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Arte

L'incontro

L’arte sospesa nel lockdown, Valentina Persico: “Ora ho l’esigenza di comunicare a più persone”

Musei chiusi e mostre sospese. Come hanno vissuto gli artisti bergamaschi questo lungo periodo di lockdown dovuto alla pandemia? Stefania Burnelli, critica d'arte, ha bussato agli atelier di alcuni artisti bergamaschi. Il secondo incontro è con Valentina Persico.

Conosco e seguo Valentina Persico da anni. Artista sensibile e attenta all’interazione tra l’opera e l’ambiente in cui si colloca, oltre all’attività espositiva insegna, progetta e conduce laboratori creativo-artistici nelle scuole, in occasione di eventi, realizzando percorsi individualizzati.

La sua ricerca si avvale del disegno come linguaggio primario, ma si estende a ogni materiale in grado di esplorare insieme la dimensione “micro” – microscritture, microvibrazioni segniche – e la dimensione “macro” – vaste spazialità di velature, risonanze di luce, sipari neutri e rarefatti. Valentina è un’artista capace di coniugare, tra istinto e pensiero, tra gravità e leggerezza, interventi di puro lirismo intimista e progettualità di larga scala.

Nonostante il lockdown, nel suo studio di Scanzorosciate non si è mai fermata – realizzando progetti “sospesi” e altri compiuti e allestiti in questi giorni tra Bergamo e Provincia. Le ho chiesto che impatto ha avuto la pandemia, e le relative restrizioni, sulla sua arte.

Il suo è un lavoro che vive di relazione tra l’opera-lo spazio-il fruitore. Come è cambiato nel corso dell’ultimo anno? Ha risentito della reclusione forzata e delle distanze fisiche imposte dal lockdown?

Sì certo, come persona e come artista ho sentito profondamente questo imbarazzo che ha bloccato tutti. Siamo rimasti afoni, attoniti di fronte allo strazio e ancora non c’è stata una elaborazione, perché questa richiede tempi più lunghi. È un’esperienza che ha messo in discussione la mia produzione perché il fare non è disgiunto da quello sento, ma i cambiamenti si vedranno nel lungo termine. Sicuramente ho sviluppato l’esigenza di comunicare a più persone, di allargare il raggio e la prossimità del mio lavoro, non solo tra chi frequenta già ambienti artistici.

Un esempio di questa ricerca di prossimità?

A Pasqua – eravamo ancora in zona rossa – ho esposto dei lavori nella chiesa di Redona. Mi avevano chiesto qualcosa di attinente alla catechesi e volevo che la mia azione “arrivasse” sia ai bambini, sia ai nonni, sia al sacerdote, insomma a chiunque. Su una passatoia stesa a pavimento ho installato dei piccoli pannelli tra loro distanziati con un fronte più figurativo e un retro più astratto. Il curato, responsabile degli incontri in chiesa illuminava ogni volta la candela di fronte a una tappa diversa del percorso, che si è arricchito dei disegni e dei pensieri dei bambini. C’è stato un ritorno incredibile e io ho sviluppato l’esigenza di migliorare la prossimità del mio lavoro.

In molti suoi progetti e opere l’attualità è fondamentale. È accaduto anche con il Covid?

La domanda prioritaria che ci ponevamo l’un l’altro nel periodo più duro della pandemia a Bergamo era “come stai”? Le risposte, principalmente su Whatsapp, erano destinate a perdersi senza lasciare traccia. Allora ho confezionato dei libretti d’artista molto piccoli, realizzati con scatolette di vario ri-uso domestico, per dare valore e fare ricordo delle parole, per salvare la comunicazione. Il 15 maggio inauguro una esposizione a Gromo al “Museo della Armi Bianche e delle pergamene” dal titolo “Senza corpo sentire-ferire”. Mi hanno chiesto un’installazione in dialogo col museo e le sue preesistenze, che sono alabarde, spade e antiche pergamene. Le armi sono esteticamente bellissime ma anche terrificanti. Allora ho scelto miei lavori realizzati col metallo – incisioni, puntesecche – in associazione con i materiali delle armi: esporrò matrici, stampe, lamine tra cui le “lastre a morire”, che sono lastre di rame il cui solco si abbassa moltissimo dopo 5 o 6 passaggi fino a raggiungere un punto limite dove il segno non è più energetico, ma è più sensibile. Questo tema della ferita e della sparizione dei segni l’ho sentito sempre più intensamente durante questa pandemia in cui le forze del mondo ti schiacciano e occorre abbassare la volitività per entrare in un livello superiore di percezione e di espressione.

Se dovesse rappresentare quest’ultimo anno con una singola opera, a quali materiali ti affiderebbe?

Rispondo con l’opera che è esposta a Nembro fino al 30 maggio nella collettiva “Venti stazioni”, un progetto che è testimonianza a più mani sull’elaborazione, che è ancora in corso, di questo terribile biennio. Io ho letteralmente incollato, su una mia opera dipinta, il lenzuolo (oggetto affidato a ciascun artista) da cui affiorano lievi segni e preesistenze, praticamente un sudario che comunica in modo appena percettibile attraverso il silenzio delle stratificazioni. Una richiesta di tempo e sguardo lento: forse sono questi i “materiali” a cui meglio affidarsi.

A causa del Covid la nostra vita di relazione si è digitalizzata su tutti i fronti. Da questa situazione ha tratto stimoli nuovi o al contrario ha vissuto come un’involuzione questo “farsi virtuale” delle cose?

L’obbligo al digitale qualche punto di forza ce l’ha dato, ad esempio la possibilità di lavorare a distanza, e qui parlo da insegnante. Mentre sul piano artistico e più ampiamente esistenziale, mi chiedo che tracce lasceremo delle nostre relazioni. Un messaggino non assolve la testimonianza di una lettera. Io sono molto legata alla materia, e ho sentito forte il bisogno di tradurre in materia, con i libretti d’artista, le conversazioni intrattenute in questo tempo.

Quali sono i cambiamenti nel mondo dell’arte e nelle relazioni ad essa legate causati dai lockdown?

Personalmente ho un timore: che l’arte possa essere non vista. Una foto non sostituisce il quadro, così come un tour virtuale non sostituisce la visita al museo. Il corpo dialoga, incontra, comunica, la pelle è il nostro tessuto di contatto con il mondo, questo non può in alcun modo essere sostituito.

Generico maggio 2021
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