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La decisione

Enrico Letta accetta: a lui il bisturi per far guarire il Pd malato

Enrico Letta ha sciolto la riserva e si candida a guidare il Partito Democratico, il partito a cui nonostante tutto non ha mai smesso di volere bene.

Enrico Letta ha sciolto la riserva e si candida a guidare il Partito Democratico. Il partito che ha contribuito a fondare, che l’ha tradito dimostrando di non credere nel suo governo, il primo targato PD, avallando la successione con Matteo Renzi nel 2014, il partito a cui nonostante tutto non ha mai smesso di volere bene.

Quella di Enrico Letta è autentica passione per la politica e profondo attaccamento ai valori democratici, lo ha dichiarato – più volte – lui stesso, da tempo fuori dalla politica attiva e dall’Italia, impegnato con la formazione universitaria a Parigi dove dirige la prestigiosa Scuola di politica internazionale Science Po.

Il PD è attraversato da una crisi drammatica. Una crisi d’identità che ne ha paralizzato la vitalità, la progettualità, le idee. Fatto il PD, bisognava fare i democratici. La comunità democratica ha provato a stringersi a coorte del segretario di turno, spesso investito, come lo è stato Nicola Zingaretti, da primarie con voto plebiscitario. Ma tant’è. La base è una cosa, la classe dirigente un’altra. Quest’ultima rimasta schiacciata da logiche di basso profilo e correnti (alternate).

Nicola Zingaretti, settimo segretario DEM in 14 anni, logorato delle schermaglie tra correnti diventate quasi una guerra civile per la composizione dell’ultimo governo, cerca Enrico Letta. Un appello che, con le debite proporzioni, assomiglia molto alla chiamata del Presidente Sergio Mattarella a Mario Draghi per assumere su di sé la guida del Paese, in stallo per manifesta incapacità della politica.

Già ribattezzato il “Draghi della politica italiana”, Enrico Letta, dopo due giorni di riflessioni ha accettato affidando a un breve video le sue intenzioni. Il suo è un appello all’ascolto: “Parlerò domenica all’assemblea. Io credo alla forza della parola, al valore della parola”. Quasi a dire: non pensate di sapere già tutto, ciò che sarò, cosa farò e come lo farò.

Enrico Letta, giovane democristiano e maturo democratico, è nato come uomo dell’equilibrio, della mitezza, della composizione dei conflitti. Certamente si è guardato a lui per queste attitudini, oltre che per l’alto profilo personale, culturale e internazionale. In passato ha pagato a caro prezzo la sua leadership misurata, diplomatica, per alcuni immobile, inadeguata. Oggi, le sue prime parole da segretario in pectore hanno la risolutezza di chi sa di dover affrontare un’operazione a cuore aperto.

Nelle sue parole, poche, dice che non cerca l’unanimità ma “la verità nei rapporti tra di noi per uscire da questa crisi e guardare lontano”.

Nel 2007, quando si candidò a segretario del PD in primaria con Walter Veltroni e Rosy Bindi, Letta disse che il nuovo partito doveva essere come un quadro di Van Gogh e avere tinte forti: “un giallo che sia giallo, un blu che sia blu”. Vincitore delle primarie fu Veltroni, a lui fu affidata la prima segreteria del PD. Veltroni, per continuare con la metafora lettiana, scelse però di dipingere quel quadro di blu “ma anche” giallo. Il resto è storia.

Enrico Letta avrà la determinazione e la forza per fare ciò che ha annunciato, e cioè non cercare quella unanimità che mai ha portato bene al Partito Democratico? Avrà il coraggio di dire a quanti l’hanno cercato per comporre, che forse questo è il momento per far venire a galla le questioni dirimenti e irrinunciabili che identificano un partito europeista, riformista e che si vuole collocarsi nello spazio politico del centrosinistra? Riuscirà ad attivare una riflessione profonda per chiarire a sé stesso e agli elettori che società vuole costruire a partire dal lavoro, dalla salute, dalla scuola, dalla cultura, e a quali valori ispirarsi?

“L’operazione è andata bene. Il paziente è morto”. Il rischio c’è. A Enrico Letta, ora, il bisturi.

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