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Storia delle epidemie - 16

La peste italiana del 1630: Manzoni e la colonna infame

Nel 1630, quando la peste, prima negata, scoppia in città, l'intento di tanti fu quello di trovare i colpevoli. Coloro i quali avevano sparso “un onto pestifero” su muri e banconi di chiesa per diffondere il morbo. E volendolo trovare, lo trovarono.

Tantissimi gli scrittori che hanno narrato questi anni di peste; fra i tanti a Firenze il Marchino, a Bologna il Moratti, a Milano il Ripamonti ed il Tadino, a Venezia il Ruosi, a Pisa i contemporanei Gaudenzio Paganino e Roderico de Castro. Famosa è rimasta poi la bellissima descrizione che ne ha fatta il Manzoni nei Promessi Sposi, di cui abbiamo menzionato alcuni brani nel capitolo precedente.

Prima di entrare nel merito del tema della puntata, annotiamo ancora un passo tratto dal capitolo XXXIV: Renzo si sposta dalla campagna alla città fino al Lazzaretto, in un climax ascendente di orrore; la campagna appare desolata ma ancora abitata, mentre la città è devastata e ormai quasi deserta. Il Lazzaretto, visto solo da fuori, lascia presagire una miseria ancora più grande; ancora una volta la città è per Renzo un luogo ostile e infernale. Le varie scene del capitolo mostrano il dissolversi della civiltà umana di fronte allo strapotere della tragedia.

Ma in mezzo al più assoluto degrado morale Renzo assiste a una fulgida eccezione: l’episodio di Cecilia, che conduce il lettore al culmine del páthos, uno dei più commoventi del romanzo. Vi si legge un senso di armoniosa, composta, spirituale bellezza, pur fra gli orrori della peste. Il dolore di quella madre non è che una delle manifestazioni più evidenti e luminose di una profonda religiosità. Lo strazio per la perdita della figlia, contenuto ma infinito, e l’infernale e il fosco carro su cui l’adagerà, si dissolvono in una serenità dolorosa “una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale”. La madre di Cecilia giunge per così dire da una sfera superiore: già prima di parlare appare avvolta da un senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri sottolinea il livello di un’umanità ormai scaduta, rimarcato dagli “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade e dai sacchi di granaglie cui vengono paragonati i cadaveri riposti sui carri. Ergo, la morte può privarci della vita, ma non del rispetto e dell’amore; sta all’uomo mantenere intatto ciò che appartiene solo a lui, ciò su cui la morte non ha potere.

Gli untori

C’è un altro tema che rileggendo il romanzo dei Promessi Sposi salta subito all’occhio: quello sugli untori e sull’ossessione verso l’individuazione del primo ammorbato, dalla quale far discendere quella di tutti gli altri. Nel 1630, quando la peste, prima negata, scoppia in città, l’intento di tanti fu quello di trovare i colpevoli. Coloro i quali avevano sparso “un onto pestifero” su muri e banconi di chiesa per diffondere il morbo. E volendolo trovare, lo trovarono.

La storia fu una delle più atroci e fra le tante cose che accomunano la peste manzoniana del 1630 con l’attuale pandemia di Covid19: oltre al dibattere su chi o cosa ha scatenato la pandemia, le indecisioni “epidemia si, epidemia no”, i provvedimenti da prendere, le informazioni da dare, le strutture da implementare, senza contare il rimpallo sulle responsabilità. Oggi come allora, sembrerebbe che i secoli trascorsi non abbiano cambiato proprio nulla delle nostre ataviche paure e irrazionali smarrimenti. In tempi di Coronavirus ci scopriamo fragili, indifesi, piccoli. E inevitabilmente il distanziamento sociale al quale siamo costretti non fa che acuire la paura che nell’altro si possa nascondere l’untore o il portatore sano del virus.

C’è però da aggiungere, e ribadire, che nel 1630 le cose a Milano era senz’altro più drammatiche di oggi. La città entro la cerchia dei bastioni spagnoli contava sì poco più di 100mila abitanti, ma tutti concentrati dentro la cerchia dei Navigli: perché oltre, e fino alle mura, c’erano per lo più ortaglie, interpolate da qualche casa da nobile con parco, casupole modeste, chiese e monasteri. Come già ebbe a notare Leonardo da Vinci, in una superficie ristretta vivevano ammassate un sacco di persone, spesso pigiate in ambienti insalubri e angusti: “Trarrai di dieci città cinquemila case con trentamila abitazioni, e disgregherai tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno, empiendo ogni parte di fetore: si fanno semenza di pestilente morte”.

È facile immaginare come la peste ebbe la meglio, tanto da riuscire a falcidiare circa 1000 persone al giorno e registrare un numero di morti, al termine, forse mai eguagliato prima in termini percentuali: 60mila, più della metà degli abitanti. Per tornare al tema degli untori, ancor prima di prender risoluzioni per fronteggiare il dilagare della pestilenza, nacque “una non so quale curiosità di conoscere quei primi e pochi nomi”, ai quali assegnare la precedenza nello sterminio, una precedenza che pareva permettere di “trovare in essi e nelle particolarità per altro indifferenti, qualche cosa di fatale e memorabile”.

La peste a Milano

Il Manzoni racconta che a portare la peste in città fu un certo Pietro Antonio Lovato di Lecco, o Pier Paolo Locati di Chiavenna (i documenti non sono unanimi), un fante “sventurato e portator di sventura” entrato a Milano nell’autunno del 1629 carico di vesti rubate agli appestati soldati alemanni. Il fante, col suo fagotto d’indumenti, prese alloggio in casa di parenti nel Borgo Orientale, più o meno dalle parti dell’attuale Corso Venezia. Si ammalò e in quattro giorni morì. Subito vennero messi in quarantena tutti i parenti che risiedevano nell’alloggio. Ma ormai il danno era fatto. Il soldato non aveva avuto l’accortezza di stare a casa così, oltre a contagiare tutti quelli che vi abitavano, in un modo o nell’altro “covando e serpendo lentamente”, il morbo finì per dilagare in tutta la città, scoppiando in modo virulento nei primi mesi dell’anno successivo.

È a questo punto che alcuni membri del governo, quelli che più di tutti si erano impegnati a negarla “risolutamente”, non volendo accollarsi la colpa e riconoscere l’inganno nel quale avevano tenuto la popolazione, preferirono addurre il disastro a qualche altra causa. “Per disgrazia, ce n’era una pronta nelle idee e nelle tradizioni dell’epoca, in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a spargere la peste per mezzo di veleni contagiosi, di malie. Già cose simili o somiglianti erano state supposte e credute in molte altre pestilenze”, compresa quella di San Carlo.

La caccia

La caccia all’untore si scatenò in tutta la città, corroborata dalla falsa notizia che nel Duomo “fossero state unte tutte le panche, le pareti e fin le corde delle campane”. Fra i poveri primi malcapitati, stando alla cronaca di Manzoni, un povero vecchio, reo di aver cercato di strofinare col suo pastrano, solo per pulirla, la panca della chiesa dove stava pregando. Il giorno dopo fu la volta di tre giovani francesi, a spasso per l’Italia, impegnati in un viaggio che solo un secolo e mezzo dopo sarà battezzato Gran Tour, vero e proprio padre del turismo moderno. I tre erano intenti a studiare il Duomo quando, forse per verificare di quale materia fosse fatto, uno di loro ebbe la pessima idea di toccarlo. In men che non si dica furono “circondati, malmenati, e spinti a furia di percosse alle carceri”. Il loro arresto ebbe un esito più fausto: riconosciuti innocenti furono liberati.

Storia delle colonna infame

Ma il caso più celebre e certamente più drammatico fu quello che travolse i poveri Guglielmo Piazza, un ex cardatore a quel tempo nominato Commissario di Sanità del Ducato di Milano, e il barbiere Gian Giacomo Mora. La loro storia e quella del processo che culminò nella loro condanna a morte, in una versione attualizzata della damnatio memoriae romana, è raccontata in appendice ai Promessi Sposi: “Storia della Colonna Infame”. Il Manzoni ci invita così a proseguire la lettura, mettendoci in guardia da una frettolosa soddisfazione per l’esito felice della vicenda di Renzo e Lucia. Lo scrittore, dopo un attento studio delle carte custodite negli archivi e degli atti processuali che, per fortuna, non andarono perduti e che restano una testimonianza importantissima della follia collettiva, ricostruì la vicenda giudiziaria. Manzoni, come si evince anche dal romanzo, ha molto a cuore il problema della giustizia e, per questo, prende posizione in modo netto contro i magistrati, che, pur nel loro ruolo di rappresentanti terreni dell’equilibrio e della razionalità, dell’equità e della legge positiva, si macchiarono della colpa gravissima di farsi coinvolgere dal clima di irrazionalità dilagante e di terrore di cui era preda il popolo.

Guglielmo Piazza, in un malaugurato giorno piovoso di giugno, fu visto da certa Caterina Trocazzani Rosa “e altre donnicciuole abitanti presso la Vedra de’ cittadini di Porta Ticinese” mentre camminava vicino al muro di un edificio, appoggiandovisi con la mano. Tanto bastò alla Trocazzani e alle altri comari per denunciarlo, accusandolo di essere un untore, colpevole di diffondere il morbo mediante misteriosi e mefitici unguenti preparati per lui dal barbiere Gian Giacomo Mora. A nulla valse, nel corso dell’interrogatorio al quale fu sottoposto, la spiegazione che diede: nessuno credette che lui camminasse rasente il muro, fino ad appoggiarsi, solo per ripararsi dalla pioggia. All’unanimità si decise che con la mano stava in verità spargendo sull’edificio “un onto pestifero”. A peggiorar la sua situazione si aggiunse il fatto che proprio quel mattino molti muri, porte e chiavistelli delle case di Porta Ticinese, dove lui aveva per altro dimora, “erano stati trovati imbrattati con una sostanza di natura sconosciuta”.

Il processo che ne seguì fu una delle pagine più nere della giustizia durante la dominazione spagnola: condizionato fin dal principio da un uso disinvolto della tortura secondo gli usi dell’epoca, terminò con la condanna a morte dei due che confessarono la propria inesistente colpevolezza pur di porre fine alle atroci sofferenze a loro causate dalle torture, peraltro contraddicendo più volte le loro stesse dichiarazioni.

La condanna a morte

La condanna a morte fu eseguita non prima di aver esercitato sui due indescrivibili supplizi, perpetrati sotto gli occhi di tutti facendo sfilare per tutta la città i condannati moribondi “sovra alto carro, martoriati prima con rovente tanaglia e poi franti colla ruota e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati e poscia abbruciati”. La sentenza prevedeva anche la demolizione della casa-bottega di Gian Giacomo Mora. Come monito venne eretta, sulle macerie dell’edificio raso al suolo, la “Colonna infame” che, appunto, dà il titolo all’opera. Un triste cippo piantato nella terra per ricordare a tutti quale sorte sarebbe tocca a chi si fosse macchiato di colpe simili.

La colonna venne abbattuta nel 1778, quando, dopo la pubblicazione delle “Osservazioni sulla tortura” del Verri, il monumento era divenuto una testimonianza d’infamia non più a carico dei condannati, bensì dei magistrati che avevano commesso una palese ingiustizia. Nel Castello Sforzesco di Milano è conservata l’iscrizione in latino che descrive le terribili pene inflitte agli innocenti, lapide prima affissa proprio sulla colonna.

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