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1° maggio 2021

“Serve un vaccino sociale di solidarietà: l’uomo è chiamato a generare, non a produrre”

Don Cristiano Re, direttore dell’Ufficio per la Pastorale Sociale e del Lavoro della Diocesi di Bergamo, condivide con noi questa riflessione in occasione della Festa del Lavoro.

Don Cristiano Re, direttore dell’Ufficio per la Pastorale Sociale e del Lavoro della Diocesi di Bergamo, condivide con noi questa riflessione in occasione della Festa del Lavoro.

“E al popolo stava a cuore il lavoro”.

Non viene spontaneo quest’anno chiamare “festa del lavoro” il Primo Maggio.

Sono sotto gli occhi di tutti le tante incertezze, le tensioni, i molteplici problemi che non mancavano prima della pandemia e che ora appaiono ancora più complicati. Ce lo siamo detti in tanti diversi contesti che questo tempo è stato un acceleratore di processi mettendo in evidenza sia le obsolescenze che ora non possiamo più sostenere e che vanno superate, sia gli sguardi in avanti che ora chiedono di prendere velocemente forme concrete e applicabili alla nostra realtà territoriale. Anche per il mondo del lavoro questa è la regola che la pandemia impone.

“La terribile prova della pandemia ha messo a nudo i limiti del nostro sistema socio-economico. Nel mondo del lavoro si sono aggravate le diseguaglianze esistenti e create nuove povertà” come ci ricorda il messaggio dei Vescovi italiani per il primo maggio dal titolo “‘E al popolo stava a cuore il lavoro’ (Ne 3,38). Abitare una nuova stagione economico-sociale”.

A riguardo mi pare molto significativo l’invito a trovare e diffondere un “vaccino sociale … rappresentato dalla rete di legami di solidarietà, dalla forza delle iniziative della società civile e degli enti intermedi” che realizzino “il principio di sussidiarietà anche in momenti così difficili”. Questi mesi ci hanno fatto sperimentare “quanto siamo tutti legati ed interdipendenti”, da qui l’invito dei Vescovi: “Siamo chiamati ad impegnarci per il bene comune: esso è indissolubilmente legato con la salvezza, cioè il nostro stesso destino personale”.

Ritornano indimenticabili e profondamente attuali le parole pronunciate dal Papa nell’omelia di Pentecoste dello scorso anno, il 31 maggio – “Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi” che aprono alla prospettiva di sguardo che “i periodi di prova sono anche momenti preziosi” che possono insegnare molto. “La crisi ci ha spinto a scoprire e percorrere sentieri inediti nelle politiche economiche. Viviamo una maggiore integrazione tra Paesi europei grazie alla solidarietà tra stati nazionali e all’adozione di strategie di finanziamento comuni più orientate all’importanza della spesa pubblica in materia di istruzione e sanità”.

Quindi i vescovi aggiungono nel messaggio che “l’insostenibilità dei ritmi di lavoro, l’inconciliabilità della vita professionale ed economica con quella personale, affettiva e famigliare, i costi psicologici e spirituali di una competizione che si basa sull’unico principio della performance, vanno contrastati nella prospettiva della generatività sociale”. Per la Chiesa italiana due sono le bussole da seguire nel cammino pastorale e nel servizio al mondo del lavoro: la prima è l’enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti, dalla quale si impara che “la fraternità illumina anche i luoghi di lavoro, che sono esperienze di comunità e di condivisione” e che “in tempo di crisi la fraternità è tanto più necessaria perché si trasforma in solidarietà con chi rischia di rimanere fuori dalla società”; la seconda è il cammino verso la Settimana Sociale di Taranto (21-24 ottobre 2021) sul tema del rapporto tra l’ambiente e il lavoro, il cui Instrumentum laboris afferma che “la conversione che ci è chiesta è quella di passare dalla centralità della produzione – dove l’essere umano pretende di dominare la realtà – a quella della generazione – dove ciò che facciamo non può mai essere slegato dal legame con ciò e con chi ci circonda, oltre che con le future generazioni” (n. 25).

La crisi accentuata dalla pandemia di Covid 19 ha evidentemente avuto una influenza pure sul tessuto lavorativo bergamasco anche se il pesante urto economico e sociale inevitabile è stato ammortizzato in un certo senso da anni di prudenze e risparmio delle imprese bergamasche che hanno permesso che a Bergamo e nella sua provincia, nonostante tutto, la situazione si prospetti migliore rispetto ad altre parti d’Italia.

Certamente si va verso una situazione di grande instabilità dove una delle azioni più importanti da compiere sarà quella di accompagnare sempre di più le imprese e attività lavorative piccole e grandi in questa nuova transizione che vede significativi cambiamenti: pensiamo ad esempio come la modalità di lavoro in smart working potrà modificare l’organizzazione all’interno delle nostre imprese.

Uno dei grossi cambiamenti a cui le imprese dovranno fare fronte avrà certamente a che fare con il tema dell’innovazione digitale. Confrontandosi con chi si occupa dei vari comparti del mondo del lavoro si desume che ancora molte delle imprese bergamasche, in particolare quelle più piccole, hanno ancora da crescere molto rispetto a questo aspetto. In campo “digital” per molte nostre piccole e medie imprese sono stati fatti ridotti investimenti rispetto ad altre parti del mondo.

Il tema digital è fondamentale ma dobbiamo uscire dall’ottica che siano le imprese ad andare verso la digitalizzazione bensì al contrario; la digitalizzazione verso le imprese. Questo può essere fatto solo attraverso una capace e professionale competenza delle agenzie che seguono le nostre aziende in materia di innovazione, con l’umiltà di entrarci senza la pretesa di dare delle ricette ma con uno spirito di condivisione, ascolto e reciproca collaborazione. È tempo di interconnessioni e interdipendenze ancora più decise e che non dimentichino quanto anche il magistero della “Fratelli tutti” ricorda con chiarezza, che connessione o iperconnessione non coincide immediatamente con relazione. La relazione passa sempre dalla centralità della persona e dal valore del lavoro che è dato da una grande attenzione e azione virtuosa indirizzata alla dignità della persona, che prende la sua forma anche attraverso il pensiero e l’offerta di un lavoro che non smetta di interrogarsi sul suoi essere libero, creativo, partecipativo e solidale.

Proprio a riguardo di questo è necessario insistere continuamente sulla valorizzazione delle risorse umane: dove valorizzazione è da interpretarsi sia da un punto di vista economico (giusta retribuzione e condizioni di lavoro) ma anche inerente allo sviluppo di clima lavorativo positivo e partecipativo alla dinamiche ed alle visioni dell’azienda stessa. Un sistema di persone, formate e che trovano realizzazione al lavoro innescano sistemi di crescita per l’azienda non indifferenti. Altro grande tema con cui si dovrà avere a che fare sarà certamente quello della sostenibilità. Ci si accorge che fare impresa ad ogni livello oggi significa continuamente ripensare, orientare e ridirsi cosa sia la sostenibilità e ancora di più quella che oggi ci pare opportuno definire sostenibilità integrale. Fa riflettere che spesso ci capiti di constatare che a partire da diversi interlocutori, non ci sia un idea sufficientemente condivisa di sostenibilità integrale e che si possa cadere nel rischio di una sostenibilità intesa in senso individuale, dove la declinazione di una parte poi non coincida con quella dell’altra. “Capita che ognuno abbia una sua idea di sostenibilità” ci siamo sentiti dire e questo certamente ci fa riflettere molto. Serve una consapevolezza maggiore su quella che si definisce CSR (corporate social responsability). Ambiente, società e governance, devono essere tutti aspetti da considerare in modo sinergico e dialogico assieme a tutte le componenti sociali ai fini della costruzione di una sostenibilità integrale.

Un altro elemento importante ma allo stesso tempo molto critico è quello del cambio generazionale. Senza che questo in alcun modo sia un giudizio di merito ne tantomeno morale, dai nostri passaggi di ascolto e condivisione con vari soggetti territoriali del mondo del lavoro e delle istituzioni, si rileva che la nuova generazione di imprenditori è più fragile e incerta come anche si fatica a far emergere dal tessuto territoriale nuove figure imprenditoriali che possano in qualche modo “fare la differenza”. Pare che i giovani non siano primariamente orientati ad una vocazione imprenditiva e di presa in carico rispetto alla creazione nuove importanti occasioni di lavoro per se e di creazione di lavoro per altri. Non escludiamo dimentichiamo le tante esperienze virtuose e coraggiose anche del nostro territorio, tuttavia evidenziamo la necessità di fare riemergere una nuova spinta vocazionale alla imprenditività giovanile, creando ovviamente le condizioni perché essa possa avvenire, e tra queste anzitutto rendendo protagonisti i giovani di quegli spazi di governo e immaginazione imprenditiva che anche oggi spesso noi generazioni più adulte facciamo fatica a lasciare. Serve maggiore fiducia nei confronti dei giovani e questa va esplicitata attraverso concreti passaggi di consegna di responsabilità e gestione.

Va tenuta ancora alta l’attenzione e l’impegno sul grosso capitolo della formazione.

Nonostante ci siano importanti ed evidenti sforzi e passaggi sul nostro territorio, ancora serve un vero ed efficace coordinamento tra gli enti di formazione di tutti i livelli e le imprese senza dimenticare il necessario apporto e sostegno da parte egli organi istituzionali. E’ importante che i giovani studenti possano acquisire in modo trasversale come in termini di specificità tecnica, quelle caratteristiche e competenze che emergono dalle richieste dalle imprese e più in generale del mercato del lavoro. Mondo del lavoro e scuola si devono parlare sempre e di più e insieme sviluppare percorsi che possano assicurare ai giovani di avere le giuste skills per potersi costruire un futuro come persone che trovano nel lavoro un modo per partecipare alla costruzione del nostro mondo oltre che dei loro spazi di realizzazione di vita. La pandemia ci ha messo di fronte a nuove sfide pratiche ma anche di pensiero e modelli di concepire il mondo, le relazioni, il lavoro ed il rapporto tra crescita e lo sviluppo. Ci piace riproporre a tutti uno dei pensieri raccolti che può essere un esempio di quel nuovo patrimonio comune che va costruito: le imprese devono essere capaci di accettare l’imperfezione. La pandemia ci ha tolto il concetto di perfezione a cui siamo sempre stati abituati.

Cosa vorrà dire “crescere” nei prossimi anni? Non possiamo ridurre la parola crescita al solo concetto di aumento del fatturato: ovviamente non possiamo togliere all’imprenditore il guadagno ma bisogna essere capaci di fermarsi e osservare che lo scacchiere è cambiato, che ci sono nuovi elementi da tenere in conto. Ad alcuni pare che queste siano parole tanto ripetute quanto scontate, ma con una certa convinzione possiamo dire che sono tutt’altro che divenute un paradigma di cambiamento e ristrutturazione profonda di alcune nostre consolidate convinzioni e di conseguenza di prassi che innescano processi di vero cambiamento sui tempi lunghi.

Concludendo, con molta umiltà ma altrettanta convinzione, ci diciamo che se saremo in grado di dare concretezza a quanto proposto e se sapremo leggere oltre alle fatiche anche i segni di speranza e le opportunità insite in questa crisi pandemica, potremo aspirare ad un futuro migliore, senza per questo distogliere lo sguardo sui problemi del presente e dalla domanda di aiuto di chi è più esposto alle conseguenze della crisi. Ci rassicura la constatazione che l’aspirazione alla generatività, che ormai da tempo andiamo ripensando e proponendo, non sia scomparsa, costatato l’enorme impegno che tantissimi bergamaschi, di ogni categoria sociale e nei diversi ruoli che occupano sia nel mondo del lavoro, sia in quello istituzionale o del terzo settore, hanno svolto e continuano a praticare scendendo in prima linea nella lotta al virus ed a tutte le conseguenze che questo ha generato anche da noi dentro ai sistemi economici e sociali. La generatività continua ad essere la radice più profonda del nostro agire e della nostra aspirazione alla compiutezza della vita. Senza dimenticare che la costruzione di generatività e di resilienza trasformativa deve andare di pari passo con l’attenzione per gli ultimi: le nostre società sono come catene formate da tanti anelli, ed è la forza dell’anello più debole che fa la forza della catena nei momenti di crisi. È il modo in cui ci si prende cura gli uni degli altri nel serio tentativo di non lasciare indietro nessuno che fa la cifra morale del nostro essere comunità.

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