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Un anno dopo

Prima l’emergenza, poi tessuti e macchinari: ora Bergamo vende mascherine al mondo

Il nuovo impianto di Radici Group, in funzione 7 giorni su 7, è in grado di produrre 120 tonnellate al mese di meltblown, pari a 170 milioni di mascherine. Quello di Somain Italia è in grado di produrre 130 semimaschere Genesi Aere Covid-19 al minuto, circa 2,5 milioni di pezzi al mese.

Scoppiata la pandemia, c’era un disperato bisogno di dispositivi di protezione, a partire dalle mascherine chirurgiche. Impossibile importarle – prevalentemente dalla Cina che, colpita per prima dal Covid-19 ha bloccato le esportazioni a vantaggio del mercato domestico –, difficilissimo produrle.

Era il 19 marzo 2020 e Confindustria Bergamo lancia un appello alle aziende bergamasche, e non solo, per capire quante fossero in grado di riconvertire velocemente la loro produzione per far fronte alla crescente richiesta di mascherine chirurgiche. Tutto ciò sulla base del decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 che ha previsto la possibilità di produrre, importare e immettere in commercio mascherine chirurgiche in deroga alle disposizioni vigenti in materia.

La task force di Confindustria
per far fronte all’emergenza

“Nel marzo del 2020 – spiega Paolo Piantoni, direttore generale Confindustria Bergamo – abbiamo istituto una task force per coordinare le nostre azioni in risposta all’emergenza Covid-19. Per far fronte all’emergenza abbiamo puntato a realizzare una filiera bergamasca a kilometro zero, affiancati dalle aziende che hanno da subito creduto nel progetto. Grazie alla riconversione degli impianti e dei processi e alla sinergia tra chi produceva il tessuto, chi si occupava del taglio e chi del confezionamento e della sanificazione, è stata messa a punto una mascherina sicura e di qualità ed è stata presentata la relativa richiesta di autorizzazione. In quelle difficili settimane, Confindustria Bergamo è diventata anche un punto di riferimento a livello nazionale per chi voleva orientarsi nel complesso meccanismo delle procedure di certificazione presso gli organismi accreditati e si è attivata per la ricerca di produttori di meltblown, il tessuto non tessuto costituente fondamentale delle mascherine, non reperibile in Italia”.

Le imprese hanno risposto e in diverse si sono rese disponibili. Confindustria Bergamo ha supportato oltre 40 aziende del territorio – e oltre 140 aziende extra provincia –, 13 delle quali hanno ottenuto l’autorizzazione dell’Istituto superiore di sanità (ISS), 6 seguite direttamente nell’iter: Boost (San Paolo d’Argon), Santini Maglificio Sportivo (Lallio), Maglificio Ghidotti (Cologno al Serio), Uni Gasket (Villongo), Konnet (Brignano Gera d’Adda), Bel Garden (della provincia di Lecco, Costa Masnaga, ma accompagnata da Confindustria Bergamo).

“A fine aprile – continua Piantoni – la mascherina a kilometro zero ha ottenuto l’approvazione dell’Istituto Superiore di Sanità, avendo superato tutte le analisi del Politecnico di Milano e degli altri laboratori autorizzati. La creazione della filiera bergamasca è diventata così il simbolo della capacità dell’Associazione e delle imprese di agire per la comunità in modo solidale e coeso. Oggi questa emergenza è superata, viste le ingenti quantità di mascherine presenti sul mercato. Lo sforzo compiuto sui moltissimi fronti aperti per l’emergenza Covid ha però rafforzato la consapevolezza che è possibile lavorare insieme, velocemente, per dare risposte alle esigenze del territorio. Inoltre, grazie anche all’impegno di quei mesi, alcune aziende hanno deciso importanti investimenti, diventando un presidio permanente nell’ambito delle protezioni sanitarie”.

La mascherina Mola Mia

A capo della filiera bergamasca per la produzione di mascherine chirurgiche c’era il Maglificio Santini di Lallio, azienda specializzata in abbigliamento per il ciclismo: “Abbiamo risposto all’emergenza, ci siamo messi a disposizione, abbiamo fatto squadra – ci dice l’imprenditrice Monica Santini. Il nostro obiettivo era rispondere ad un bisogno del territorio, epicentro della pandemia di Covid-19, che diventava sempre più urgente. Tra test, prototipo e certificazione alla produzione da parte di ISS, in 45 giorni siamo riusciti a realizzare il prodotto. Poi, ci sono voluti altri 10 giorni prima di essere autorizzati a venderlo. Ma ce l’abbiamo fatta”.

monica santini mascherine

La mascherina chirurgica prodotta per l’emergenza – allora battezzata come “Mola mia”, in dialetto bergamasco “Non molliamo” – era frutto di una filiera tutta made in Bergamo: RadiciGroup ha fornito il tessuto non tessuto (spunbond), accoppiato ad un altro non tessuto, il meltblown, da Plastik Textile, mentre MiniPack Torre provvedeva all’imbustamento e Steris alla sanificazione. Santini, infine, tagliava, confezionava con cucitura a mano e commercializzava.

Da fine aprile ad oggi, Santini ha prodotto circa 250 mila mascherine chirurgiche, di cui circa la metà sono ferme in magazzino. Poche settimane dall’avvio della produzione, infatti, il commissario all’emergenza Domenico Arcui ha imposto il prezzo di vendita di 0,50 euro al pezzo ai consumatori e la mascherina made in Bergamo ha subito una battuta d’arresto.

“Il prezzo di vendita delle nostre chirurgiche – continua Santini – era, al pezzo, di 1,30 euro a fronte di costi di produzione pari a 1,10 euro. Contando sulla nostra capacità produttiva non potevamo fare diversamente: per arrivare a 0,50 euro avremmo dovuto disporre di grandi impianti dedicati, interamente automatizzati, che non c’erano. Il prodotto era confezionato e cucito a mano dal nostro personale, fermo su altre linee e a disposizione con un encomiabile impegno. Impossibile quindi, per noi, ridurre ulteriormente i costi. Noi abbiamo mai pensato di produrre mascherine per fare affari né di integrare il nostro core business, che speravamo solo di poter riprendere a pieno regime il prima possibile. Ci siamo messi a disposizione con tutto ciò che potevamo per rispondere ad una vera emergenza, e così è stato”.

La chirurgica della filiera made in Bergamo non era dunque un prodotto economicamente sostenibile e destinato a conquistare il mercato, ma il segno tangibile della creatività e della capacità di fare squadra delle aziende del nostro territorio.

Essere competitivi

Per essere competitivi sul mercato di questi dispositivi le questioni aperte erano due. La prima, legata all’indisponibilità del materiale essenziale per realizzare mascherine tecnicamente conformi alla normativa vigente e cioè il meltblown, un particolare tipo di tessuto non tessuto costituito da fibre sottilissime, da 1 a 5 micron, l’unico che consente il corretto mix tra traspirabilità e filtrazione anche di micro particelle, tra cui i virus. Necessario sia per la produzione di mascherine chirurgiche – composte da tre strati: lato mondo e viso di spunbond e strato interno filtrante di meltblown – che di Ffp2 e Ffp3 (dpi di terza categoria), il meltlown è importato quasi interamente dall’Asia, Corea e Cina in particolare, e prodotto in minime quantità in Europa, per nulla in Italia.

La seconda questione era legata al processo di produzione dei dispositivi che per avere sostenibilità economica doveva essere interamente automatizzato, riducendo al minimo i costi del lavoro. Dunque, c’era la necessità di nuovi impianti.

Due sfide aperte a cui non si sono sottratte le aziende bergamasche. Tra queste, RadiciGroup e Somain Italia.

Pensando oltre l’emergenza e con una buona dose di coraggio imprenditoriale, RadiciGroup alla fine dell’annus horribilis ha investito 15 milioni di euro per avviare la produzione di meltblown.
Già produttore di spunbond, il gruppo di Gandino, cuore della val Seriana tra le zone più colpite dalla pandemia, ora è in grado di offrire al mercato il 90% dei materiali necessari per realizzare dispositivi di protezione individuali rafforzando così la filiera italiana.

Radici Group e il meltblown

Enrico Buriani, ceo di Tessiture Pietro Radici, azienda di RadiciGroup dedicata alla produzione dei tessuti non tessuti: “In estate ci si è presentata un’occasione irrinunciabile. Un costruttore tedesco stava ultimando un importante macchinario per un ordine che all’ultimo è saltato. Non ci abbiamo pensato due volte e abbiamo ritirato l’impianto. A gennaio 2021 abbiamo inaugurato una linea tecnologicamente avanzata che può produrre meltblown oltre che per dispositivi di protezione individuale anche per diverse applicazioni tecniche nel settore della filtrazione: filtri industriali, per il condizionamento, per il settore automotive finanche quello del sangue.

Il nuovo impianto, in funzione 7 giorni su 7, è in grado di produrre 120 tonnellate al mese di meltblown, pari a 170 milioni di mascherine. Dieci i nuovi posti di lavoro generati dalla linea di produzione.

“La pandemia – continua Buriani –, che ha trovato il nostro paese impreparato a reagire sul terreno di questa produzione, ci ha insegnato molto. Ora la filiera italiana può essere competitiva, anche nel prezzo e con tutte le garanzie di qualità e sicurezza necessarie”.

L’impianto automatizzato di Somain Italia

Filiera italiana anche per Somain Italia leader nelle soluzioni per la sicurezza sul lavoro, che lo scorso dicembre ha inaugurato un nuovo impianto automatizzato, interamente costruito in Lombardia, per la produzione di semimaschere filtranti Genesi Aere Covid-19. Un investimento da 1 milione di euro che ha portato l’azienda di Brembate di Sopra ad ampliare la sua gamma di dispositivi di protezione individuale con uno dedicato alla protezione delle vie respiratorie. Sei nuovi posti di lavoro, 62 dipendenti in totale.

somain italia

“Abbiamo ampliato la nostra gamma di prodotti forti della nostra esperienza nella produzione di dpi di terza categoria” ci dice Simone Cornali presidente Somain Italia.

“Abbiamo deciso di investire in un mercato che ben conosciamo, al di là dell’emergenza Covid-19, per poter produrre anche mascherine Ffp2 e Ffp3 per il mercato europeo. Ci siamo resi conto da subito che la concorrenza cinese anche su questi dpi, oltre che sulle mascherine chirurgiche che noi non trattiamo, era spietata ma non senza dubbi in fatto di sicurezza e certificazione. Insieme ad altri imprenditori italiani abbiamo deciso di investire nella produzione di dpi 100% made in Italy, dal materiale che li compone fino alla nostra nuova macchina che le produce, nasello ed elastico compresi”.

Concorrenza spietata confermata dai dati Istat elaborati da Assosistema-Confindustria. Da febbraio ad agosto 2020 l’Italia ha importato 2,7 miliardi di euro di dpi per le vie respiratorie (chirurgiche, Ffp2 e Ffp3), il 92% delle quali dalla Cina (+2094% rispetto allo stesso periodo del 2019).

“Se si pensa che circa l’80% del mercato lo fanno le mascherine chirurgiche e di comunità (di stoffa ndr), il resto è per noi da presidiare con grande attenzione”, continua Cornali. “Ci siamo mossi con tempestività per rimanere saldi sul nostro mercato, quello dei dpi di terza categoria per le aziende. Con gli imprenditori è ancora possibile far apprezzare il valore aggiunto di un prodotto made in Italy. I nostri clienti operano nel settore alimentare (Amadori), automotive (Brembo), chimico, combustibile, etc. e sono molto attenti ed esigenti in tema di sicurezza sul lavoro. Molto diverso sarebbe rivolgersi direttamente al consumatore”.

Il nuovo impianto di Somain Italia, collocato nell’ex capannone della Cooperativa Legler di via Donizetti, è in grado di produrre 130 semimaschere Genesi Aere Covid-19 al minuto, circa 2,5 milioni di pezzi al mese. “Da settembre ad oggi – ci dice Cornali – abbiamo prodotto circa 3 milioni di pezzi e ne abbiamo venduti 1,3 milioni; in pronta consegna ne abbiamo circa 1,7 milioni e stiamo partecipando a gare importanti”.

Le gare pubbliche, nota dolente

Parlando con l’imprenditore, il capitolo gare pubbliche è dolente. Somain Italia ad oggi ha partecipato a 34 gare pubbliche per la fornitura di dpi vincendone 2, al comune di Bari (100 mila pezzi) e di Cefalù (18 mila pezzi). “Il Governo – precisa Cornali – ha sostenuto e incoraggiato, anche con contributi economici la produzione di meltblow, e le aziende hanno risposto investendo in questa direzione. Ora ci aspettiamo che anche l’Italia, come la Francia, sostenga le imprese che hanno scelto di puntare sulla filiera locale e nelle gare attribuisca valore al prodotto italiano. Quello che chiediamo è di avere condizioni eque per poter giocare la nostra partita. Se il prezzo resta l’unico elemento competitivo non ci siamo. Dagli importatori molto spesso arriva un prodotto asiatico pur con marchio CE che è tecnicamente lontano dai nostri standard ad un prezzo molto aggressivo anche di 0,21 euro al pezzo. Per un europeo e un italiano scendere sotto i 0,35 euro è molto difficile.

“A produrre Ffp2 e Ffp3 non ci si improvvisa. L’iter che porta alla certificazione è estremamente complesso. Non c’è stata alcuna deroga, nemmeno amministrativa, alla produzione e vendita di dpi di terza categoria. Quando vediamo in commercio mascherine Ffp2 con gli elastici dietro le orecchie oppure stampate con variopinte immagini resto molto perplesso. L’unico elastico che permette la certificazione dpi di terza categoria, tra cui le mascherine Ffp2, quelle a becco per intenderci, è quello nucale, il solo che assicura la tenuta e la sicurezza del prodotto. Loghi o immagini stampati non sono compatibili con un dispositivo di questa fascia per cui l’estetica è l’ultimo degli aspetti: tutto ciò che interviene sulla traspirabilità, come l’inchiostri, comporta l’esigenza di nuovi test e relative autorizzazioni”.

La chiosa è sulle mascherine chirurgiche prodotte in deroga: “Dopo un anno dall’emergenza Covid-19 tenere aperta la deroga per produrre e commercializzare mascherine chirurgiche lo trovo sbagliato. Necessario in emergenza quando il prodotto era introvabile e tutto andava bene, compresi i fazzoletti di stoffa. A tal proposito, Germania e Austria, da gennaio, hanno messo al bando le mascherine di comunità nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto rendendo obbligatorie le Ffp2 o le chirurgiche. Aspettiamo che l’Italia faccio lo stesso. Per ridurre il contagio da Covid-19 utilizzeremo le mascherine ancora per molto tempo; la situazione però non è più quella di marzo 2020 così come è ora adeguata la capacità produttiva, anche della filiera italiana. Chiudere la deroga e promuovere prodotti sicuri e competitivi”.

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