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Storia delle epidemie - 18

La peste di Londra: centomila vittime su mezzo milione di abitanti

Le condizioni igieniche cittadine furono “ottimali” per il diffondersi dell’epidemia di peste. L’aumento della popolazione, la mancanza di acqua corrente e la proliferazione di topi, specialmente nei sobborghi più poveri, accelerarono il processo

Come abbiamo visto anche nei precedenti capitoli, il clima, la circolazione dei venti e delle masse atmosferiche in generale, hanno da sempre contribuito alla diffusione di molte malattie: gli sbalzi fra freddo e caldo e l’umidità favoriscono il proliferare delle malattie e aiutano il diffondersi di infezioni, sia perché aumentano i ritmi di riproduzione dei virus e dei batteri che fanno da veicolo portatore di determinate malattie, sia perché portano a latitudini anche alte le condizioni climatiche ottimali per le infezioni. Anche per la peste di Londra, è molto probabile che il clima sia stato una concausa.

L’epidemia di peste che colpì la città inglese nel 1665 ha qualcosa di sconvolgente. Non tanto per l’elevato numero di morti ma soprattutto per l’alto tasso di mortalità: nell’arco di pochi mesi la popolazione della città si ridusse di un quarto e intere famiglie furono spazzate via nel giro di settimane. Su una popolazione di circa mezzo milione di abitanti furono più di centomila i decessi accertati, ma molti ritengono che il numero sia più alto.

Condizioni igieniche “ottimali” per la peste

Tutto iniziò nel dicembre del 1664, quando furono segnalati i primi casi. Tra gennaio e febbraio del 1665 i decessi cominciarono a lievitare. Bisogna dire che le condizioni igieniche cittadine furono “ottimali” per il diffondersi dell’epidemia di peste e di altre malattie infettive comuni all’epoca. Non solo: l’aumento della popolazione, la mancanza di acqua corrente e la proliferazione di topi, specialmente nei sobborghi più poveri, furono tutti elementi di contorno che accelerarono il processo. In breve il morbo si diffuse in maniera incontrollabile. Le zone inizialmente più colpite furono ovviamente le zone più povere, quelle dove già normalmente la vita era precaria: le cronache riportano che già prima dell’epidemia, le strade dei quartieri popolari erano sporche, ingombre di rifiuti, vere e proprie fogne a cielo aperto e l’aria di conseguenza era irrespirabile.

Tra febbraio e aprile il clima rigido sembrò fermare la diffusione della malattia, persino il Tamigi gelò per un breve periodo. In primavera, ad aprile, le temperature salirono nuovamente e tornarono i decessi per peste. Con l’avvicinarsi del caldo estivo il numero dei morti si fece preoccupante, si passò da decine di morti a settimana, poi a centinaia, poi a migliaia per settimana.

Fuori dalle mura cittadine furono eretti cinque lazzaretti, dove però venivano somministrate scarse cure. Molti morivano solo poche ore dopo essere stati portati in uno dei cinque presidi. Da notare che a Londra, dopo l’epidemia del 1603, che provocò solo 2000 vittime, si istituì il bollettino dei decessi settimanale. Dal mese di dicembre del 1664 le autorità cominciarono ad annotare tutti i decessi su un libro che chiamarono Bills of mortality.

Le croci rosse sulle porte

Tra le strade si moltiplicavano le croci rosse sulle porte: “Ogni casa infetta dovrà essere contrassegnata da una croce rossa lunga trenta centimetri, al centro della porta, ben visibile, assieme alla scritta “O signore, abbi pietà di noi” proprio sopra la croce, e fino alla riapertura legale di quella casa”. Questa era una delle tante disposizioni emanate: le famiglie in cui c’era un ammalato dovevano rimanere chiuse in casa. Ogni sera un carro passava a prendere i morti. Non c’erano solo i morti per la peste: molti, non sopportando gli atroci dolori causati dai bubboni, si toglievano la vita certi ormai di essere condannati. Pochissime persone si prendevano cura degli infermi, anche perché la maggior parte dei medici avevano lasciato Londra per raggiungere altre città o tranquilli luoghi di campagna lontani dalla capitale. Così avevano fatto anche tutte le famiglie ricche e nobili e lo stesso Re, Carlo II, che si era trasferito con la corte a Oxford.

Isaac Newton giovane sfollato

Tra gli sfollati c’era anche un giovane scienziato di 24 anni, che era appena stato nominato Bachelor of Arts all’università di Cambridge. Dato che l’università era stata chiusa per l’epidemia, il giovane si era trasferito in campagna, nella sua tenuta di Woolsthorpe e qui, in totale isolamento si era dedicato completamente ai suoi studi, quelli che l’avrebbero portato ad enunciare la famosa teoria gravitazionale. Parliamo ovviamente di Isaac Newton il quale, come racconta il celebre aneddoto, ebbe l’intuizione mentre studiava nel suo giardino, avendo osservato una mela che cadeva spontaneamente da un albero.

In parallelo iniziarono i massacri di cani e gatti, ritenuti responsabili del contagio, ma con le loro esecuzioni sommarie aumentarono i ratti e i loro parassiti, i veri responsabili del contagio. Portatori del Yersinia pestis, il batterio cocco-bacillo a forma di bastoncino, lo trasmettevano con le pulci che vivevano su di essi o con il loro morso.

Mentre le persone più religiose credevano si trattasse di un castigo divino (di nuovo…), si riteneva che la causa del male fossero gas velenosi che si trovavano nell’aria e che le sostanze aromatiche potessero contrastare i vapori letali. Così le autorità ordinarono di bruciare per le strade torce profumate e di spargere spezie, come il pepe. Fu consigliato anche l’uso di tabacco ritenendo che possedesse particolari proprietà antisettiche e purificanti. A questo proposito è interessante notare come l’uso intenso del tabacco in quel periodo, determinò un aumento del suo consumo anche successivamente e ciò produsse un notevole incremento della sua produzione generando un mercato molto fiorente.

L’incendio

L’epidemia toccò il suo apice al termine dell’estate, particolarmente calda. Poi i casi iniziarono a scemare. Probabilmente contribuì alla fine dell’epidemia anche il grande incendio avvenuto nel settembre del 1666. Ancora una volta le condizioni climatiche furono in parte la causa di questo evento devastante: l’estate di quell’anno fu particolarmente secca, tale da far scoppiare un incendio indomabile, che si espanse e in pochi giorni divenne gigantesco. Il numero dei morti fu contenuto: gli abitanti avevano del resto già subìto la strage di peste lasciando molte case vuote.

Le strutture invece ricevettero una sonora batosta, essendo il legno tra i materiali base di costruzione. Insieme ai cinque sesti della città, scomparvero anche i ratti, principali responsabili dell’infezione. La città fu riedificata in mattoni e pietra con adeguato sistema fognario e viario e la pubblica igiene ne fu favorita.

L’ondata di peste, oltre alle succitate carenze igieniche che ne favorirono il contagio, pare che sia arrivata con dei carichi di cotone infetti dall’Olanda, dove era in corso una epidemia già dal 1654 e che aveva provocato oltre cinquantamila morti. Questa teoria dei cargo olandesi pare sia supportata da due morti sospette ai Docks di Londra sul finire del 1664.

C’è da sottolineare come la vita a bordo delle navi non sia mai stata semplice, specialmente nella storia antica. Le malattie erano perennemente presenti, basti pensare allo scorbuto, alla sifilide, al tifo, alla malaria e, non da meno, la peste. Nel Seicento (ma anche in altre epoche come abbiamo già letto nei precedenti capitoli) molte epidemie di peste iniziarono proprio a causa di navi dove c’erano condizioni igieniche molto scarse, che entravano in porto e scaricavano le merci, senza sapere che esse trasportavano anche vettori parassitari, come nel caso dell’epidemia di Londra.

La quarantena

È pur vero che già dalla metà del Quattrocento, i veneti decisero di passare dai trenta ai quaranta giorni di isolamento delle navi, in caso di sospetto contagio a bordo. Le navi venivano così allontanate dal porto in una zona apposita, dove, prima di poter scaricare le merci, dovevano attende quaranta giorni, appunto la quarantena.

Questo termine, ormai molto conosciuto da tutti, risale ai tempi biblici delle scritture ebraiche. Come si può leggere in alcune scritture del Levitico, secondo la Legge chi aveva o si sospettava che avesse una malattia contagiosa veniva messo in quarantena, vale a dire veniva allontanato dagli altri o isolato per un certo tempo. Periodi di quarantena di sette giorni erano richiesti nei casi sospetti di lebbra che riguardavano persone, indumenti e altri oggetti, o case; quest’ultima norma costituiva una certa protezione se si trattava del cadavere di qualcuno morto per una malattia infettiva.

Venne poi usato dagli equipaggi delle navi come misura di prevenzione contro le malattie che imperversavano nel XIV secolo, fra cui la peste. Un documento del 1377 stabilisce che prima di entrare a Ragusa, l’odierna Dubrovnik in Croazia, era necessario passare 30 giorni (la cosiddetta trentina) in un luogo isolato, di solito le vicine isole di fronte la costa, in attesa dell’eventuale manifestarsi di sintomi di peste. Nel 1448, come suddetto, il Senato veneziano prolungò il periodo d’isolamento fino a 40 giorni dando origine al termine quarantena (originariamente forma veneta per quarantina).

Il “Diario” di Daniel Defoe

“Ai primi di settembre del 1664 cominciò a correre voce a Londra e anch’io ne intesi parlare nel mio quartiere, che in Olanda c’era di nuovo la peste…” Così inizia il ”Journal of the Plague Year”, il Diario dell’Anno della Peste, scritto nel 1722 da Daniel Defoe, giornalista e scrittore inglese, autore di “Robinson Crusoe” e “Moll Flanders”. Quando scoppiò quella terribile epidemia che cambiò il volto di Londra e passò alla storia come “la grande peste”, Defoe aveva solo 5 anni e abitava con la sua famiglia a Stoke Newngton, un borgo della cerchia di Londra dove il padre esercitava la professione di mercante. Quindi è ipotizzabile che ne conservasse solo un vago ricordo. Ma accadde qualcosa, nel 1721, che forse ne riportò alla luce qualche frammento, se non altro quello di ciò che avrà sentito in seguito raccontare in famiglia. Nel 1720, infatti, in Francia scoppiò un’altra epidemia, che fortunatamente fu contenuta sia come diffusione che come numero di morti. Tuttavia, inizialmente questo fatto suscitò una grande impressione ed apprensione negli inglesi, per il timore che il nuovo contagio potesse dilagare e raggiungere il loro Paese.

Si tratta di un diario immaginario, anche se presentato come autentico, scritto da un personaggio non realmente esistito, ma assolutamente fedele alla realtà dei fatti perché contiene testimonianze storiche e documenti autentici. L’io narrante è un sellaio, non meglio identificato, che allo scoppiare dell’epidemia decide di rimanere in città, nonostante il pericolo, per continuare a curare i suoi affari. Fatalista e profondamente cristiano, si affida alla divina provvidenza, convinto, come molti all’epoca e forse anche lo stesso Defoe, che la causa dell’epidemia fosse dovuta ad una punizione divina per il cattivo comportamento degli uomini.

Accanto al diario personale, più intimo, largo spazio è dato alla descrizione e all’analisi minuziosa e lucida degli avvenimenti e dei comportamenti delle autorità da una parte, non sempre preparate ed efficienti, e della popolazione dall’altra, sofferente e terrorizzata. Alle vicende si aggiungono numerose testimonianze e documenti dell’epoca autentici, come le varie ordinanze emesse dalle autorità per cercare di contenere il contagio, le statistiche, il già citato “Bills of Mortality” che riportava in dettaglio gli elenchi dei deceduti e la “Loimologia,” un accurato resoconto dei fatti redatto nel 1672 dal dottor Nathaniel Hodges, uno dei pochi medici che non abbandonarono la città, il quale si prodigò per gli ammalati soprattutto i più poveri con grande dedizione.

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