tardi, un antisiero per curare un paziente. Nel 1897 Waldemar Haffkine dimostrò l’efficacia del vaccino da lui messo a punto, mentre in occasione dell’epidemia che imperversò in Manciuria tra il 1910 e il 1911, Wu Lien Teh identificò la forma polmonare della condizione e mise a punto delle misure contenitive per la sua diffusione tramite via aerea.

La pandemia alla fine si concluse, anche se non è chiaro perché l’impatto della peste bubbonica si sia affievolito. Alcuni esperti sostengono che le temperature più rigide potrebbero aver ucciso le pulci portatrici della malattia. Ma questo aspetto non avrebbe influito sulla trasmissione respiratoria. In alternativa la causa potrebbe essere un cambiamento nei ratti. Nel diciannovesimo secolo, infatti, i vettori della peste non erano più i ratti neri, ma quelli grigi, più forti, aggressivi e in grado di vivere lontano dagli esseri umani. Un’altra ipotesi è che il batterio si sia evoluto diventando meno letale. O forse a smorzare gli effetti della malattia sono state le azioni degli esseri umani, come la pratica di incendiare i villaggi appena si verificavano i primi casi. C

La peste tornò in seguito sporadicamente a colpire il genere umano, come a Surat in India nel 1994. Essa, in ogni caso, non è mai scomparsa e rimane endemica in molti focolai naturali sparsi nel mondo. È presente soprattutto in Africa (parte centrale, orientale e meridionale), nei paesi dell’ex Urss, nella parte occidentale del Nord-America e in molta parte dell’Asia.

L’Africa è il continente dove si registra oltre il 90% dei casi a livello mondiale e che causa mediamente 1000 casi all’anno, ma i casi reali potrebbero esser di più. Il focolaio maggiore resta nella Repubblica Democratica del Congo: secondo un recente Rapporto dell’UNICEF, nella provincia di Ituri, nel nord-est della Repubblica i funzionari hanno segnalato 286 casi di peste bubbonica, di cui 27 morti da agosto 2020. Complessivamente, donne e uomini sono ugualmente colpiti; tuttavia, gli adolescenti sembrano i più a rischio, rappresentando il 78,9% dei malati. Ma, contrariamente a quanto si possa immaginare, la malattia persiste anche nel più evoluto dei paesi occidentali, gli Stati Uniti d’America, che riportano ogni anno almeno 15-20 casi, forse dovuti al fatto che la malattia è endemica tra i cani della prateria, roditori che vivono nel sudovest, e può essere trasmessa agli esseri umani.

Influenza

Fra il 1889 e il 1895 (ottobre 1889 – dicembre 1890, con recidive marzo – giugno 1891, novembre 1891 – giugno 1892, inverno 1893-1894 e inizio 1895), si sviluppò una pandemia di influenza mortale, che uccise circa un milione di persone in tutto il mondo. L’epidemia fu soprannominata “influenza asiatica” o “influenza russa” (da non confondere con l’epidemia del 1977-1978 causata dall’influenza A/USSR/90/77 H1N1, chiamata anche influenza russa). Le moderne infrastrutture di trasporto hanno contribuito alla diffusione dell’influenza del 1889. I 19 maggiori paesi europei, compreso l’Impero russo, avevano 202.887 km di ferrovie e il viaggio transatlantico in barca impiegava meno di sei giorni (non significativamente diverso dal tempo di viaggio aereo attuale, data la scala temporale della diffusione globale di una pandemia).

La pandemia fu registrata per la prima volta a San Pietroburgo, in Russia, nel dicembre 1889. In quattro mesi si era diffusa in tutto l’emisfero settentrionale. I contagi raggiunsero il picco a San Pietroburgo all’inizio del 1890 e negli Stati Uniti cinque settimane dopo. Il bilancio, a fine 1890, arrivò a 360.000 morti.

Per diversi anni, i ricercatori hanno sospettato che l’influenza russa fosse influenza solo di nome e che poteva invece essere dovuta a un virus da una famiglia diversa dai virus influenzali. Basandosi su elementi genetici, epidemiologici e clinici, sembra che il responsabile fosse un coronavirus l’ HCoVOC43 (OC43), oggi responsabile del raffreddore e anche, eccezionalmente, causa di polmonite a volte fatale. Dopo molti studi, gli scienziati hanno dedotto che, filogeneticamente, l’ OC43 diventa un candidato ragionevole per essere l’origine della pandemia influenzale russa.

Ci sono anche elementi epidemiologici che suggeriscono un passaggio di OC43 dal bestiame all’uomo all’epoca della pandemia influenzale russa. Tra il 1870 e il 1890, una moltitudine di bovini nel mondo fu decimata da una pleuropolmonite bovina contagiosa panzootica, un’infezione causata da Mycoplasma mycoides. Alcuni epizoologi ritengono possibile che il personale addetto all’abbattimento di massa fosse regolarmente esposto ai virus respiratori dei bovini macellati. Un ceppo mutato (l’OC43), potrebbe quindi essere stato trasmesso a queste persone o si sarebbe sviluppato negli esseri umani. In effetti, la trasmissione all’uomo è stata osservata più volte. Questa ipotesi ricorda fortemente l’epidemia di SARS del 2003, legata all’abbattimento degli zibetti per il consumo, o addirittura quella dell’infezione da HIV / AIDS negli anni ’80 dovuta al consumo di scimpanzé selvatici. In conclusione, probabilmente non sarà mai possibile provare con certezza che OC43 sia stato responsabile della pandemia di influenza russa, né che sia correlato al SARS-CoV-2, ma l’ipotesi è quanto mai suggestiva.

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