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Quel 23 maggio 1992

Strage di Capaci: il ricordo della mafia degli anni 90 e la lotta di oggi

Il 23 maggio 1992 l’Italia si è fermata di fronte alla morte di Giovanni Falcone, pochi mesi dopo un altro duro colpo verso Borsellino. La lotta contro la mafia non si è mai arrestata e ancora oggi gli arresti vanno avanti con lo scopo di eliminare la forza mafiosa

Era venuto al mondo senza un lamento, con i pugni stretti e con il viso serio di un uomo adulto. In pochi minuti aveva capito che la vita non sarebbe stata facile, che avrebbe dovuto lottare, che le conquiste vanno sudate, le gioie notate e la paura deve essere ingoiata e non vi è spazio, per un eroe, di avere paura.

La sua città lui l’ha amata, di un amore profondo, che riempie la bile e fa esplodere il cuore; di un amore che annienta la paura, che non si preoccupa di quanto possa essere difficile andare al mare, che non ha timore di dire ai propri figli di stare molto più attenti degli altri quando escono per strada; che non ha paura di ammettere che non è sbagliato sognare un futuro diverso da quello che pare già scritto, incancrenito in secoli di storia malata, anarchica, le cui gerarchie non le studi sui libri di scuola, ma le impari sulla tua pelle.

Sono le 17:57 del 23 maggio 1992 e il magistrato Giovanni Falcone esala l’ultimo respiro. La mafia l’ha ucciso.

Una bomba a Capaci, sull’autostrada A29, decide che altre quattro persone, quel giorno dovevano morire. Francesca Morvillo, moglie del magistrato, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro non ce la fanno.

Milioni le lacrime versate.

Sicuramente ci sarà qualche figlio che si sarà arrabbiato e, tirando pugni feroci a muri di cartapesta, si sarà domandato se il padre o la madre non potevano farsi gli affari propri, che in Sicilia funziona così; se quel giorno non potevano non andare al lavoro o se avessero potuto lavorare alle poste, invece che combattere contro la mafia.

L’Italia è in rivolta, mossa, forse, dopo troppi anni, da un patriottismo vero. Un patriottismo che porta la gente a manifestare, a fare fiaccolate, ad ascoltare le belle parole scomodate nelle trasmissioni della sera per onorare la memoria di un grande magistrato.

Un patriottismo non così forte, però, da uccidere il popolo mafioso; non così forte da dire un chiaro stop; non così forte da salvare Paolo Borsellino.

Mentre l’Italia urlava irata, stanca, mossa dalla stanchezza di chi aveva visto in un uomo la salvezza per un paese, un altro signore, nel silenzio mosse quelle sottili labbra baffute: “Mi aveva detto che fino a quando ci sarebbe stato lui, io non avrei mai dovuto temere. Il prossimo sono io”.

Con la compostezza di un eroe, di chi non teme di donare la propria vita per salvare la sua Palermo, Paolo Borsellino si rassegnava al suo destino imminente. Sapeva quello che sarebbe successo. Era questione di settimane, forse di giorni, ma il suo destino era già stato scritto con una penna il cui inchiostro era alimentato dal sangue di migliaia di innocenti che si sono inginocchiati a Cosa Nostra. Il 19 luglio 1992, Borsellino viene ucciso, fuori dalla casa della madre. Nessuno stupore, solo un grande frastuono, che per quanto dirompente, per quanto fosse tutto fuorché inaspettato, era stato comunque in grado mettere in silenzio il cuore di quell’isola in cui Paradiso e Inferno ballano una danza secolare contendendosi la Sicilia.

Maria Falcone, invece, sorella di Giovanni, è una donna che porta i capelli tinti d’oro e ondulati verso sinistra; indossa abiti scuri e un leggero rossetto sulle labbra. Così, con le linee che le dipingono sul volto la sofferenza e la forza, ingredienti principali della sua vita, non smette di onorare il fratello, di insegnare ai giovani cosa sia la mafia e, soprattutto, quali siano le vie alternative ad essa. Un po’ come fece Felicia Impastato.

Le donne della lotta alla mafia esistono e sono quelle che, anche se distrutte, anche se lacerate da un dolore incolmabile, se ne fregano di loro stesse ponendo al centro la famiglia, i cui membri sono stati uccisi da qualche scagnozzo di un boss potente. Sono donne che vivono per le battaglie di coloro a cui è stato inciso “eroe” di fianco al nome nell’immenso libro della storia.

Sono 376 i mafiosi incarcerati con il 41 bis e messi ai domiciliari per l’emergenza Covid 19. Centododici, quelli tutt’oggi, dopo più di un anno dalla liberazione, ancora ai domiciliari.

Ben 355, il numero di imputati portati al maxi processo di Lamezia Terme, dal magistrato Nicola Gratteri a febbraio 2021. Un processo duro, un processo che non permetteva repliche, che celebrava il lavoro svolto dai magistrati, giudici e PM che precedettero Gratteri.

Un processo che non permetteva repliche ai giudici che, durante il primo lockdown, hanno concesso i domiciliari ai mafiosi che erano in cella d’isolamento, in barba alla sicurezza nazionale e al sangue versato per contrastare la mafia.

Un processo che non ha fatto parlare come si sarebbe dovuto, scivolando tra una notizia e l’altra. Complici di questa mancanza forse i social, forse la polarizzazione delle idee, forse l’ignoranza o forse il Covid.

Eppure, come non serve il 27 gennaio per ricordare le barbarie nazi-fasciste, non serve il 23 maggio per ricordare gli uomini che hanno combattuto veramente, con le armi della sapienza, per permettere un futuro sano al nostro paese.

Basterebbe così poco per parlare di quel bambino, con i pugni chiusi e con gli occhi secchi.

Viva l’Italia, quindi, l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento, l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura, che non ha paura, l’Italia che è in mezzo al mare, l’Italia dimenticata e quella da dimenticare, l’Italia metà giardino, metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera.

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