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Storia delle epidemie - 17

La peste del 1656 a Roma e a Napoli: parlarne era rischioso come ammalarsi

Il medico Geronimo Gatta, testimone oculare ed attendibile iniziò a dire che il vettore della malattia erano i corpuscoli, i “corpicelli”, sole cause della peste

Dopo la peste del 1630, che alla fine interessò tutta l’Italia a più riprese, fino alla sua estinzione che avvenne, a seconda dei luoghi, fra il 1632 ed il 1634, seguirono successivamente altre epidemie. La prima fu la Peste di Siviglia, la più grande epidemia di peste che colpì la città di spagnola, causando la morte di almeno 60.000 persone, pari a circa il 46% della popolazione cittadina di quel tempo.

Ben più estesa e virulenta fu l’epidemia che, fra il 1656 e il 1657, colpì alcuni Stati italiani. Il punto di origine fu la Sardegna, dove iniziò già dal 1652 e dove provocò la morte di circa il 50% della popolazione. Nell’aprile 1656, portata dalle navi, l’epidemia raggiunse Napoli e successivamente il resto del Regno. In seguito, risalendo la penisola, il morbo raggiunse a maggio lo Stato Pontificio e durante l’estate il territorio della Repubblica di Genova. In totale si stimano almeno un milione di decessi.

Interessante la vicenda riguardante Roma. Già ai tempi della peste che aveva colpito l’Italia Settentrionale nel 1630, la Congregazione di Sanità aveva provveduto a misure atte a contenere l’epidemia al di fuori dei propri confini. Nel 1656 l’autorità pontificia scelse di privilegiare l’aspetto burocratico a quello medico: prevenire il disordine sociale, che sempre si accompagna alle epidemie, era prioritario, tanto che il primo giugno nel verbale delle sue sedute si legge: “La città sta bene, non si sente un minimo sospetto”. Il solo nominare la peste provocava il panico sia nella popolazione che presso le autorità ed evocava scenari terribili, tanto che si arrivò a negarne la presenza. Pur tenendo presente le condizioni nelle quali si viveva allora e le scarse conoscenze mediche e terapeutiche, l’unica spiegazione della epidemia è che fosse dovuta alla corruzione dell’aria che, alimentando i miasmi, causava la malattia. E poi la collera divina, le congiunzioni astrali, l’acqua stagnante delle paludi, la sporcizia.

In questo quadro, immutato nei secoli, il medico Girolamo Fracastoro nel “De contagione” aveva, circa un secolo prima, fornito altre spiegazioni e scritto sulle modalità in cui si trasmetteva la peste: “o per contactum o per fomitem o ad distans”; nel primo caso, forniva l’esempio di un acino d’uva marcio che “corrompeva” l’acino cui si appoggiava; nel secondo, il “fomite” (fungo) si attaccava ad oggetti inanimati; nel terzo, il morbo si trasmetteva “a distanza”. Nel suo studio, lo scienziato fu il primo a ipotizzare e verificare che le infezioni fossero dovute a germi portatori di malattia, con la capacità di moltiplicarsi nell’organismo e di contagiare altri attraverso la respirazione o altre forme di contatto.

Fracastoro, pur allora inascoltato, rimane comunque uno dei fondatori della moderna patologia. Purtroppo, tali teorie innovative convivevano con la forte tradizione cristiano-fatalista di cui si è detto più volte. Questa credenza durerà a lungo e sarà ancora presente nell’opera del 1714 di Antonio MuratoriDel governo della peste”, nella quale a fianco di spunti innovatori si leggono consigli e sollecitazioni a tenere “purgata” l’aria e quindi a tenere pulire le vie dalle immondezze. Elemento centrale per la trasmissione della malattia restava sempre l’aria e la sua “qualità”.

Ma torniamo al 15 giugno 1656 quando, con la morte di un soldato napoletano e di un pescivendolo, ebbe inizio ufficialmente l’epidemia. In seguito morì tutta la famiglia che aveva ospitato quest’ultimo e da lì il morbo si diffuse in tutta la città. L’apice si raggiunse a novembre per poi scemare gradualmente, per ricominciare fra maggio e luglio del 1657, e infine scomparire prima dell’autunno. Si stima che il 14% della popolazione di Roma morì a causa della peste.

Nella Roma del 1656 la gestione dell’epidemia era, come detto, nelle mani della Congregazione di Sanità, che aveva come Commissario Generale di Sanità Girolamo Gastaldi, il quale in seguito scrisse un “Tractatus”, un manuale pratico in cui riassume i provvedimenti presi, al fine di essere utile ai posteri che si fossero trovati a gestire lo stesso fenomeno. Le decisioni da lui assunte furono: spingere la popolazione a denunciare ogni caso di malattia o morte sospette; separare i sani dagli infetti, creando anche dei lazzaretti dove ricoverare i malati; disinfestare persone, luoghi, mobili e oggetti, mediante aceto o affumicazioni; bruciare materassi e vestiti; stessa procedura applicata anche alle merci. Anche il sistema delle pene venne ridisegnato con un forte inasprimento, tanto che una piccola inadempienza poteva essere punita con la pena capitale. Scrive il diarista Gigli nel gennaio 1657: “Non si teneva ragione in nessun tribunale, ogni giorno si faceva giustitia di quelli che contravvenivano all’ordine dati per sanità”. L’azione di Gastaldi venne celebrata e il suo operato apprezzato dai contemporanei che non esitarono a definirlo “colonna di fuoco che condurrà fuori dalla feruità della morte questo popolo tormentato”.

Nell’operato della Congregazione vi furono quindi luci ma anche ombre, come d’altronde è comprensibile in un momento di gravità eccezionale come quello di una pestilenza: è pur vero che l’azione decisa e le pene comminate con severità e celerità contribuirono a mantenere calma la popolazione e a impedire che si verificassero scene di caccia agli untori o disordini cittadini; d’altra parte, in un mondo in cui le cure erano assolutamente inefficaci, l’unico modo per circoscrivere il contagio era dato dalla rapidità e tempestività dell’intervento politico-amministrativo e dalla capacità di reprimere qualsiasi inadempienza agli ordini emanati. Tutto ciò fu reso possibile anche grazie all’appoggio di Papa Alessandro VII, che rispondendo a chi formulava dubbi sull’eccessiva severità diceva: “ci vuole nelle materie odiose chi faccia volentieri lo sbirro”.

La devastante epidemia della peste colpì anche Napoli e il suo Regno. Di sicuro i morti furono ben più di 200.000, come si evince da una stima recente, che per alcuni è però piuttosto cauta. Sappiamo che in certi giorni morirono più di 10.000 persone. Cosa accadde? Possiamo pensare che, come sempre in quei tempi, la medicina non fosse all’altezza del problema? Possiamo dire che mancarono uomini come il volitivo cardinale Gastaldi che, nei modi che sappiamo, riuscì in parte a contenere il contagio?

Sappiamo per certo che anche a Napoli parlare di peste era rischioso come la peste stessa e che le “ragion di stato” si imposero sui bisogni della popolazione. Più nello specifico, il viceré spagnolo, il conte di Castrillo, era impegnato nel tentativo di far fronte a nuove minacce da parte francese nel contesto lombardo; fino alla fine di aprile, pur avendo già avuto notizia dei primi casi di morti “improvvise” come si definivano, cercò di nasconderle e di assolvere al suo compito, che era quello principalmente di difendere il dominio spagnolo nei luoghi in cui era minacciato tanto nella penisola quanto nelle Fiandre. Il viceré cercò appunto di reclutare un grosso battaglione da inviare verso lo stato di Milano. Dovette poi rivedere i suoi disegni: una guerra più importante, più rischiosa, più formidabile, si stava preparando ai danni suoi e della popolazione di Napoli e del regno. Così fu costretto a convertire ad altro uso gli strumenti che aveva a disposizione per le guerre cui era abituato. Significativamente, i carri dell’artiglieria servirono per trasportare cadaveri: gli uomini che pensava di mandare sul fronte perivano come mosche. Un certo fra’ Paolo Venato, che Castrillo aveva fatto venire per reclutare uomini, fu inserito tra i membri della Deputazione della sanità, che nacque non appena il “bellum divinum”, come era chiamata la peste, si palesò in tutta la sua imponenza e tragicità.

Se la peste, come affermò il medico Geronimo Gatta, testimone oculare ed attendibile, si era già manifestata in città nel febbraio 1656, il viceré cominciò ad affrontarla solo dai primi di giugno.

Per vari giorni in città ci si chiese se il male non fosse stato “portato” dai nemici. Gli Spagnoli furono accusati di noncuranza verso la città; a questa voce si oppose quella secondo cui la malattia era stata invece introdotta deliberatamente da nemici della Corona, Francesi o Portoghesi. Essi l’avrebbero portata con polveri o unguenti, esattamente come nella Milano del 1630.

Il termine peste comparve in un documento ufficiale il 2 giugno. Si sapeva molto bene che il male fosse contagioso, ma forse non era chiaro che potessero esservi portatori sani. Così il 14 giugno un bando ordinava agli infermi di non lasciare le proprie abitazioni, sotto pena della vita. Le ipotesi sull’origine del male erano varie; quel poco che si fece nei primi tempi (si pulirono le strade, si accesero roghi per pulire l’aria, ecc.) lo si fece in linea con le ipotesi miasmatiche (secondo cui la peste derivava da acqua o da aria corrotte, come si diceva). Intanto, per la devozione popolare ma anche dello stesso viceré, ci si poteva unire in processione e andare in chiesa a pregare dinanzi alle immagini sacre.

Così accadde che proprio dopo un pellegrinaggio, verso la collina su cui si eresse poi il convento per le clarisse di suor Orsola, si ebbe un’impennata di casi, di cui molti testimoni parlano: la prova che il morbo era fortemente contagioso e le continue processioni lo diffondevano esponenzialmente. Torniamo al nostro medico, Geronimo Gatta, uno dei pochissimi ad aver scritto un trattato sulla peste, studiando cause e rimedi possibili. Oltre alla propria esperienza diretta e gli stimoli ricevuti a Napoli, furono utili a Gatta gli aforismi “de peste” di Santorio, inclusi nell’edizione del 1634 del De statica medicina (la cui prima edizione risale al 1614). Gli scritti di Santorio, medico e confidente di Paolo Sarpi e vicino a Galileo Galilei, fecero assumere a Gatta un atteggiamento non consueto, antiretorico, coraggioso.

Gatta nel suo trattato “Di una gravissima peste che nella passata Primavera, e Estate dell’anno 1656 depopulò la città di Napoli”, sorride di chi aveva parlato di polveri (con la compiacenza del viceré), avendo il coraggio di rifiutare certe lezioni degli antichi (ad esempio, quella sulla bontà del salasso come rimedio contro la peste), rigetta teorie indimostrabili come il fatto che la peste nascesse da aria o da acqua corrotte. La peste non nasceva “spontaneamente”, ma era sempre portata da un infetto; per questo era necessario l’isolamento: “Peste non sponte inficimur, sed fertur ab alijs” (Non diventiamo appestati da noi stessi, ma ci viene attaccata da altri). Lo aveva capito il volgo, lo avevano capito tutti, ma questo medico spiega perché: il vettore della malattia sono i corpuscoli, i “corpicelli”, che erano quindi le sole cause della peste. Gatta non si chiede da dove venissero, a differenza di altri, ma afferma che occorreva isolarli, evitare di inalarli o assorbirli dalla cute (perché a suo avviso era possibile che si assorbissero dai pori). Occorreva anche evitare processioni e assembramenti in chiesa perché il morbo era sì mandato da Dio (comunque), ma andava combattuto con i mezzi umani dell’intelligenza.

In conclusione, è interessante come “ i semi” e “i corpuscoli” appaiano sovente in questa narrazione. L’ipotesi “corpuscolarista” si riscontrava già in nuce nel galenico “De differentiis febrium”. In quel testo Galeno riconduceva la formazione della peste a varie circostanze: la presenza di cadaveri insepolti, un’estate particolarmente calda, acque stagnanti, ma dava anche per scontato che la peste ad Atene (vedi seconda puntata) fosse stata portata dall’Etiopia, mediante semi invisibili. Oltre a ciò, Gatta precisa che Ippocrate e Galeno si erano occupati di morbi epidemici “perniciosi”, che potevano effettivamente nascere in condizioni climatiche sfavorevoli.

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