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Storia delle epidemie - 19

L’incubo difterite, che uccise anche il nipotino di Napoleone

Conosciuta fin dall'antichità, in epoca rimana si cercava di curarla con la tracheotomia

La difterite, come affezione della gola soffocante e dalla natura contagiosa, era conosciuta sicuramente fin dalla remota antichità. Lo si può dedurre dalle descrizioni delle diverse “angine” che affliggevano gli uomini, tra le quali una si distingueva per la sua gravità e elevata mortalità. Anche se le diverse forme di angina non furono nosologicamente inquadrate che nel XIX secolo dal medico francese Pierre-Fidèle Brétonneau, tuttavia la difterite è identificabile nelle descrizioni fatte dai diversi autori del passato più o meno remoto.

Nel Talmud viene citata un’affezione della gola chiamata “Askerà” che era obbligatorio denunciare alla comunità col suono della tuba (safar) in segno di allarme; ciò fa pensare ad una forma morbosa particolarmente pericolosa e contagiosa, come la difterite. Ippocrate descrive varie specie di angine, una delle quali mostra di avere i caratteri della difterite (sibilo della faringe, retrobocca ricoperto di saliva densa e vischiosa, impossibilità del malato di stare sdraiato per il pericolo di soffocare).

La prima vera descrizione della difterite la si fa risalire ad Archigene di Apamea, nato in Siria, venuto a Roma sotto l’impero di Traiano (53-117 d. C.), citato anche da Giovenale come medico di valore, ma valido soprattutto come chirurgo. Ma fu Areteo di Cappadocia (fine II secolo d. C.) a farne la descrizione più esaustiva e drammatica. Areteo scrive: ”In quelli che sono presi dalla cinanche (angina dal greco synanche), l’infiammazione attacca le tonsille, le fauci e tutta la bocca. La lingua sporge fuori dai denti, le labbra si fanno prominenti e da loro orli fluiscono la saliva e una pituita crassa fuor di modo e frigida: la faccia rosseggia e si gonfia; gli occhi in fuori, lucenti e rosseggianti: la bevanda è respinta alle narici. I dolori sono acuti, ma quanto più minaccia la soffocazione, tanto meno sentiti: il petto e il cuore sembrano ardere tra le fiamme, e altrettanto ardente è il desiderio d’aria fresca; e così in progresso va assottigliandosi la respirazione, che finalmente impedito il passaggio dell’aria nel petto, restano i miseri soffocati.” Ad Areteo si richiameranno gli autori bizantini Ezio d’Amida (V-VI sec.) e Paolo d’Egina (VII sec.). Galeno (129-201 d. C.), a sua volta, nomina un’angina “strangolante”.

Già nel periodo romano ci si pose il problema di come risolvere il grave quadro asfittico delle forme ostruttive delle alte vie respiratorie e Asclepiade di Bitinia (I secolo d. C.) seguito da Antillo (III secolo d. C.) raccomandarono la tracheotomia. Del periodo medievale non sono stati trovati scritti che descrivessero sintomi ascrivibili alla difterite ed alcuni pensano che in quel periodo la malattia fosse in una fase di quiescenza. Ma nel XVI secolo furono descritte numerose epidemie di difterite in Inghilterra, Paesi Bassi, Francia, Svizzera, Spagna. Nel 1640 Baillon descrisse un’epidemia verificatasi a Parigi nel 1576, particolarmente violenta.

La tracheotomia torna ad essere raccomandata dai più valenti chirurghi tra il XVI e il XVII secolo come il Guidi, Fabrizio d’Acquapendente, Paré, Severino e altri. Fabrizio d’Acquapendente (1533-1619), uno dei più grandi anatomisti e chirurghi dello studio di Padova, si premurava però di sottolineare che :”(…) si deve tagliare in ogni difficoltà di respirazione, dove è pericolo sovrastante di soffocamento e gli altri rimedi non giovano; se però tutta l’aspra arteria (la trachea), e’ l polmone non sieno ripieni di lordura e sporciztia, per cagion della quale necessariamente si affoghi il paziente (…), richiamandosi a quanto affermato dagli autori antichi come Rhazes, Avicenna, Avenzoar.

Nel XVII secolo le descrizioni della malattia si fanno sempre più numerose, soprattutto nella Spagna che è flagellata da devastanti epidemie del “mal del garrotillo”, come veniva chiamata la difterite in quel paese, dal mezzo usato (la garrota) per strangolare i condannati a morte.

Ne fanno testo le opere di Francisco Perez e di Casales. Perez oltre che descrivere i sintomi del morbo fa un chiaro riferimento all’immunità acquisita, quando scrive: ”(…) molti vengono colpiti da questo morbo, ma non vi ricadono (…)” e spiega l’etiologia della malattia con argomentazioni di tipo umoralistico, scrivendo: ”(…) è una profonda putrefazione dei muscoli della gola, che trae la sua origine da un umore mordace e corrodente, che deve essere allontanato dall’organismo (…)”.

Anche Napoli nel 1617 fu colpita da una tremenda epidemia, descritta da Foglia e da Sgambati (De pestilenti faucium affectu, Neapoli Saeviente opusculum). Mentre il primo credeva ancora che le cause del morbo risiedessero nella corruzione dell’aria dovuta all’influsso maligno degli astri, il secondo dichiarava invece la sua contrarietà a queste credenze. Sgambati descrisse molto bene la malattia con le caratteristiche membrane bianche, la difficoltà di respiro e la morte per soffocamento, corredando la descrizione con riscontri anatomo-patologici e facendo la diagnosi differenziale con altre forme di angina.

Straordinaria intuizione riguardo alla neurotossicità della malattia ebbe l’anatomico Tommaso Bartolini, che nel suo “De angina puerorum” sostenne che “l’angina soffocativa”, come lui la chiamava, fosse causata da un virus tossico (l’esotossina difterica) contagioso che, passando attraverso le narici, andasse a contaminare il cervello e il midollo spinale. Egli infatti aveva notato nel paziente affetto una debolezza generale accompagnata a volte da strabismo.

Nel XVIII secolo la malattia tardò ancora ad essere nosologicamente inquadrata; infatti anche il più noto dei pediatri di questo secolo, Rosen de Rosenstein, scrisse nel suo “Trattato delle malattie dei bambini”: ”I fogli periodici di Stoccolma fanno sovente menzione di bambini morti per malattie sconosciute. Fra queste si può annoverare un mal di gola talmente ignoto al nostro popolo che finora non ha ricevuto un nome proprio. Io non veggo nemmeno che abbia nome presso gli altri popoli d’Europa, eccettuata la Scozia, dove si chiama “morbus strangulatorius”. I medici stranieri non ne parlano più dei nostri”.

Ma nello stesso periodo gli studi sulla difterite, che non aveva ancora assunto questo nome, si fecero più intensi. Le due tremende epidemie che avevano colpito Cremona nel 1747 e nel 1748 indussero il medico Martino Ghisi a compiere osservazioni approfondite anche di tipo anatomo-patologico. Queste gli consentirono di descrivere per primo le pseudomembrane difteriche, trovate nello sputo dei malati e nella sezione dei cadaveri e ad evidenziare all’esame obiettivo, fatto sul vivente malato, la paralisi del velopendulo. Questi suoi lavori gli meritarono da Brétonneau, a cui la difterite deve il suo nome, l’appellativo di “le père du croup”. Il Ghisi distinse le angine in leggere, a localizzazione faringea, e gravi o “strepitose” a voler indicare, con questo aggettivo, il caratteristico rumore respiratorio dovuto all’ostruzione laringea.

Nel 1765 il medico scozzese Francis Home coniò il termine “croup” per designare l’angina soffocante in un suo libro sulle angine maligne, ma incorse ancora nell’errore di considerare la forma faringea, più benigna, e quella laringea o croup, come due entità nosologicamente distinte, dovute a cause diverse. Nello stesso errore cadde anche Samuel Bard, della scuola di Edimburgo, mentre ancora nel 1834 il francese Fourquet, medico delle epidemie del Dipartimento dell’Alta Garonna, nel suo “Essais sur le croup”, sosteneva la non contagiosità della malattia. Nella scuola tedesca, autori di grande rilievo, come Virchow e Schonlhein, sostenevano che l’angina difterica era un’infiammazione locale: niente di infettivo, dunque.

La gravità della malattia, che non risparmiò neppure la famiglia di Napoleone Bonaparte, quando morì di difterite il nipotino di 5 anni figlio di Ortensia Beauharnais e Luigi Bonaparte, indusse lo stesso imperatore a bandire un concorso che assegnava 12.000 franchi “all’autore della migliore memoria sulla natura di questa malattia e sui mezzi di prevenirla e di assicurare il successo del suo trattamento”, ma i risultati di 79 memorie, di cui due premiate, non portarono a nulla, perché ancora improntate ad un grossolano empirismo.

Questa malattia è quindi stata per diversi anni un autentico incubo, ma la peggior epidemia di difterite, di cui si hanno dati certi, si è registrata negli anni Ottanta del 1800 in Europa e in America, con il tasso di mortalità che, in alcune aree, raggiungeva il 50%. In seguito le epidemie di difterite si ripresentavano con una certa ciclicità, anche se meno gravi di un tempo. A Milano, per esempio, si ebbero ondate epidemiche nel 1902-1906, 1916-1917, 1927-1934 e così nei maggiori centri urbani d’Europa come Copenaghen, Berlino, Vienna, Parigi, Zurigo. Questo nonostante e scoperte del medico tedesco Behring, che nel 1891 inoculò per primo un siero antidifterico a un bambino che guarì dalla malattia.

Behring la chiamò “sieroterapia“, inaugurando l’era dell’immunologia moderna, ma la sieroterapia e la sieroprofilassi non furono sufficienti a interrompere la catena di trasmissione della malattia, tantomeno ad eradicarla. Ciò indusse valenti medici come l’italiano Angelo Celli ad intervenire nel 1911 contro la proposta di rendere obbligatoria la sieroprofilassi antidifterica, sia per l’elevato costo sia per la dimostrata incapacità di questa a eradicare l’infezione, proponendo, invece, sul modello inglese, di farne un uso limitato ai focolai epidemici per circoscriverli, oppure di offrirlo gratuitamente alle sole classi povere come facevano i comuni di Milano, Torino, Roma. Ciò non impedì, tuttavia, che il valore della sieroterapia antidifterica nel malato fosse universalmente riconosciuta. Non si eradicava l’infezione, ma una vita umana poteva essere salvata, ed era già una grande conquista.

La ciclicità della malattia è dovuta al fatto che essa dà un’immunità permanente a quella parte della popolazione che ne è rimasta colpita ed è guarita nel corso dell’epidemia riducendo negli anni successivi la circolazione del germe; ma a mano a mano che si ingrossa la popolazione della nuova generazione di bambini che non sono stati esposti alla malattia e quindi privi di una sia pur minima carica immunitaria, si rompe un equilibrio col riaccendersi dell’epidemia.

Va ricordato che la difterite è una malattia trasmissibile solo per contatto interumano, non ha serbatoi animali come la tubercolosi, né ambientali, come il colera e il tifo, presentando gli stessi problemi del vaiolo riguardo al suo controllo sociale ma, a differenza del vaiolo, essa è trasmessa anche da portatori sani, che hanno un ruolo nella ripresa epidemica della malattia, allorquando le difese immunitarie della popolazione sono diminuite. Ancora negli anni Settanta, prima che i vaccini diventassero accessibili, si stimarono un milione di casi di difterite e circa 50-60mila decessi all’anno tutti occorsi in alcuni dei Paesi più poveri del mondo.

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