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Bergamo next level

La pandemia e il fenomeno della violenza di genere

A più di un anno dall’inizio della pandemia da coronavirus sono emerse le principali criticità che i centri antiviolenza si sono trovati ad affrontare, la difficoltà nel conciliare la continuità del supporto con le esigenze di tutela della salute.

Da un presente pieno di interrogativi nasce Bergamo Next Level, un’iniziativa che vede coinvolta l’Università degli Studi di Bergamo e Pro Universitate Bergomensi con l’intento di riflettere sul futuro e le sfide che ci attendono. Questa prima edizione, dal 13 al 22 maggio, è stata caratterizzata da conferenze, webinar e spettacoli per riflettere sul futuro di Bergamo, sulle persone e il territorio di domani.

Tra i numerosi eventi di Bergamo Next Level c’è spazio anche per un quesito molto importante: quanto è stato influenzato dall’emergenza sanitaria e dalle misure restrittive il fenomeno della violenza di genere?

Promotrici del webinar “La violenza di genere nel contesto del Covid-19”: Anna Lorenzetti (Università degli studi di Bergamo), Roberta Di Pasquale (Università degli studi di Bergamo), Elena Bigotti (Consigliera di fiducia Università degli studi di Bergamo, Avvocata del Foro di Torino) e Sara Modora (Coordinatrice Centro antiviolenza Aiuto Donna).

“Solo attraverso un lavoro di rete sul territorio è possibile realizzare un’autentica vicinanza ai bisogni di salute, analogamente solo supportando e non lasciando sole le donne nei compiti di cura creeremo le condizioni per contrastare in concreto quei pregiudizi e stereotipi fortemente connessi al fenomeno della violenza di genere” ha dichiarato Roberta di Pasquale, sottolineando inoltre il binomio tra pandemia e violenza di genere, in quanto le misure restrittive di contenimento hanno introdotto forti condizionamenti della libertà personale che richiamano quelle esperienze di chiusura, controllo, isolamento, confinamento obbligato tra le mura domestiche distintive delle relazioni abusanti e della violenza di genere.

Quali conseguenze la pandemia ha comportato per il genere femminile? Da un lato un considerevole calo di occupazione nei settori con elevate quote di forza lavoro femminile dall’altro l’introduzione dello smart working che ha comportato, come sostengono alcuni studi, nessun cambiamento nella ridistribuzione del carico di lavoro domestico nonostante l’emergenza covid 19 abbia costretto sotto lo stesso tetto tutti quanti, donne e uomini.

Nella prospettiva giuridica e grazie alla propria esperienza personale sul campo, interviene nel dibattito l’avvocata e componente del direttivo del telefono rosa, Elena Bigotti che confrontatasi con gli altri centri antiviolenza, ha constatato una sostanziale diminuzione, quasi del 50%, delle chiamate durante il primo lockdown, il periodo marzo e metà aprile, dove vi era un maggior controllo. Le telefonate sono aumentate intorno a maggio, con l’allentamento delle misure e sottolinea come siano cambiate le modalità in quanto i centri antiviolenza erano chiusi e le consulenze sono diventate telefoniche, un mezzo utilissimo per dare i primi consigli di primo soccorso. Significativo come queste donne chiamavano dalla farmacia, dai mercati, quando uscivano per qualche motivazione lecita chiamavano e chiedevano aiuto. Sottolinea l’avvocata come i centri hanno dovuto attrezzarsi per avere una comunicazione più efficace possibile, hanno realizzato dei video, dei veri e propri video tutorial che spiegavano come cancellare i messaggi, la cronologia e ancor più importante la geolocalizzazione!

Uno strumento potentissimo ancora una volta si sono rilevati i social network. Infatti, attraverso essi molti centri antiviolenza sono riusciti a contattare le donne vittime di violenza e mantenere un contatto con loro e i loro figli. C’è anche però un lato oscuro di questo utilizzo durante la pandemia, in quanto l’aggressività e gli attacchi, non potendoli più esercitare di persona, si sono riversati online e c’è stato un aumento esponenziale di diffusione di immagini a contenuto sessualmente esplicito e senza il consenso della persona, di forme di intimidazioni, di minacce e molestie online, un uso improprio dei gruppi di WhatsApp. Dunque, anche i social network sono stati in qualche modo invasi da queste forme molto subdole e devastanti di nuove forme di violenza.

L’avvocata inoltre ha spiegato come essendo tutti e tutte costretti in casa, la casa è diventata luogo pubblico per eccellenza, e questo ha permesso con maggior facilità di dimostrare il pericolo che correva quella donna, è scattata una sorta di immedesimazione più facilitata per cui alla richiesta di ordini di protezione che comportano l’allontanamento del violento hanno visto una risposta virtuosa proprio perché era facile dimostrare la violenza.

A più di un anno dall’inizio della pandemia da coronavirus, grazie al contributo dell’Associazione Aiuto Donna – Uscire dalla Violenza, centro antiviolenza attivo da oltre vent’anni sul territorio bergamasco, sono emerse le principali criticità che i centri antiviolenza si sono trovati ad affrontare, la difficoltà nel conciliare la continuità del supporto con le esigenze di tutela della salute.
Sara Modora in rappresentanza dichiara che nell’emergenza hanno sentito il sostegno della rete: “abbiamo potuto mettere in protezione donne e i loro figli grazie alla rete che si è consolidata negli anni che ha tenuto e ci ha dato la possibilità di proteggere chiunque al di là di tutto”.

Le 5 reti della provincia di Bergamo, i 5 centri antiviolenza nella Bergamasca hanno raccolto tutto ciò che avevano seminato in questi anni, consapevoli di non essere soli e questo le operatrici volontarie sono riuscite a trasmetterlo anche alle donne, “questo non essere sole è stato il frutto del duro lavoro di tutti questi anni”.

Racconta inoltre come la situazione si sia completamente ribaltata; infatti prima il centro violenza apriva le sue porte per accogliere e in questa situazione invece sono state le donne ad aprire la porta anche tramite l’utilizzo dei social network. Si è potuto vedere e sentire ma non solo, così facendo si avevano ancora più elementi sulla dimensione del pericolo. In collegamento a questo, racconta al pubblico a casa di una videochiamata WhatsApp dove vedeva dietro la donna vittima di violenza la cucina presa a botte e distrutta, il marito era appena uscito di casa e aveva immediatamente chiamato riprendendo la casa distrutta, le stanze dei bambini devastate… così facendo una videochiamata su WhatsApp ha permesso di accelerare i tempi, vedersi nell’immediato senza il bisogno di venire in sede che il più delle volte risultava molto complicato da giustificare.

“Un passo verso il futuro, lo facciamo noi prime come operatrici dell’accoglienza, come consulenti del centro antiviolenza perché lo sguardo verso il futuro mi permette di prefigurare alle donne una via d’uscita e una possibilità di superare questo senso di isolamento, il superare quel terrorismo intimo vissuto e di superare quella paura di non avere un futuro questo è in questo momento per noi il cuore del nostro intervento”. Sara Modora parla di futuro e la domanda che molte donne si fanno: che cosa ne sarà di me o dei miei figli? Donne che non hanno più una minima autonomia economica, senza una possibilità è difficile credere di uscire dalla condizione in cui ti trovi e l’obbiettivo è quello di andare a seminare un terreno che permetta alle donne di superare quella che è una condizione di stallo.

Sottolinea però anche i problemi di collocamento lavorativo e opportunità nuove ma è anche ottimista a riguardo: “il territorio può farcela a rimettere le donne e i minori nella condizione di vivere serenamente e anche gli uomini, nel momento in cui affrontiamo da qualunque punto di vista la violenza”. Dunque, va potenziato il lavoro di protezione e il dopo, l’autonomia lavorativa e l’autonomia abitativa, la possibilità di essere indipendenti!

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