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Storia dei vaccini - 12

Epatite A e B: testimonianze in Cina millenni fa, ma sono del 1968 le prime soluzioni

Nel 1965 uno studio di Baruch Blumberg dal titolo “A new antigen in leukemia sera” darà inizio a una nuova era nello studio dell’epatite virale, rivelando la presenza nel siero di pazienti leucemici politrasfusi di una proteina

L’epatite ha accompagnato la storia dell’umanità fin dalle sue origini, godendo di un’identificabilità immediata grazie alla manifestazione sintomatica dell’ittero; per tale motivo le testimonianze scritte relative al manifestarsi di forme epidemiche di ittero sono rintracciabili già alcuni millenni prima della nascita di Cristo. Va però sottolineata l’inevitabile confusione generata dal sovrapporsi di quadri clinici diversi per le differenti forme di epatite, identificate nel corso del tempo come “ittero epidemico” (epatiti da HAV o da HEV?) e “ittero da siero” (epatiti da HBV o da HCV?).

Il percorso che ha portato al riconoscimento dell’eziologia infettiva di tali patologie è stato lungo e ha avuto un avvio solo a metà del secolo scorso, quando l’ipotesi infettiva, che aveva progressivamente preso corpo, riuscì a trovare conferma in seguito alle indagini epidemiologiche svolte su un’epidemia che aveva colpito l’esercito americano nel 1942, in seguito a una vaccinazione per la febbre gialla. Gli studi che seguirono portarono a identificare due tipi clinicamente distinti di epatite, per la prima volta chiamati epatite A ed epatite B.

Le prime testimonianze scritte relative a manifestazioni di ittero sono rintracciabili già nella Cina del VI millennio a.C., nonché nel mondo mesopotamico del III millennio a.C.; qualche secolo più in là descrizioni di malattie del fegato e in particolare di ittero sono presenti nel Talmud babilonese (V secolo a.C.).

Il mondo occidentale produce le prime testimonianze scritte relative all’ittero nel Corpus Hippocraticum, ove è descritto l’“ittero epidemico” come “quarto tipo di ittero”; l’interpretazione da dare al termine “epidemico” tuttavia è dubbia, dal momento che la bile gialla era considerata dalla scuola ippocratica uno dei quattro umori e l’agente responsabile della maggior parte delle febbri. Secondo la teoria ippocratica l’itterizia aveva comunque un’origine prevalentemente infettiva e il problema poteva risiedere nel fegato. Tale interpretazione viene ripresa e perfezionata tra II e III secolo d.C. da un altro grande medico dell’antichità, Galeno di Pergamo, il quale classifica con precisione i vari tipi di ittero e compie sperimentazioni sul fegato animale.

Il cosiddetto ittero epidemico ricorre frequentemente durante il Medioevo, soprattutto in periodi di guerra, ed è una delle più importanti cause di pandemie in Europa. È però solo nel XVIII secolo che viene introdotto per la prima volta il termine “epatite” da Giovanni Battista Bianchi nella sua Historia epatica (1725), ove egli descrive l’epidemiologia delle affezioni acute del fegato e descrive le epatiti catarrali (forse da virus A e comunque ad andamento epidemico), che imperversarono ad Augusta nel 1701, Ferrara nel 1717 e Belgrado nel 1734, individuandone tra le cause l’infiammazione, i tumori, le cisti e l’ostruzione, così come aveva fatto qualche decennio addietro Théophile Bonet. Tra XVIII e XX secolo le numerose guerre continuano a porre di fronte all’evidenza dell’ittero epidemico, forma epidemica a contagio oro-fecale, riconosciuta come un’importante malattia diffusa soprattutto negli accampamenti militari.

L’agente eziologico dell’epatite clinica, identificato dal suo caratteristico ittero giallo, è risultato essere infettivo all’inizio del 1900, ma occorrerà attendere il secondo dopoguerra per assistere alla spinta definitiva alle ricerche per avere la conferma dell’ipotesi infettiva: esse aiutarono a dimostrare la trasmissibilità del virus dell’epatite attraverso trasfusioni di sangue, così come il rischio di epatite associato con l’uso di plasma umano ed emoderivati. Con l’avvento delle tecniche di coltura cellulare, negli anni Cinquanta, furono compiuti numerosi e vani tentativi di propagare in vitro il virus dell’epatite, così come era stato fatto per altri virus, al fine di produrre vaccini. Nello stesso tempo però fu identificato un modello animale per l’epatite A e gli studi epidemiologici di Saul Krugman confermarono la distinzione tra le diverse forme di epatite.

A metà degli anni ’60, Baruch Blumberg e Alfred Prince scoprirono l’antigene di superficie dell’epatite B nel sangue circolante dei portatori dell’infezione. Nel 1965 uno studio dal titolo “A new antigen in leukemia sera”, pubblicato da Blumberg, darà inizio a una nuova era nello studio dell’epatite virale, rivelando la presenza nel siero di pazienti leucemici politrasfusi di una proteina, chiamata antigene Australia o HbsAg (Hepatitis B surface antigen). Per inciso, ricordiamo che gli anticorpi, proteine sintetizzate dall’organismo che combattono le malattie, si formano in risposta a particolari antigeni (sostanze associate a cellule e virus che invadono l’organismo). La scoperta di Blumberg portò rapidamente alla messa a punto di un test per lo screening del sangue, in modo da impedire la trasmissione del virus dell’epatite B attraverso la pratica delle trasfusione. In seguito alla scoperta delle particelle di antigene di superficie del virus dell’epatite B nel plasma di portatori umani, sono stati eseguiti dei tentativi per creare un vaccino. Pochi anni dopo, nel 1968, è stato sviluppato un primo vaccino contro l’epatite B, ma solo nel 1975 sono iniziati studi clinici che hanno dimostrato la sua sicurezza ed efficacia. Occorsero ancora alcuni anni prima che lo stesso Blumberg mise a punto un vaccino, che divenne disponibile dal 1982. Il medico statunitense dimostrò, inoltre, il ruolo del virus dell’epatite B nell’insorgenza di una forma di cancro, il carcinoma epatico.

L’epatite B, d’altra parte, raramente causa un rischio grave come infezione primaria. Tuttavia, coloro che sviluppano un’infezione cronica persistente possono continuare ad avere una malattia grave per il resto della loro vita. Ciò può anche portare alla distruzione cirrotica del fegato a causa della risposta immunitaria dell’ospite al virus.

Il primo vaccino per l’epatite B è stato quindi il vaccino plasma derivato, con un’efficacia dell’85-95 per cento, quando somministrato in tre dosi per via intramuscolare. Studi clinici controllati indicavano per questo vaccino una protezione contro l’infezione da HBV persistente per almeno 7-9 anni, nonostante il declino del titolo anticorpale protettivo. Il vaccino veniva ottenuto direttamente da sangue umano, in particolare dal sangue di persone omosessuali cha avevano contratto l’epatite. Nel 1986 è stato in seguito autorizzato il nuovo vaccino a DNA ricombinante ottenuto in laboratorio con le tecniche dell’ingegneria genetica.

Un decennio dopo, nel 1999, la FDA ha approvato un programma di vaccinazione contro l’epatite B a due dosi per adolescenti di età compresa tra 11 e 15 anni utilizzando Recombivax HB (di Merck). All’inizio del nuovo millennio, nel 2001, si inizia a somministrare un vaccino combinato contro l’epatite A inattivato e l’epatite B (ricombinante). L’anno successivo è stato autorizzato un vaccino che combinava difterite, tetano, pertosse acellulare, poliomielite inattivata ed antigeni dell’epatite B. In conclusione, fortunatamente, sia l’epatite A sia l’epatite B sono ora prevenibili grazie alla scoperta di questi vaccini altamente efficaci che hanno dimostrato di mantenere l’immunità a lungo termine negli individui vaccinati.

Negli anni Settanta, l’identificazione del virus e lo sviluppo di test sierologici hanno aiutato a differenziare l’epatite A da altri tipi di epatite non B. Il virus dell’epatite A fu isolato per la prima volta nel 1979. Gli esseri umani sono l’unico ospite naturale, sebbene diversi primati non umani siano stati infettati in condizioni di laboratorio: Friedrich Deinhardt fece alcuni studi su scimpanzè a cui era stato inoculato il virus dell’epatite. P.J. Provost ha preparato con successo un vaccino contro l’epatite A nel 1986, che si è dimostrato sicuro ed altamente efficace in ampi studi clinici. Il primo vaccino inattivato contro l’epatite A è stato autorizzato nel 1995. L’anno successivo è diventato disponibile anche un secondo vaccino inattivato. Fino al 2004, l’epatite A era il tipo di epatite più frequentemente segnalato nel mondo. Prima del vaccino, i metodi principali utilizzati per prevenire l’epatite A erano misure igieniche e protezione passiva con immunoglobuline (IG) Questi vaccini forniscono una protezione a lungo termine contro l’infezione da virus dell’epatite A (HAV). Le somiglianze tra l’epidemiologia dell’epatite A e la poliomielite suggeriscono che la vaccinazione diffusa di appropriate popolazioni sensibili può ridurre sostanzialmente l’incidenza della malattia, eliminare la trasmissione del virus e, infine, eliminare l’infezione da HAV.

L’epatite A è causata dall’infezione da HAV, un virus a RNA senza involucro classificato come picornavirus. Esso è trasmesso direttamente da persona a persona, per stretto contatto o attraverso il consumo di cibi o bevande contaminati. La malattia si manifesta con esordio improvviso di febbre, malessere, nausea, dolori addominali seguiti da ittero alcuni giorni dopo. L’infezione nei neonati e nei bambini piccoli è generalmente lieve o asintomatica. La malattia è più severa negli adulti: essa persiste per parecchie settimane e la guarigione avviene dopo parecchi mesi. La letalità è del 2% nei soggetti con più di 40 anni di età e del 4% per quelli oltre i 60. La malattia è diffusa soprattutto dove le condizioni igieniche sono di scarsa qualità e dove la salubrità dell’acqua da bere è insufficientemente controllata.

Contro l’epatite A esistono oggi vaccini sicuri che forniscono una protezione del 100%. Non essendo obbligatoria, la vaccinazione è raccomandata a tutti i viaggiatori che si rechino i Paesi a rischio, specie nelle persone più giovani che sono certamente suscettibili alla malattia. In Italia la vaccinazione contro l’epatite B è invece stata introdotta in forma obbligatoria nel 1991 (L. 27 maggio 1991 n° 165). Da quando in Italia è stata approvata questa legge oltre 150 paesi, in ogni parte del mondo, hanno seguito la stessa strada. Dall’applicazione della vaccinazione a tutti i nuovi nati, ai soggetti nel 12° anni di età ed alle categorie a rischio, la percentuale dei soggetti positivi al test per l’epatite B si è notevolmente ridotta.

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