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Storia delle epidemie - 14

La peste di San Carlo: come Milano la affrontò, tra autorità civili e religiose

Tutto il tempo dell’epidemia (dal 1575 e il 1577) fu percorso dalla conflittualità tra l’autorità civile e il cardinale Borromeo: due strategie diverse.

È difficile stabilire l’origine della pestilenza che infuriò nel territorio di Milano tra il 1575 e il 1577. La peste non cessava praticamente mai in Europa, ove serpeggiava con focolai endemici, manifestandosi di quando in quando in tutta la sua virulenza. Secondo alcune fonti, dal 1144 al 1630 Milano ne avrebbe subito gli effetti ben 18 volte. Riguardo a quest’ultima, per alcuni sarebbe entrata in Milano con merci provenienti da luoghi d’oltralpe infettati, per altri portata da pellegrini in transito per Roma, affluiti in gran numero in occasione del Giubileo.

Già nel 1574 erano stati segnalati focolai in Germania, in Svizzera e a Trento; da qui la peste era entrata in Verona e quindi si era propagata per tutta l’Italia settentrionale. Nel luglio 1575 fa la sua comparsa a Venezia, dove infurierà con particolare virulenza, e causando la morte di quasi 50.000 persone, circa il 27% dell’intera cittadinanza. Successivamente aggredisce Mantova, poi Padova, dove causerà 12.000 decessi e Brescia, che priverà di circa 20.000 abitanti. Contemporaneamente si verifica un focolaio anche in Sicilia.

Tra la fine del 1575 e i primi mesi del 1576 si moltiplicano le segnalazioni al milanese Magistrato di Sanità. Sono specialmente i deputati alla Sanità di Como e di Varese a fornire ragguagli circa la situazione della vicina Svizzera e a manifestare preoccupazione per l’incuria con la quale in molti casi vengono effettuati i controlli, difficili anche perché le località colpite cercavano spesso di minimizzare il pericolo, non denunciando i casi sospetti del loro territorio, tendendo costantemente a fornire un quadro ottimistico della situazione. Contemporaneamente raggiungeva i competenti magistrati milanesi tutta una serie di lamentele di comunità o di mercanti, che gli ostacoli frapposti al commercio e al libero transito delle persone privava dei consueti guadagni. Le analogie con l’attualità sono sorprendenti; forse, per certi aspetti, anche sinistre e inesplicabili.

Teoricamente le guardie preposte ai luoghi di transito chiave avrebbero dovuto controllare le bollette di sanità esibite dai viaggiatori, comprovanti il loro stato di buona salute, sulle quali dovevano figurare tutti gli elementi atti a ricostruire il percorso da essi seguito, oltre alla provenienza delle loro robe. Anche in questo caso sovviene il paragone con la pandemia da Coronavirus: la superficialità nel trattare una materia che comunemente s’ignora e la presunzione d’invulnerabilità molto probabilmente costituiscono un archetipo della coscienza collettiva, un’inclinazione atavica a disobbedire, a non rispettare le regole e a credere che vengano sempre imposte a discapito di qualcuno.

L’allarme cresce: già dal settembre 1574 erano state bandite Francoforte e Trento, nell’agosto 1575 viene bandito il territorio degli Svizzeri, analoga sorte tocca nell’aprile 1576 al Mantovano e il 22 giugno a Venezia, non potendosi più oltre nascondere la natura e l’entità del morbo che da tempo mieteva vittime nella città.

Vennero quindi presi severi provvedimenti atti, se non a eliminare, almeno a ridurre il flusso di pellegrini che, in occasione del Giubileo dell’Anno Santo, concesso dal Papa alla città di Milano, si recavano a visitare il Duomo e le chiese di San Lorenzo, San Simpliciano e Sant’Ambrogio, riempiendo le strade con frequenti processioni. La Sanità, allarmata da tale concorso di gente, temendo infiltrazioni da luoghi infettati, otteneva dal governatore, marchese d’Ayamonte, una grida con la quale si vietava nel modo più perentorio di recarsi a Milano a persone prive delle regolamentari bollette sanitarie; inoltre si stabiliva che coloro che venivano a prendere il giubileo non potessero affluire che in piccoli gruppi di 10 – 12 persone al massimo. Le suddette disposizioni non devono aver avuto grande successo se una nuova grida, datata 12 aprile 1576, lamenta che, nonostante tutti i divieti, si tratti con forestieri e vengano accettate bestie e merci, mentre non sono rari nemmeno gli episodi di violenza alle porte e le scalate alle mura per introdursi clandestinamente in città.

Nonostante tutte queste precauzioni, che trovano del resto un limite nella sorda resistenza di chi dovrebbe sottoporvisi e nell’inerzia e nel lassismo di molti incaricati di farle rispettare, alla fine di luglio si infetta Melegnano e di qui il morbo attacca il 3 agosto Cascina dei Comini, a poche miglia dalla città, il 4 agosto Monza, infine, l’11 agosto, durante i festeggiamenti in onore di don Giovanni d’Austria, di passaggio a Milano, si sparge la voce che il contagio abbia aggredito il Borgo degli Ortolani fuori Porta Comasca, ricco di circa 6000 anime. L’epidemia infetterà in seguito circa 120 località dello Stato di Milano, tra esse Seregno, Gorgonzola, Voghera, Gessate, Magenta, Rho, Meda.

La prima battaglia, quella intesa a preservare Milano dalla peste è ormai perduta. Da questo momento inizia, da parte dell’autorità civile, la lotta per circoscrivere il contagio. La responsabilità di far fronte ad un’impresa tanto difficile gravò in primo luogo sul Magistrato di Sanità, coadiuvato dal Vicario di Provvisione e dai 12 membri di Provvisione. Il Magistrato di Sanità, istituto di origine sforzesca mantenutosi anche sotto il dominio spagnolo, veniva eletto ogni anno dal Senato, era composto da un Presidente, nella persona di un senatore, un cancelliere, alcuni conservatori, e aveva alle sue dipendenze un certo numero di funzionari. In caso di epidemie si valeva anche di commissari foresi e degli anziani delle parrocchie.

Viene immediatamente riaperto il Lazzaretto, caduto in disuso dopo la peste del 1524, e qui vengono radunate le persone colpite dal contagio. Si moltiplicano gli ordini circa la notifica dei sospetti agli anziani delle parrocchie che dovevano informarne la Sanità. Le case infette furono serrate, gli abitanti posti in quarantena, le robe purgate ad opera dei monatti. Vengono fatte costruire 200 capanne per Porta, più altrettante nel Borgo degli Ortolani, dove trasferire malati, mentre vagabondi e mendicanti vengono raccolti per iniziativa del cardinale Carlo Borromeo nell’ospedale di Santa Maria della Vittoria, tra Milano e Melegnano.

Uno dei primi problemi ai quali si trova di fronte l’autorità competente è quello di reperire il personale idoneo all’assistenza. I monatti vengono per lo più reclutati tra montanari, spinti dall’avidità di guadagno a sottoporsi ai rischi di un simile mestiere. La cura dei malati all’interno del Lazzaretto viene affidata a barbieri, flebotomi, infermieri. Quanto ai medici, diedero prova di scarsa etica professionale, rifugiandosi in campagna o tentando di occultare la propria identità; ci vorrà l’intervento del Collegio dei Fisici per costringerli a prestare la loro opera. Visitavano comunque gli appestati senza toccarli o averne contatti ravvicinati, al Lazzaretto li controllavano dalle finestre che si aprivano in ciascuna stanza.

La poca onorevole condotta dei medici fu emulata dalla nobiltà cittadina che si affrettò a riparare “in villa”, restia a prestar orecchio ai reiterati appelli alla carità di patria e ai doveri dei gentiluomini delle gride. In breve il male fa progressi e la vita cittadina viene paralizzata. Il 12 settembre si procede a una prima sospensione delle cause civili, disposizione che verrà rinnovata più volte, protraendo l’interruzione dell’attività giudiziaria fino al settembre del 1577. Infine, il 29 ottobre, si pone Milano in una prima quarantena, puntualmente rinnovata (salvo una breve interruzione) fino alla fine del marzo 1577. Dopo questa data le disposizioni diventano meno rigide. Il morbo regredisce, ma non si spegne del tutto, all’inizio dell’autunno si assiste ad una sua recrudescenza.

La quarantena consegna in casa donne e bambini, un solo membro della famiglia è abilitato a uscire per procurare il cibo. Possono circolare addetti al vettovagliamento, incaricati della Sanità e religiosi che prestano assistenza spirituale. Rimangono aperte botteghe di generi di prima necessità. Sospesi i mercati, chiuse le osterie. Le case dovevano essere visitate regolarmente per individuare i sospetti, o erano i capi famiglia a denunciarli agli anziani delle parrocchie. Ne seguiva il trasferimento alle capanne o al Lazzaretto, diviso in tre settori: sospetti, infettati, guariti. Le abitazioni vuote venivano disinfettate e imbiancate.

La popolazione era chiamata alla preghiera sette volte al giorno al suono delle campane e assisteva dalle finestre alle messe celebrate nelle strade. Tutto il tempo dell’epidemia è percorso dalla conflittualità tra l’autorità civile e il cardinale Carlo Borromeo che esprimono due strategie diverse.

La Sanità cerca di costringere gli abitanti a rimanere in casa, adottando misure restrittive progressivamente più rigide, che il moltiplicarsi delle gride dimostra non sempre osservate. Non hanno certo giovato l’iniziale sottovalutazione e la confusione nell’applicazione delle norme a causa di una burocrazia spesso inefficiente, talvolta corrotta.

Il Cardinale, convinto che la peste sia un castigo divino, ritiene prioritarie le pratiche di devozione e una riforma dei costumi che combatta i comportamenti contrari alla morale. In una circolare mandata ai parroci della diocesi scrive: “È venuta la peste dalla vigilante giustizia di Dio per svegliarci dal sonno che dormivamo. E sì come non è dubbio alcuno che cagione di questa orrenda piaga è il peccato, e così il rimedio è una vera penitenza, et una piena emendazione di vita”. (….) “Altrimenti è da temere che la peste non si spanda, et dura longo tempo, come altre volte per severissimo castigo in qualche luogo è durata non solo i 15, ma fino a 52 anni”.

Borromeo vorrebbe preghiere pubbliche e processioni, per cui ottiene permessi in deroga: tre a ridosso dell’inizio della quarantena, di cui particolarmente solenne quella del Santo Chiodo, tenutasi il 6 ottobre 1576 con la partecipazione del Governatore. È anche vero, però, che il suo infaticabile zelo supplisce alle falle dell’autorità civile. Vuole il clero in prima linea e si rivolge anche a quello regolare (religiosi che seguono la regola dei loro fondatori, ad esempio i monaci), sul quale chiede piena giurisdizione, perché non manchi assistenza spirituale agli appestati.

Interverrà più volte presso i curati, alcuni dei quali tendevano a sottrarsi ai propri doveri per mettersi in salvo, imponendo loro, talvolta in tono minaccioso, l’obbligo di residenza, la visita ai fedeli per la somministrazione dei sacramenti e la cura dei funerali. Fieramente contrario alla chiusura del seminario di Brera, i cui allievi erano stati allontanati dalla città, sdegnato per il suo protrarsi oltre l’anno, quando i religiosi che vi si erano rinchiusi vengono infettati, il 4 settembre 1577 scrive: “È intrata finalmente (la peste) nel Collegio di Brera, et ne sono morti duoi Padri, né hanno bastato le diligentie straordinarie, che ha sempre fatto quello collegio per non incorrere in questi pericoli”. Data la sua convinzione della peste come espressione della collera divina e occasione di un profondo ripensamento dei costumi, ogni precauzione doveva sembrargli un segno di viltà e di renitenza al disegno di Dio. Personalmente non si risparmiò, visitando quotidianamente gli infetti, e attraversò miracolosamente indenne l’intera pestilenza. La liberazione di Milano viene solennemente proclamata, con processione di ringraziamento, il 20 gennaio 1578, per quella dello Stato di Milano bisognerà attendere il 7 marzo.

Per quanto riguarda le “cure”, si consigliava l’uso di erbe aromatiche, incensi e aceto; rimedi innocui al morbo ma di qualche utilità per l’igiene personale e per mitigare il puzzo. I documenti antichi conservano ricette di ogni tipo: si va da prescrizioni da fattucchiere, quali unzioni con olio nel quale erano stati bolliti scorpioni (50 per 8 once di liquido), mignatte, lumache o rospi vivi posizionati su bubboni aperti, assunzione mattutina di 5 once di orina, a rimedi veramente stravaganti: polvere di perle grattugiate su bolle o piaghe, rimedi a base di pietre preziose macinate.

Anche allora si pagò un alto prezzo in tema di crisi economica e aumento della povertà. Autorità civili e religiose si palleggiarono la responsabilità del mantenimento degli infettati e della popolazione in stato di indigenza. Bisognava assicurare il nutrimento a circa 50.000 persone. Vi si fece fronte con i proventi di elemosine, vendite civiche, erogazioni caritative, vendita di beni dei luoghi pii, vendita di dazi cittadini, in particolare quello del vino. Il Cardinale vi contribuì anche personalmente alienando tutti gli arredi del suo palazzo.

La fine dell’emergenza sanitaria lascerà pesanti problemi economici: le attività produttive e commerciali sono in stato di grave sofferenza. Tuttavia la città, che ebbe circa 18.000 morti, si riprese abbastanza in fretta, per presentarsi di nuovo impreparata al successivo appuntamento, cinquanta anni dopo, con una pestilenza ancora più terribile e funesta.

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