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Il festival

“Taglio Lungo”, tra rapporti non convenzionali e necessità dell’altro

Presentata online la prima rassegna di lungometraggi organizzata dal Coordinamento dei Festival di cinema LGBTQ. Tra i titoli anche Fin de siglo, proposto da Orlando.

Storie di incontro e separazione, di relazioni intrecciate e interrotte all’interno di legami affettivi e sociali. Sono le storie mostrate da Taglio Lungo, rassegna di lungometraggi online organizzata dall’1 al 4 aprile scorso dal Coordinamento dei Festival di cinema LGBTQ (del quale fa parte anche il Festival Orlando di Bergamo).

Una rassegna, ospitata dalla piattaforma MyMovies, che ha presentato i migliori otto film a tema proposti nel corso del 2020, selezionati dalle realtà che costituiscono il Coordinamento.

Una riflessione sui legami affettivi e sociali, costruiti sia in ambito privato che pubblico, che portano, attraverso diverse espressioni cinematografiche, ad una necessaria esposizione di un singolo nucleo verso l’esterno, verso una società che spesso fatica ad accettare posizioni eterodosse e non convenzionali. Modelli in questo senso sono i racconti di formazione di Alice Junior e Meu nome é Bagdá. La studentessa transgender Alice, a causa del lavoro del padre, si vede costretta a trasferirsi ed a frequentare una scuola a forte stampo religioso, dove la popolarità come youtuber nulla potrà contro i pregiudizi e le cattiverie dei compagni. Pregiudizi e stereotipi di genere che vengono ancora più marcati nel racconto di formazione di Bagdà, giovane skateboarder dai tratti androgini, in un Brasile dove la differenza di genere e la supposta superiorità degli uomini sulle donne viene esibita sia dagli adulti che dai ragazzi più giovani. Alla violenza ed al sessismo, però, si contrappongono una solidarietà ed una resistenza tutta femminile, sia da parte delle nuove amiche di Bagdà sia dalla propria, matriarcale famiglia. Proprio l’esplorazione del concetto di famiglia attraversa i film della rassegna. Se il padre di Alice approva e cerca di comprendere la scelta della figlia, la famiglia di Bagdà, composta da sole donne (una madre single, tre figlie e la zia proprietaria di un bar), è il simbolo di un sovvertimento della tradizionale posizione di forza maschile all’interno del nucleo familiare.

Ruolo tradizionale della famiglia, riflesso nella società, è anche quello descritto all’interno di Il caso Braibanti, documentario che racconta la vita dell’ex partigiano, poeta, filosofo e uomo di teatro Aldo Braibanti, che fu protagonista di un processo per plagio che divise l’Italia. Un intellettuale eretico, che venne accusato nel 1968 di aver suggestionato lo studente Giovanni Sanfratello. Un’accusa politica, iniziata proprio a partire dalla famiglia Sanfratello, che in quel rapporto vedeva anche una messa in discussione dell’autorità della famiglia e dello Stato. Una società messa in discussione ed allontanata, è, al contrario, quella di Ne croyez sourtout pas que je hurle. Un diario per immagini tratte da più di 400 film visti da Frank Beauvais nel corso del 2016, una bulimia da film attraverso la quale il regista vuole salvarsi contro la bruttezza del mondo, un disfattismo misto a rassegnazione che porta l’autore ad allontanarsi dalla società, con un rapporto di antinomia con il padre a fare da sfondo. Famiglia come ambiente di scontro, di verità taciute, di rapporti complicati al limite dell’ossessione, come in Saint Narcisse, di Bruce LaBruce, nel quale anche gli stessi concetti di società e religione vengono messi in discussione in maniera netta.

Rapporti con la società che prendono forma attraverso spazi pubblici, diventati poi solo scheletri architettonici, come quelli del documentario All we’ve got, dove viene raccontata l’importanza della funzione dei bar queer negli Stati Uniti. Spazi fisici, chiusi a causa della finanziarizzazione del mercato immobiliare, che hanno lasciato però immutata, all’interno delle comunità, la ricerca di legami significativi. Interazioni pubbliche, ma anche vite private, rimesse sempre in discussione, così come quelle raccontate in Margen de error e Fin de siglo. La cinquantenne Iris segue una possibilità di cambiamento dopo aver ospitato nella propria casa Maia, la figlia di un’amica. Un rapporto che rinvigorisce la donna, ma che allo stesso tempo rimette in discussione una relazione importante e la vita stessa, anche con un “margine d’errore”.

Rapporti sempre in discussione, in un continuo divenire, sempre con l’amore a fare da motore. Come nel caso della coppia in Fin de siglo, amore nato da un incontro casuale a Barcellona, forse già vissuto, forse no. Lucio Castro mostra l’amore nuovo e ritrovato allo stesso tempo, l’amore passionale, l’amore che è motore del mondo. Forse proprio il film argentino (in programma nella seconda parte della scorsa edizione del Festival Orlando, poi annullata) è l’ideale chiusura della rassegna. Perché se la solitudine può avere il riflesso positivo di una libertà totalizzante, è forse solo con la necessità dell’altro, l’incontro e la socialità che si comprende la vera essenza dell’essere umano.

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