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Roberta villa

Lockdown: “Servono misure più forti, stiamo correndo verso il baratro”

È trascorso un anno dal primo lockdown ma la curva dei contagi e la pressione sul sistema sanitario tornano a raggiungere livelli di guardia

“La situazione è molto preoccupante, stiamo correndo verso il baratro”. Così la giornalista e divulgatrice scientifica Roberta Villa, laureata in medicina e chirurgia, lancia l’allarme per l’evoluzione della pandemia da Covid-19.

È trascorso un anno dal primo lockdown ma la curva dei contagi e la pressione sul sistema sanitario tornano a raggiungere livelli di guardia. Abbiamo intervistato Roberta Villa chiedendole di tracciare il punto della situazione e spiegarci meglio cosa sta accadendo.

Come sta andando la pandemia?

La situazione è molto preoccupante, stiamo rivivendo quello che è successo l’anno scorso con la differenza che non partiamo da zero ma da una circolazione sostenuta del virus. L’aggravante è che la gente è stanca, non ne può più, il contesto economico è pesantissimo, tantissime famiglie sono provate da un anno di restrizioni e chi deve prendere delle decisioni ha le mani ancor più legate. Se l’anno scorso disporre il lockdown nazionale pareva ed è stata una scelta molto azzardata e coraggiosa, quest’anno sembra improponibile ma tutte le misure palliative che si prendono alla fine non fanno che prolungare uno stillicidio che non ci porterà a nulla fino a quando non ci sarà un lockdown deciso. Ormai mi sono convinta di questo, anche guardando i provvedimenti presi dagli altri Paesi europei che si sono trovati in queste situazioni: hanno chiuso per mesi i negozi, i bar, i ristoranti, le scuole… e stanno cominciando a riaprire adesso da prima di Natale o da gennaio. In uno scenario così noi pensiamo di potercela cavare chiudendo nei week-end? Credo che stiamo correndo verso un baratro e sono molto preoccupata.

Potrebbe essere necessario o giusto, quindi, un lockdown totale?

Magari non riproporrei un lockdown come quello dell’anno scorso, nel senso che lascerei alcune libertà come la possibilità di uscire e poter prendere aria o portare a scuola i bambini. Non capisco più di tanto nemmeno la chiusura dei parchi, piuttosto manderei i vigili a sciogliere eventuali assembramenti, ma all’aria aperta non ci sono grossi problemi. Per il resto devono esserci misure più severe.

Da dove comincerebbe?

Non capisco perché non sia stato imposto di ricorrere allo smartworking a tutte le aziende che possono farlo. Non ha senso che la gente continui ad andare a lavorare quando potrebbe benissimo svolgere la propria attività da casa mentre i bambini e i ragazzi vengono tenuti a casa da scuola. Al di là dei singoli dettagli che il governo deve soppesare sulla base di costi e benefici di qualsiasi provvedimento, sicuramente in questo momento sono indispensabili delle misure forti e ogni giorno che passa dovranno essere più forti e prolungate. Bisogna stare molto attenti a tergiversare altrimenti si rischia di peggiorare la situazione e di arrivare a un lockdown come quello dell’anno scorso.

Quali misure ritiene fondamentali e prioritarie per scongiurarlo?

Ormai purtroppo non c’è alternativa, bisognava pensarci prima. Già a inizio gennaio, quando abbiamo visto quello che stava succedendo nel resto d’Europa, bisognava evitare di riaprire e far circolare il virus: era inevitabile che le varianti arrivassero anche qui. Abbiamo detto lo stesso a settembre, quando i contagi hanno cominciato a risalire e abbiamo gettato via tutti gli sforzi, i sacrifici e i risultati ottenuti con il lockdown di primavera 2020 proprio aspettando che il Coronavirus circolasse in maniera sostenuta prima di intervenire. Bisogna rendersi conto che se vogliamo avere misure sostenibili, non troppo forti e prolungate, è necessario agire prima che i servizi sanitari siano sovraccarichi e che le ambulanze non riescano ad arrivare ad assistere le persone come si sta già verificando in diverse zone d’Italia: quello che è accaduto l’anno scorso a Bergamo si sta vivendo in Molise o a Bari ed è gravissimo.

Nonostante sia trascorso un anno dall’inizio della pandemia siamo daccapo?

Siamo sempre punto e daccapo perché non riusciamo a uscire dall’illusione che il virus una volta che comincia a replicarsi e ad aumentare il contagio in qualche modo si possa fermare da solo. Da una parte ci hanno raccontato la storia che il Coronavirus si adatterebbe e diventerebbe più buono ma scientificamente questa ipotesi non ha alcun fondamento e dall’altra c’è l’ottimismo che ci fa pensare che la situazione non peggiori. Per rendere l’idea solitamente utilizzo l’esempio del fuoco, che mi sembra il più efficace per dimostrare che ci sono dei fenomeni naturali inevitabili in cui la previsione è automatica: se gettiamo un fiammifero acceso in una sterpaglia l’incendio che ne scaturirà inizialmente potrà essere piccolo ma inevitabilmente si diffonderà. Non occorrono grandi modelli matematici o una sfera di cristallo per immaginare che si estenderà in tutta la zona. È quello che avviene con i contagi da Coronavirus, per di più quando in una determinata area si sta diffondendo in maniera sostenuta una variante più contagiosa: non possiamo sperare che rimanga circoscritta, non potrà che propagarsi nel resto del Paese. Per evitarlo bisogna intervenire subito perché per spegnere un focherello all’inizio basta un estintore ma quando è tardi non è più così.

Questi interventi sarebbero i lockdown localizzati?

Si, però dovrebbero essere disposti in maniera tempestiva, non considerando l’Rt di due settimane prima come si sta facendo adesso. Bisognerebbe chiudere la singola area appena i casi cominciano ad aumentare con una certa rapidità: se si aspetta che la situazione diventi clamorosa nel frattempo il Coronavirus si è diffuso e gli interventi perdono efficacia. Sono sempre stata sostenitrice di misure calibrate alla circolazione locale del virus, ma devono essere tempestive e proporzionate. A fare la differenza è la capacità di tracciamento: se si riuscisse a riconoscere l’origine di ogni caso e a isolare più o meno tutte le persone che sono state in contatto con il soggetto infetto avremmo sotto controllo la pandemia. Nel momento in cui abbiamo migliaia di infezioni senza sapere dove sono state contratte e il virus sta circolando liberamente, però, non ci sono alternative alla chiusura, anche considerando la pressione sul sistema sanitario.

E come sta reggendo?

Abbiamo pochissimo personale per effettuare le vaccinazioni: se si riempissero gli ospedali ci sarebbe bisogno di loro anche là e diventerebbe tutto più difficile. In questo momento il sistema sanitario è già sovraccarico: in molte regioni le terapie intensive hanno superato il livello di guardia e sono giunte al 50% dei posti disponibili. Questo è un aspetto che va chiarito perché alcuni ritengono che averle occupate al 30% sia poco: è un problema perché questi numeri sono riferiti ai malati Covid ma ci sono tutti gli altri pazienti che hanno bisogno di queste cure come le persone che hanno un infarto o i ragazzi che hanno incidenti in motorino ecc.

Quali sono i rischi?

Se riempissimo le terapie intensive di pazienti Covid tutti gli altri non potrebbero essere assistiti o viceversa non potremmo rianimare pazienti Covid perché i letti sono occupati da altre persone. Inoltre non va dimenticato che anche se sono stati acquistati i ventilatori e abbiamo allestito gli ospedali da campo il numero degli anestesisti e dei rianimatori rimane limitato: è personale altamente specializzato e nell’arco di uno o due anni non si possono moltiplicare. Non solo: nel momento in cui si dedica un intero reparto di medicina, di cardiologia o di altre patologie a Covid si impedisce il ricovero di altre persone che avrebbero bisogno di essere assistite. Il danno, così, si allarga dal Coronavirus a tutte le altre condizioni che non riescono a ricevere le cure di cui avrebbero necessità.

Se la situazione proseguisse in questo modo c’è il rischio che quello che è successo a Bergamo si verifichi su scala nazionale o in molte altre realtà italiane?

Secondo me è inevitabile se non si interviene con forza per mettere un freno: non è uno scenario apocalittico, le cose stanno procedendo così. Il fatto è che a Bergamo più che in altre zone, purtroppo, si sa cosa significhi vivere la fase acuta della pandemia, mentre ho l’impressione che nel resto d’Italia in fondo non ci sia ancora la piena percezione di cosa voglia dire.

Per concludere, come stiamo affrontando la terza ondata di pandemia?

Mi sembra che non abbiamo imparato alcune lezioni fondamentali ed è molto deprimente alla terza ondata. La prima volta potevamo essere giustificati, la seconda vabbè, si diceva che forse non ce ne sarebbe stata un’altra ma la terza bisognava aver imparato. È inaccettabile, per esempio, che alla terza ondata a Milano non si trovino le bombole per fornire l’ossigeno ai pazienti a casa, che potrebbero benissimo evitare di andare in ospedale. E allo stesso modo non è accettabile che negli ospedali ancora ci siano percorsi non puliti, cioè che le persone che entrano per altre ragioni contraggano il virus e magari muoiano di Covid. Ma c’è un’altra importante lezione che non abbiamo appreso e credo che sia la più grave.

Quale?

Come dicevo prima, il tempismo delle misure anti-Covid. È istintivo e naturale far fatica a fare dei sacrifici in previsione di qualcosa che non è sicuro possa accadere, però ormai abbiamo visto che la diffusione del Coronavirus è simile alla propagazione di un incendio. E se a casa mi accorgessi che stesse bruciando la cucina mi attiverei subito per spegnere le fiamme senza tergiversare chiedendomi se possa essere intaccato anche il salotto.

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