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Il processo

All’origine di Ubi Banca “un patto tra gentiluomini”, che non convince la Procura

La prima parte della requisitoria del pm Mandurino, durata più di 6 ore, ha ricostruito le fasi che portarono nel 2007 alla fusione tra la bergamasca BPU Banca - Banche Popolari Unite e la bresciana Banca Lombarda e Piemontese

Oltre sei ore non sono bastate martedì al pm Paolo Mandurino, affiancato dal procuratore capo Antonio Chiappani, per concludere la requisitoria della complessa indagine sulla nascita nel 2007 di Ubi Banca che ha portato a processo una trentina di persone.

Tra i banchi dell’aula magna della facoltà di ingegneria di Dalmine, scelta come sede del processo per evitare il rischio di contagi, ci sono tanti avvocati. Pochi gli imputati presenti: nelle prime file però c’è Giovanni Bazoli, tra gli artefici insieme a Emilio Zanetti, della fusione tra la BPU Banca – Banche Popolari Unite e Banca Lombarda e Piemontese.

Proprio il nocciolo dell’inchiesta della procura di Bergamo (avviata dal pm Fabio Pelosi e dal compianto procuratore Walter Mapelli), all’origine della quale secondo l’accusa ci furono da una parte un ostacolo alle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e Consob) e dall’altra l’influenza illecita sulle decisioni dell’assemblea.

All’interno di Ubi sarebbe stata creata una “cabina di regia” che, sempre secondo l’impianto accusatorio, prima decideva le nomine della banca e delle sue partecipate, e poi riusciva a influenzare le scelte dell’assemblea “con atti simulati e fraudolenti”.

In questo clima Zanetti, all’epoca dei fatti presidente di Bpu, e Bazoli, legato all’anima bresciana della Banca Lombarda, diedero vita, fondendo le due banche (una popolare e l’altra di capitali) a Ubi. Ma per i magistrati la regia bergamasco-bresciana era frutto di un’intesa tenuta nascosta a Banca d’Italia e Consob.

“Ci sono svariate prove di un patto tra associazioni ben più ampio di quello dei due comitati e che porta a una pluralità di condotte – le parole del sostituto procuratore Mandurino di fronte al giudice Stefano Storto -. Il disallineamento che viene contestato non riguarda solo il Comitato nomine, ma coinvolge condotte non conformi allo Statuto e al Comitato”.

“Le due associazioni bresciana e bergamasca – prosegue il pm – esercitavano un’influenza sulla banca attraverso il mancato adempimento delle direttive della Banca d’Italia. In qualità di componenti, gli autori erano consapevoli di ciò che dicevano le associazioni, ma proseguivano senza opporsi o segnalare”.

Poi il magistrato mette sul piatto i nomi grossi: “Zanetti definisce un patto tra gentiluomini quello di Bergamo del protocollo d’intesa 2006. Poi racconta che si era recato a casa di Bazoli nel 2012 per chiarire l’efficacia di quel patto fondativo di sei anni prima. Un incontro avvenuto ben al di fuori del contesto sociale. Per quale motivo?”.

“Inoltre – aggiunge l’accusa – Banca d’Italia chiedeva fosse istituito un comitato nomine funzionante, autonomo e indipendente, proprio per evitare conflitti di interesse. C’è quindi un’alterazione grave del controllo richiesto. Dopo questo richiamo a cambiare gli accordi sull’associazione per una governace uniforme, a Brescia il clima si surriscalda. E, prima si afferma che Banca d’Italia non accetta le basi del patto, poiché mira a un superamento della governance locale, ma poi la si ignora con l’escamotage della pariteticità”.

“Le nomine tra l’altro arrivavano in seguito a riunioni brevissime, anche di una quarantina di minuti per quella dell’intero consiglio di gestione (nel 2009) quando il comitato nomine è deciso solo la mattina. Stiamo parlando di quello che allora era il quarto gruppo bancario italiano, non di una sagra di paese. E le nomine – conclude il pm – erano fatte con eguale spartizione tra il gruppo bresciano e quello bergamasco”.

Nella prossima udienza, in programma venerdì 16 aprile, è prevista la conclusione del pm per il capo d’imputazione delle presunte mancate comunicazioni agli organi di vigilanza.

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