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25 aprile

Quei giovani partigiani: belli e felici, perché in pace con la loro coscienza

Angelo Bendotti, presidente dell'Isrec: il 25 Aprile ci invita alla prova della democrazia

In occasione del 25 Aprile abbiamo chiesto ad Angelo Bendotti, presidente dell’Isrec di Bergamo, di offrirci alcuni spunti di riflessione per celebrare questo giorno che ricorda la Liberazione dal regime fascista. 

Da più parti ormai, con un accanimento tanto insistente quanto sospetto, è in atto un vero e proprio attacco ai valori morali e politici dell’antifascismo e della Resistenza, con la sempre più chiara intenzione di ribaltare i giudizi di una lunga stagione di studi e di ricerche.

Nel nuovo clima che tende a non distinguere, ad appiattire i fatti rilevanti, è sempre più facile per gli avversari mettere in dubbio anche le certezze acquisite, quelle che sono – o dovrebbero essere – patrimonio comune di un’intera collettività. Lo “scandalo” della Resistenza armata al nazifascismo deve essere praticamente cancellato: così verranno meno, con le ragioni di quella che fu la vicenda “migliore” della nostra storia – il giudice Giorgio Agosti, partigiano col nome di battaglia Paragone, primo questore di Torino, osservava che “una volta al secolo, qualcosa di serio e pulito può accadere anche in questo paese”-, anche gli ideali di una generazione di giovani che operò, in una situazione precaria e difficilissima, la scelta per la libertà e la giustizia.

Penso sia giusto, anche perché per il secondo anno consecutivo non possiamo scendere in piazza per riconfermarci un patto di lealtà, rivolgersi direttamente ai giovani che più di altri, forse, vivono l’incertezza di un futuro sempre più oscuro, ricordando loro che quasi ottant’anni fa, furono principalmente dei giovani a battersi, a rifiutare la passività nell’azione che vent’anni di fascismo avevano determinato.

È una scelta drammatica, a pensarci bene, per molti sofferta e angosciosa: la Resistenza ha anche significato che nel vuoto di potere che si crea dopo l’8 settembre – basti pensare alla fuga vergognosa dei Savoia, al crollo delle istituzioni militari e politiche – , nel vuoto di autorità, ognuno sceglieva nella sua coscienza, in solitudine. Con la consueta lucidità ha colto quella scelta e quella solitudine, Franco Fortini: “C’è qualcosa di inspiegabile e straordinario, un coraggio di esprimersi, di sostenere un’opinione firmata dalla loro presenza lì”.

L’individuo che decide da solo fa i conti, una volta decisa la scelta, con la sua moralità, con il raggiungere anche fisicamente un mondo diverso. Si ricordi il celebre brano di Fenoglio, ne Il partigiano Johnny: “Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito – nor death itself would have been diversdtiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tale somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto”.

Nel momento della scelta pare quasi si compia un riscatto: i giovani di diversa estrazione sociale e formazione culturale che affluiscono nelle file partigiane hanno in maggioranza alle loro spalle vent’anni di propaganda fascista, ignorano cosa sia la lotta politica, i partiti; gli stessi concetti di libertà e democrazia che formano il patrimonio di pensiero dal quale trae origine la Resistenza non sono a tutti immediatamente chiari e comprensibili, anche se un importante ruolo di maturazione lo gioca l’esperienza di vita e di lotta in comune. Credo sia fondamentale oggi, nella gravità della pandemia che stiamo attraversando, riprendere in mano – come fu allora – la propria storia, riprendere a distinguere, ad esempio, fra chi ha subito e subisce l’aggressione del male e l’arroganza e l’incapacità di chi ha gestito in modo indegno la tragedia. Abbiamo diritto a chiedere un risarcimento della prepotenza.

Il 25 aprile ci invita alla prova, in un certo senso, della democrazia. Alcuni rappresentanti del governo hanno già dichiarato che non lo celebreranno: non è la prima volta che accade, ma sta a noi rendere ininfluenti questi comportamenti. Lo possiamo fare con la ferma convinzione che più indagheremo il significato profondo della Resistenza, depurandolo dalle scorie che decenni di retorica hanno prodotto, riprenderemo a ragionare intorno a quella che è stata la sua “semplicità”, soprattutto di questi tempi così meschini, riprenderemo ad intendere la “moralità” di quei venti mesi. Abbiamo un libro che ce la spiega, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, teniamolo bene, rispettiamone parola per parola, come purtroppo non sempre avviene, cerchiamone il significato più profondo.

Jean Paul Sartre diceva: “Non siamo mai stati così immensamente felici come durante l’occupazione tedesca”. Ecco, evitiamo di essere troppo frettolosi a considerare questo dire come una contraddizione, un controsenso: “Ogni sera, ogni giorno rischiavamo la vita. Eppure eravamo così felici: ma non solo perché eravamo così giovani, perché eravamo così belli, come sono belli tutti i giovani, così tanti fra noi, così stretti, così solidali, ma perché facevamo i conti con noi stessi e scoprivamo di essere in pace con la nostra coscienza”.

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