Conosco e seguo Valentina Persico da anni. Artista sensibile e attenta all’interazione tra l’opera e l’ambiente in cui si colloca, oltre all’attività espositiva insegna, progetta e conduce laboratori creativo-artistici nelle scuole, in occasione di eventi, realizzando percorsi individualizzati.
La sua ricerca si avvale del disegno come linguaggio primario, ma si estende a ogni materiale in grado di esplorare insieme la dimensione “micro” – microscritture, microvibrazioni segniche – e la dimensione “macro” – vaste spazialità di velature, risonanze di luce, sipari neutri e rarefatti. Valentina è un’artista capace di coniugare, tra istinto e pensiero, tra gravità e leggerezza, interventi di puro lirismo intimista e progettualità di larga scala.
Nonostante il lockdown, nel suo studio di Scanzorosciate non si è mai fermata – realizzando progetti “sospesi” e altri compiuti e allestiti in questi giorni tra Bergamo e Provincia. Le ho chiesto che impatto ha avuto la pandemia, e le relative restrizioni, sulla sua arte.
Il suo è un lavoro che vive di relazione tra l’opera-lo spazio-il fruitore. Come è cambiato nel corso dell’ultimo anno? Ha risentito della reclusione forzata e delle distanze fisiche imposte dal lockdown?
Sì certo, come persona e come artista ho sentito profondamente questo imbarazzo che ha bloccato tutti. Siamo rimasti afoni, attoniti di fronte allo strazio e ancora non c’è stata una elaborazione, perché questa richiede tempi più lunghi. È un’esperienza che ha messo in discussione la mia produzione perché il fare non è disgiunto da quello sento, ma i cambiamenti si vedranno nel lungo termine. Sicuramente ho sviluppato l’esigenza di comunicare a più persone, di allargare il raggio e la prossimità del mio lavoro, non solo tra chi frequenta già ambienti artistici.
Un esempio di questa ricerca di prossimità?
A Pasqua – eravamo ancora in zona rossa – ho esposto dei lavori nella chiesa di Redona. Mi avevano chiesto qualcosa di attinente alla catechesi e volevo che la mia azione “arrivasse” sia ai bambini, sia ai nonni, sia al sacerdote, insomma a chiunque. Su una passatoia stesa a pavimento ho installato dei piccoli pannelli tra loro distanziati con un fronte più figurativo e un retro più astratto. Il curato, responsabile degli incontri in chiesa illuminava ogni volta la candela di fronte a una tappa diversa del percorso, che si è arricchito dei disegni e dei pensieri dei bambini. C’è stato un ritorno incredibile e io ho sviluppato l’esigenza di migliorare la prossimità del mio lavoro.
In molti suoi progetti e opere l’attualità è fondamentale. È accaduto anche con il Covid?
La domanda prioritaria che ci ponevamo l’un l’altro nel periodo più duro della pandemia a Bergamo era “come stai”? Le risposte, principalmente su Whatsapp, erano destinate a perdersi senza lasciare traccia. Allora ho confezionato dei libretti d’artista molto piccoli, realizzati con scatolette di vario ri-uso domestico, per dare valore e fare ricordo delle parole, per salvare la comunicazione. Il 15 maggio inauguro una esposizione a Gromo al “Museo della Armi Bianche e delle pergamene” dal titolo “Senza corpo sentire-ferire”. Mi hanno chiesto un’installazione in dialogo col museo e le sue preesistenze, che sono alabarde, spade e antiche pergamene. Le armi sono esteticamente bellissime ma anche terrificanti. Allora ho scelto miei lavori realizzati col metallo – incisioni, puntesecche – in associazione con i materiali delle armi: esporrò matrici, stampe, lamine tra cui le “lastre a morire”, che sono lastre di rame il cui solco si abbassa moltissimo dopo 5 o 6 passaggi fino a raggiungere un punto limite dove il segno non è più energetico, ma è più sensibile. Questo tema della ferita e della sparizione dei segni l’ho sentito sempre più intensamente durante questa pandemia in cui le forze del mondo ti schiacciano e occorre abbassare la volitività per entrare in un livello superiore di percezione e di espressione.
Se dovesse rappresentare quest’ultimo anno con una singola opera, a quali materiali ti affiderebbe?
Rispondo con l’opera che è esposta a Nembro fino al 30 maggio nella collettiva “Venti stazioni”, un progetto che è testimonianza a più mani sull’elaborazione, che è ancora in corso, di questo terribile biennio. Io ho letteralmente incollato, su una mia opera dipinta, il lenzuolo (oggetto affidato a ciascun artista) da cui affiorano lievi segni e preesistenze, praticamente un sudario che comunica in modo appena percettibile attraverso il silenzio delle stratificazioni. Una richiesta di tempo e sguardo lento: forse sono questi i “materiali” a cui meglio affidarsi.
A causa del Covid la nostra vita di relazione si è digitalizzata su tutti i fronti. Da questa situazione ha tratto stimoli nuovi o al contrario ha vissuto come un’involuzione questo “farsi virtuale” delle cose?
L’obbligo al digitale qualche punto di forza ce l’ha dato, ad esempio la possibilità di lavorare a distanza, e qui parlo da insegnante. Mentre sul piano artistico e più ampiamente esistenziale, mi chiedo che tracce lasceremo delle nostre relazioni. Un messaggino non assolve la testimonianza di una lettera. Io sono molto legata alla materia, e ho sentito forte il bisogno di tradurre in materia, con i libretti d’artista, le conversazioni intrattenute in questo tempo.
Quali sono i cambiamenti nel mondo dell’arte e nelle relazioni ad essa legate causati dai lockdown?
Personalmente ho un timore: che l’arte possa essere non vista. Una foto non sostituisce il quadro, così come un tour virtuale non sostituisce la visita al museo. Il corpo dialoga, incontra, comunica, la pelle è il nostro tessuto di contatto con il mondo, questo non può in alcun modo essere sostituito.
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