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Storia dei vaccini - 9

Contro la polio lo “zuccherino” di Sabin: non lo brevettò per non lucrare sulla salute

Sabin mise a punto un vaccino attenuato, che prometteva di essere molto più efficace e somministrabile per via orale

Albert Bruce Sabin, polacco naturalizzato statunitense, emigrò negli Stati Uniti nel 1921 con la sua famiglia, dove, nel 1930, acquisì quindi la cittadinanza statunitense, variando completamente il proprio nome e cognome ( in realtà si chiamava Abram Saperstein). Un loro ricco parente si offrì di pagargli gli studi in medicina in modo che poi egli potesse collaborare con lui nel suo studio di dentista: così, a 20 anni, Sabin era uno studente modello di odontoiatria alla New York University. Un giorno però lesse il libro “I cacciatori di microbi” (di Paul de Kruif) e ne rimase così affascinato che decise che avrebbe dedicato la sua vita a studiare quel mondo. L’entusiasmo lo portò così a cambiare studi: passò alla facoltà di medicina (sempre a New York), frequentando con passione e successo i corsi di microbiologia. Intanto coltivava la sua passione anche al di fuori dell’università, raccogliendo microbi dovunque capitasse (stagni, polvere, cassonetti della spazzatura).

Nel 1931 concluse gli studi conseguendo la laurea in medicina e andò a lavorare presso l’università di Cincinnati, in Ohio, dove sarebbe rimasto 30 anni. Dal 1946 venne nominato come capo della ricerca pediatrica. Qui, in qualità di assistente del dottor William Hallock Park (celebre per i suoi studi sul vaccino per la difterite), sviluppò ulteriormente il suo interesse per la ricerca medica, in modo particolare nel campo delle malattie infettive. Park divenne mentore del giovane e promettente Sabin, e gli trovò pure una borsa di studio quando il parente dentista si rifiutò di continuare a pagargli gli studi.

I suoi studi sulle malattie infettive dell’infanzia lo portarono a fare ricerche su quelle provocate da virus e in particolare sulla poliomielite (o “polio”) e, nel 1955, riuscì a sua volta nell’intento di contribuire alla lotta contro la malattia, ottenendo un vaccino orale capace di spiazzare i virus patogeni sostituendosi ad essi. Sabin aveva quindi messo a punto un vaccino attenuato, che prometteva di essere molto più efficace e somministrabile per via orale (per il Salk ci voleva un’iniezione) e l’aveva sperimentato su trenta volontari detenuti in una prigione dell’Ohio con buoni risultati. In seguito, per dimostrarne l’efficacia lo offrì per una campagna di vaccinazione di massa nel Chiapas, in Messico. Ma in Usa sussisteva un clima di diffidenza e così Sabin prese contatti con l’Unione Sovietica.

Il Ministero della Difesa statunitense, dopo molti tentennamenti, autorizzò la spedizione del vaccino in URSS dove Sabin si recò personalmente per promuoverne l’efficacia e la sicurezza presso le autorità. Poi quello che accadde lì fu una cosa impensabile altrove. La sperimentazione era diretta da un virologo molto bravo, Chumakov, che stava avendo difficoltà nell’autorizzazione dello studio da parte del ministero della sanità. Però Chumakov, a differenza dei suoi colleghi statunitensi, aveva un telefono rosso collegato direttamente con il Politburo e bastò una singola chiamata per risolvere la questione. La sperimentazione clinica poteva partire.

Nel 1959 il vaccino era stato somministrato a 10 milioni di bambini e senza alcuna volontarietà: anche se sperimentale era obbligatorio e basta, a quei tempi c’era poco da discutere. Per la fine del 1960 nell’Unione Sovietica 77 milioni (settantasette milioni) di persone sotto i vent’anni avevano ricevuto la vaccinazione, e altri 23 milioni nell’Europa dell’est. Niente fase sperimentale su volontari, niente doppio cieco, niente placebo. All’inizio ci fu molta perplessità sui risultati degli scienziati sovietici, ma alla fine il vaccino Sabin fu approvato in tutto il mondo. Oltretutto, facendo parte del Comitato di esperti che l’OMS istituì nel 1957 allo scopo di caldeggiare i vaccini vivi attenuati, Sabin ebbe buon gioco nel far accettare il suo vaccino orale, ma ebbe comunque il merito di non volerlo brevettare per non lucrare sulle sofferenze dell’umanità.

Il vaccino antipoliomielitico Sabin cominciò ad essere preparato negli USA dal 1961, quando ormai era una realtà nota nel mondo, ma bisognerà attendere il 1964 per giungere in quel Paese alla vaccinazione di massa con questo tipo di vaccino. Nel 1962, solo dodici mesi dopo l’omologazione del vaccino orale (OPV) messo a punto da Sabin, fu realizzata a Cuba una massiccia campagna di vaccinazione sull’insieme del territorio e poco tempo dopo la trasmissione autoctona del virus fu interrotta.

L’esempio fu rapidamente imitato da molti altri Paesi. In Italia, per esempio, venne prima adottato il vaccino Salk (IPV) nel 1957 e dopo che l’epidemia raggiunse il suo picco nel 1958, con 8.300 casi, la vaccinazione venne raccomandata alle persone da 0 a 20 anni. Nel 1964 iniziò invece una campagna di vaccinazione di massa con il vaccino Sabin OPV su bambini dai 4 mesi ai sei anni e in pochi anni l’epidemia fu sotto controllo. L’effetto fu veramente impressionante, perché già nel secondo semestre dello stesso anno i casi dichiarati di poliomielite in Italia furono 212 contro i circa 2.000 dello stesso periodo degli anni precedenti.

La diversa adesione alla campagna vaccinale che si ebbe al Sud rispetto al Nord del Paese, con un’incidenza di infezioni poliomielitiche tre volte superiore al Sud rispetto al Nord nel triennio 1966-68, fece sì che con la legge 4 febbraio 1967 e 25 maggio 1967 il Ministero della Sanità italiano rese obbligatoria la vaccinazione nel primo anno di vita e la rivaccinazione nel terzo anno.

È ben noto che uno dei motivi del successo della “Sabin”, si deve al fatto che venne somministrata con lo zuccherino e non con l’iniezione. Ugualmente efficaci e tuttora in uso, sono basati rispettivamente su una dose di poliovirus inattivati da iniettare (quello messo a punto da Jonas Salk) e su poliovirus vivi attenuati (quello orale sviluppato da Albert Sabin).

Gli ultimi due casi autoctoni si verificarono nel 1982, in due bambini non vaccinati, e l’Italia poté essere dichiarata “polio free”. Raramente, se non mai, una nuova tecnologia sanitaria era stata applicata con tanto successo e in così poco tempo. Questo successo era stato in gran parte il risultato di un partenariato senza precedenti fra organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie, settore privato e centri di ricerca, con la creazione di una conoscenza aperta e condivisa sulla malattia, le sue cause e i metodi di lotta contro di essa. Le campagne di immunizzazione contro la poliomielite, come nell’esempio storico della vaccinazione antivaiolosa, produssero anche un cambiamento culturale negli obiettivi delle politiche sanitarie: invece di difendere la popolazione da un virus patogeno, la vaccinazione di massa mirava alla disseminazione di un virus di debole virulenza in tutti i neonati, in un certo senso ricreando, per quanto riguarda la poliomielite, le condizioni che esistevano nell’era pre-igienica.

Va anche ricordato che durante il periodo da 1973 al 1984 negli USA si sono avuti 138 casi di poliomielite paralitica e che il 76% di questi casi era dovuto al vaccino orale Sabin. Ciò era la conseguenza della comparsa di ceppi mutanti tra la prole dei ceppi vaccinici somministrati oralmente e riproducentisi nell’intestino, ceppi mutanti che manifestavano evidentemente un rilevante aumento della loro virulenza, provocando gli stessi effetti del virus selvaggio. L’incidenza complessiva dei casi di paralisi poliomielitica conseguenti al vaccino è stata valutata di un caso su 2,6 milioni di dosi somministrate, mentre sale a 1 caso su 520.000 dosi somministrate il rischio associato alla prima vaccinazione e scende a un solo caso ogni 12,3 milioni di dosi successivamente somministrate. E si è visto anche che la complicanza colpisce soprattutto soggetti immunocompromessi.

In Italia, dopo aver constatato che 9 dei 10 casi di paralisi conseguenti alla somministrazione di vaccino OPV si erano verificati dopo la prima somministrazione, si modificò la scheda vaccinale introducendo per le prime due dosi il vaccino da virus ucciso tipo Salk (IPV), mantenendo l’OPV per le ultime due dosi. Ma già nel 2002 l’Italia abbandonava completamente il vaccino OPV per adottare l’immunizzazione di base con quattro somministrazioni di IPV.

All’epoca, l’epidemia di poliomielite fu considerata come una lezione di portata generale, lezione che, come hanno dimostrato successivamente altre pandemie e molte nuove malattie virali, non è stata sufficientemente appresa: “Ogni perturbazione su grande scale dell’ecologia dei processi naturali puoi avere come conseguenza degli effetti secondari inattesi e spesso molto dannosi”.

Il problema della incapacità del vaccino IPV di svolgere un’azione immunogena a livello ecologico non dovrebbe potersi porre nelle popolazioni dei paesi sviluppati dove la morbilità per poliomielite è ormai ridotta a zero e dove la disseminazione dell’agente infettivo selvaggio è ormai assente. Tuttavia, in conseguenza delle forti correnti migratorie dai paesi del Terzo Mondo, dove la polio è tutt’altro che eradicata, verso i Paesi industrializzati, questi ultimi sono tenuti a mantenere un alto livello di sorveglianza epidemiologica allo scopo di identificare e bonificare immediatamente gli eventuali focolai di insorgenza della malattia, prestando attenzione, soprattutto, a tutti i casi di paralisi flaccida in soggetti di età pediatrica, mantenendo, nello stesso tempo, elevato il livello di immunizzazione preventiva attraverso la vaccinazione.

La drastica riduzione della poliomielite, così come l’eradicazione del vaiolo, rappresenta uno dei più grandi successi della vaccinazione e dei programmi nazionali di immunizzazione. Eppure, a conferma di quanto suddetto, l’OMS ha dichiarato la recente diffusione di poliovirus selvaggio al di fuori delle ultime aree considerate allora endemiche (Afghanistan, Pakistane Nigeria), “un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” tale da richiedere a tutti i viaggiatori da e per le aree colpite una completa copertura vaccinale contro la malattia.

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