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Parla la dottoressa gerevini

Covid, quei 100 pazienti tormentati dalla perdita di gusto e olfatto: “Ancora senza dopo un anno” video

Le complicanze di tipo neurologico del virus. Ne abbiamo parlato con Simonetta Gerevini, a capo del reparto di Neuroradiologia dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo

Andrea (nome di fantasia) è un esperto di vini, nella vita di tutti i giorni fa il sommelier. Da sempre lavora con il gusto e l’olfatto, strumenti che il Covid-19 ha fortemente indebolito. Il virus ha fatto lo stesso con Alberto (altro nome di fantasia) pizzaiolo delle valli bergamasche che da qualche tempo fatica a riconoscere i sapori delle sue creazioni.

Si tratta di iposmia (quando parliamo di un abbassamento della capacità olfattoria) e anosmia (nel caso di un suo totale annullamento); di ipogeusia (se comporta un abbassamento della capacità di percepire i gusti) o ageusia (di un suo totale annullamento).

Abbiamo approfondito il tema con Simonetta Gerevini, dall’agosto 2019 a capo del reparto di Neuroradiologia dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. “Com’è logico che sia, gli studi sul Covid-19 si sono inizialmente concentrati sugli effetti e i danni ai polmoni, per poi concentrarsi sempre più su quelli al cervello dei pazienti – spiega l’esperta -. Dopo un primo momento in cui l’attenzione è stata posta sulle lesioni cerebrali più note e conosciute, come quelle ischemiche e/o emorragiche, si è progressivamente realizzato che una delle problematiche più diffuse sul sistema nervoso centrale e periferico è proprio quella legata all’alterazione di gusto e olfatto. Osservando l’aspetto del bulbo olfattorio – continua la dottoressa – riusciamo innanzitutto a capire se mostra alterazioni delle sue dimensioni e del volume. Il passaggio successivo e più complesso ed è la valutazione della ‘connettomica cerebrale’, ovvero l’analisi delle connessioni dei circuiti per stabilire se quelli che interessano gusto e olfatto sono o meno alterati”.

Pare che il virus, migrando attraverso le terminazioni nervose olfattorie, raggiunga direttamente il bulbo olfattorio, alterando la sua struttura e determinando così la perdita dell’olfatto. “Questi disturbi di solito si manifestano nella fase iniziale o media della malattia, e nella maggior parte dei casi tendono a scomparire nel corso di alcune settimane”, aggiunge la dottoressa. Di solito, appunto. “Perché uno studio condotto dal Papa Giovanni su oltre cento pazienti della prima ondata permette di affermare che la stragrande maggioranza di questi, a distanza di un anno dalla malattia, presenta ancora segni di iposmia – sottolinea ancora Gerevini -. Allo stato attuale, in collaborazione con il reparto di neurologia, stiamo cercando di qualificare e quantificare il disturbo. Sembrerebbe esserci una prima fase, ad un paio di settimane dall’infezione, caratterizzata dall’assenza di olfatto. Alcuni pazienti lo recuperano completamente nel giro di qualche mese, altri parzialmente con possibili e frequenti ricadute”. “Ogni tanto percepisco odori che non conosco – le ha confessato recentemente una paziente  -. Quelli che conosco non riesco a recuperarli”.

Un disagio che a catena rischia di scatenarne altri. Perdere l’olfatto può significare perdita d’interesse nei confronti del cibo, condizione che nel lungo termine può portare stati di stress e depressione. “Elementi che hanno un forte impatto sulla vita quotidiana – osserva l’esperta del Papa Giovanni -. Pensiamo a chi svolge un lavoro che ha a che fare con gli odori o i sapori. Anche questo tema è attualmente oggetto di studio, affrontato in collaborazione con i neurologi psicologi e psichiatri del nostro ospedale”.

Già, ma come intervenire? “In Italia e all’estero ci sono degli studi sull’uso di integratori vitaminici e antinfiammatori preposti a ridurre l’infiammazione a livello dei fili olfattori – fa presente Gerevini -. Sembrano funzionare se presi all’inizio dell’infezione Covid, ma dopo un anno di tempo ancora non sappiamo quale effetto possano avere su questo tipo di pazienti”.

Altra conseguenza di carattere neurologico che il virus può lasciare in eredità è la cosiddetta nebbia cognitiva. Stando agli studi più recenti, colpisce 1 persona su 20 provocando qualche contraccolpo sulle capacità mentali. Come nel caso di Mauro, 38 anni, consulente finanziario di Pontirolo Nuovo, ricoverato a marzo 2020 per Covid al Papa Giovanni. “In quindici anni di lavoro non ho mai perso un appuntamento – ha raccontato a Bgnews -. Negli ultimi mesi ne ho dimenticati sette o otto. Non riesco a spiegarmelo”.

“Persone che prima svolgevano più attività in contemporanea, ora ne svolgono a malapena una – prosegue la dottoressa Gerevini -. A volte nei pazienti Covid osserviamo delle modifiche del volume del cervello. Sono da interpretare, ma potrebbero essere correlate a questo disturbo. Maggiore è l’infiammazione, maggiore sembra essere il danno in termini di riduzione di volume e quindi verosimilmente di capacità cognitiva”.

Non solo. “Nelle fasi più acute della malattia abbiamo osservato delle lesioni di tipo infiammatorio, più o meno transitorie – illustra sempre la dottoressa -. E alcune focali microemorragie che sembrerebbero essere legate all’attività pro-trombotica del virus. In pratica lo stesso effetto protrombotico che il virus può avere su cuore, polmoni e reni può averlo anche nel cervello”.

In uno studio firmato dall’ospedale Papa Giovanni su oltre 1.500 pazienti colpiti da ‘Long Covid’ (ovvero dagli effetti a lungo termine del virus in pazienti ormai negativi al tampone, ma mai del tutto guariti e affetti nella maggior parte dei casi da stanchezza, debolezza muscolare e fiato corto) emergono “complicanze di tipo neurologico” circa nel 10%, fa notare la dottoressa.

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