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Storia delle epidemie -13

La sifilide, malattia xenofoba per eccellenza

Per i francesi era il male italiano o napoletano o inglese. Per gli italiani era il mal francese. Per gli olandesi era spagnolo, per i russi polacco e per i turchi, genericamente cristiano.

La sifilide, conosciuta anche come lue, è una malattia infettiva che negli ultimi anni del secolo XV si diffuse con carattere epidemico e con eccezionale gravità in tutta l’Europa.

Intorno all’origine della sifilide, il cui batterio (Treponema pallidum) è stato identificato solo nel 1905, non vi sono dati sicuri. Alcuni propendono per la sua provenienza dal Nuovo Mondo: quindi l’Occidente avrebbe esportato il vaiolo ed importato la sifilide attraverso i marinai di Cristoforo  Colombo, reduci dal primo viaggio in America. La tesi sull’origine americana della malattia, che ebbe già allora grande popolarità, conteneva un ulteriore elemento etico-razziale: la sifilide, essendo legata alla trasmissione sessuale, era caratteristica di popoli dai costumi sfrenati. In primo luogo, dei nativi. Uno dei sostenitori più autorevoli di questa teoria è stato l’eroe eponimo del Nuovo Mondo, Amerigo Vespucci.

Il medico catalano Rodrigo Diaz de Isla definì la malattia “mal serpentino” riscontrando in parecchi marinai di Colombo, tra cui l’ammiraglio Pinzon de Palos, “una serpigine corrosiva con ingrossamento dei linfonodi inguinali”. I marinai chiamarono la malattia “mal de hispañiola” ritenendo di averla contratta nell’isola di Hispañiola con rapporti sessuali con le indigene dell’isola.

La malattia si diffuse negli anni e nei decenni successivi, attraverso la mobilità di marinai e soldati.

Gli oppositori della tesi americanista si aggrappavano a quanto si può leggere nei testi antichi, dove vengono descritti certi morbi che, per i loro sintomi, potrebbero richiamare l’infezione luetica. Infatti informazioni del genere compaiono nella Bibbia, dove si racconta che Giobbe fu colpito da una malattia i cui sintomi (ulcere accompagnate da dolori notturni alle ossa) sarebbero riconducibili a quelli della sifilide; nel poema babilonese “Gilgamesh” e nel papiro Ebers, il più antico scritto di argomento medico, compaiono notizie avvaloranti questa tesi.

Le ulcerazioni genitali descritte da Plinio il Giovane e da Paolo di Egina, il ”mal campano” descritto da Orazio, i papillomi descritti da Giovenale e ancora da Orazio, che trarrebbero la loro origine dal vizio e dalla pederastia e infine le lesioni genitali e anali (ulcere, piaghe, verruche, porri, ragadi) descritte dai medici arabi, vennero tutte portate come dimostrazioni della presenza della sifilide nel Vecchio Mondo fin dai tempi più antichi.

Anche gli scavi nel monastero agostiniano di Kingston-upon-Hull, nel nordest dell’Inghilterra, hanno messo in luce scheletri di persone decedute prima del viaggio di Colombo, con evidenti segni della malattia, ma la diatriba sulla vera origine geografica della sifilide, serrata fin dall’inizio e protrattasi per secoli, non è ancora sopita a tutt’oggi.

La prima epidemia di sifilide conosciuta e accertata è probabilmente quella del 1495, scoppiata fra le truppe di Carlo VIII di Francia, sceso in Italia l’anno prima per diventare re di Napoli. Il suo esercito composto per lo più da mercenari fiamminghi, guasconi, svizzeri, italiani e spagnoli, è ritenuto il diffusore della malattia in Italia e in genere in Europa. Il 22 febbraio 1495 i francesi entrano a Napoli. La sifilide si diffonde in città con velocità e violenza. I medici rimangono inorriditi di fronte alle devastazioni che il batterio, appartenente alla famiglia dei gram-negativi come quello della peste, procura alla cute, ai muscoli, alle cartilagini. La sifilide fa letteralmente a pezzi i corpi, fra dolori atroci.

Il 30 maggio del 1495, dopo appena tre mesi di occupazione, i francesi abbandonano Napoli per iniziare la loro spedizione verso le Alpi. Lasciano un presidio di alcune migliaia di uomini che fanno rotta verso Sud dove gli spagnoli si sono riorganizzati sotto la guida del “Gran Capitán” Gonzalo Fernández de Córdoba e che sconfiggeranno i francesi nella battaglia di Seminara del 28 giugno 1495. Otto giorni dopo, il 6 luglio 1495, la Lega italo-spagnola ferma i francesi a Nord sul fiume Taro: la battaglia di Fornovo è breve e cruentissima. In un’ora di scontri muoiono tremila soldati. Non è chiaro chi sia il vincitore ma, per il momento, i francesi se ne vanno dall’Italia.

La sifilide, invece, resta e prospera.

Il medico della Serenissima Marcello Cumano riesce a osservarla durante la guerra. “Diversi uomini d’arme e fantaccini avevano delle pustole su tutta la faccia e su tutto il corpo. Esse assomigliavano a dei grani di miglio, e di solito comparivano sotto il prepuzio, o sulla parte esterna o sopra il glande, accompagnate da leggero prurito. Dopo pochi giorni i malati erano ridotti allo stremo dai dolori che sentivano nelle braccia, nelle gambe e nei piedi e da un’eruzione di grandi pustole che duravano un anno o più se non venivano curate.” Per inciso, in quegli anni la Repubblica di Venezia contava oltre 11000 meretrici pubbliche, sparse nel territorio della Serenissima, e Roma sotto i tre grandi Papi Alessandro VI, Giulio II e Leone X ne contava quasi 7000.

La sifilide è la malattia xenofoba per eccellenza: per i francesi era il male italiano o napoletano o inglese. Per gli italiani era il mal francese. Per gli olandesi era spagnolo, per i russi polacco e per i turchi, genericamente cristiano. Era comunque opinione comune, allora, come ai tempi a noi vicini, che il contagio fosse causato da contatti sessuali illeciti con donne, in particolare con le prostitute. Fiorirono le altre teorie sulla genesi del male, alimentate dall’ignoranza, dalla superstizione: rapporto di un cavaliere lebbroso con una cortigiana; accoppiamento di uomini con scimmie; vendetta degli spagnoli che avrebbero mischiato sangue di lebbrosi con vino greco; avvelenamento dei pozzi operato dai napoletani; collera di Dio per punire la lascivia e la concupiscenza umane.

Di certo, si stava creando l’immaginario del “sifilitico”: miserevole, sporco, peccatore, libidinoso. Un immaginario che marchiava le persone aldilà del fatto che il morbo fosse stato contratto nel postribolo o nel letto coniugale, o che la persona appartenesse al popolo minuto o all’aristocrazia. Il male era il marchio della dea Venere visibile sul corpo, tanto bastava a giudicare.

Nel primi anni del Cinquecento l’epidemia ebbe un carattere così esplosivo, ed ebbe altresì un così alto tasso di letalità, in quanto trovava una popolazione vergine dal punto di vista immunitario. Nel primo terzo di secolo, la malattia si sparse così a macchia d’olio facendo strage in Europa colpendo almeno 20 milioni di individui. Nei secoli successivi la malattia si presentò con carattere diverso, avente sempre più un carattere cronico con un decorso clinico a tre stadi (incubazione, sintomi, manifestazioni cliniche).

Poiché l’infezione si presentava inizialmente negli organi genitali maschili e femminili essa non lasciava dubbi relativamente alla trasmissione per via sessuale. Sgomentava la constatazione che a portare ad ammalare e a morire fossero l’amore e il piacere. Per quattro secoli la malattia non ebbe cure adeguate.

I malati vennero raccolti in specifici ospedali chiamati “ospedali degli Incurabili”. In Italia tali ospedali furono creati a Genova nel 1499, a Savona e a Bologna nel 1513, a Roma nel 1515, a Napoli nel 1517, a Vicenza nel 1518, a Verona nel 1519, a Brescia nel 1520, a Firenze nel 1522 e a Padova nel 1526. Tra le cure adottate nel ’500 vi furono il mercurio ed il guaiaco. Il mercurio venne praticato per via esterna con il metallo incorporato nel grasso animale oppure mediante “fumi al cinabro” con i pazienti rinchiusi dentro botti da cui emergeva solo il capo.

L’eziologia del male venne vista subito come un veleno contenuto nelle mestruazioni causa di un’infezione totale della massa sanguigna (Cataneus, 1504) e l’infezione si sarebbe contratta attraverso il contatto sessuale; per questo motivo i bambini, i vecchi e le persone morigerate ne sarebbero state meno colpite (Von Hutten, coevo di Cataneus). Jacques Fernel nello stesso periodo riafferma la presenza di un veleno che andrebbe a contaminare il corpo attraverso la degenerazione degli umori in conseguenza di un atto sessuale. A complicare le cose intervenne la convinzione, che restò radicata per lungo tempo, che la blenorragia e le altre malattie a contagio sessuale fossero le diverse espressioni di un’unica malattia insieme alla sifilide (Thierrhy de Héry, 1552).

Fino alla prima metà del XVIII secolo riguardo l’eziologia della sifilide, chiamata in Francia grosse vérole, valse la teoria chimica, secondo la quale l’agente di contagio sarebbe stato: “un veleno attivo e penetrante che consiste in un fluido solforoso ed estremamente sottile o nel principio flogistico etereo e fermentativo che per trasmissione infetta gli altri liquidi del corpo umano.” (Dal Dizionario universale di medicina di Robert James).

In seguito, però, la teoria chimica si vede contrapporre la teoria parassitaria sostenuta principalmente da Deidier, professore di chimica nell’Università di Montpellier e medico delle galere di Marsiglia, il quale come agenti causali della sifilide vede: “(…) piccoli germi vivi che, accoppiandosi, producono uova e che possono rapidamente moltiplicarsi come tutti gli insetti”. Egli insiste anche sulla depravazione morale come causa del diffondersi della malattia.

A far chiarezza sui rapporti tra sifilide e blenorragia, attaccando la teoria unicista, interviene nel 1767 il medico scozzese Balfour che distingue la blenorragia dalla sifilide. Nel 1812 Hernandez fa il punto su questo problema pubblicando “Saggio analitico sulla non identità del virus gonorroico e sifilitico”. Nel 1876 Alfred Fournier afferma l’eziologia sifilitica della tabe e nel 1879 quella della paralisi generale. Nel 1879 Neisser scopre il gonococco (Neisseria gonorreae).

L’identificazione dell’agente patogeno avvenne nei primi anni del Novecento: nel 1905 Schaudinn e Hoffmann scoprono la “spirocheta” nei gangli , nelle ulcere, nelle papule, nel sangue della milza esaminati alcuni giorni prima della comparsa delle roseole. Nel 1906 Wassermann, Neisser e Bruck applicano una reazione di deviazione del complemento alla diagnosi di sifilide (reazione di Wassermann o di emolisi). Nel 1913 Noguchi e Moore scoprono il treponema, il batterio che provoca l’infezione, nella corteccia cerebrale dei pazienti affetti da paralisi generale, confermando le affermazioni di Fournier.

Attualmente la sifilide è ancora largamente diffusa nel mondo, specie in Africa. Epidemie di sifilide si verificarono nei paesi dell’ex Unione Sovietica negli anni successivi al dissolvimento dell’impero sovietico.

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