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Nostalgica tv - 35

Fine anni Settanta: gli sceneggiati si smorzano, esplodono le serie tv

Dagli Ottanta, gli anni della Milano da bere, degli yuppies e dei paninari la televisione passa al disimpegno e alla perdita di valori che l’avevano accompagnata per decenni.

Alla fine degli anni Settanta le televisioni ampliano il loro palinsesto e le televisioni private cominciano a far concorrenza alla Rai. Il loro metodo è semplice: non produrre in proprio, ma importare massicciamente dagli Usa, che hanno tutto l’interesse a vendere a costi bassi per invadere il mercato e stroncare le produzioni autoctone. La Rai si adatta, riducendo progressivamente la produzione e importando dall’estero, diventando il primo importatore di fiction in Europa.

Nel dicembre 1977 era arrivata sugli schermi italiani la serie televisiva “Happy days”, una situation comedy che ricostruiva il “Sogno Americano” così come era stato vissuto da quella generazione di adolescenti che crebbe nella luminosa e prospera epoca degli anni Cinquanta e aprendo, di fatto, una sudditanza ai modelli americani che proseguirà nei successivi decenni.

Il sipario sugli sceneggiati, che hanno fatto la storia della televisione italiana e creato una memoria collettiva, nonché una coscienza storica critica e civile, scandendo almeno tre decenni dell’immaginario collettivo, calava ormai in modo definitivo. Era terminato lo scopo di una televisione attraverso la quale stimolare una coscienza, il mezzo per allargare l’orizzonte di un pubblico generalista. Le fiction che seguiranno saranno più didascaliche che emotive, più descrittive che romanzesche. Esse non saranno più in grado di far crescere lo spettatore, di rovesciare il suo giudizio naturale sulle cose e di aprirlo a nuovi modi di vederle, al contrario dei “vecchi” sceneggiati in grado di colmare lacune considerevoli ed aiutarlo a interpretare e mettere in relazione diversi eventi storici o di importanza sociale.

Con alcuni esempi relativi al 1979 e al 1980, si chiude quindi la nostra “nostalgica storia”: l’ ccellenza svaniva portandoci negli anni Ottanta, che segneranno l’inesorabile declino del genere. Poi, non solo alla televisione di Stato, lo sceneggiato sarà rappresentato esclusivamente da serie di episodi autonomi diretti perlopiù da registi esordienti, e caratterizzati da budget limitato, taglio sperimentale e qualità altalenante. Salvo rare eccezioni che vedremo.

Dal 25 febbraio, la Rai porta per la prima volta sul piccolo schermo un’opera di Johann Wolfgang von Goethe: “Le affinità elettive”, romanzo pubblicato nel 1809 che suscitò molte discussioni per il contrasto evidente tra legge umana e passione. Le tre puntate hanno messo in luce il grande impegno del regista, Gianni Amico, nel trasporre in immagini un dramma umano, esempio illustre della forza del sentimento e, allo stesso tempo, dell’ineluttabilità delle leggi di natura. Nel cast ricordiamo una giovane Francesca Archibugi, nel ruolo di Ottilia, e Nino Castelnuovo, il fascinoso capitano. Notevole anche la sceneggiatura ad opera di Gianni Amico, Italo Alighiero Chiusano e Marco Melani, che riescono a tradurre la prosa chiara e cristallina, dal ritmo alto e solenne, del poeta tedesco in immagini altrettanto eloquenti e affascinanti.

affinità elettive archibugi

La dama dei veleni”. La storia escogitata da Dickson Carr in “The Burning Court” (1937) sembra fatta apposta per essere trasformata in uno sceneggiato fantastico; gli ingredienti canonici sembrano infatti esserci tutti: un presunto caso di reincarnazione, un’atmosfera sospesa tra quotidiano e soprannaturale, una donna misteriosa, un eroe tormentato che calza a pennello al tipo e alle doti interpretative di Ugo Pagliai. Mentre la vicenda originale era ambientata negli Stati Uniti, precisamente tra New York e la cittadina di Crispen del 1929, la sceneggiatura elaborata da Giovannella Gaipa trasporta la vicenda nell’Italia di cinquant’anni dopo. Fu anche girato a Roma e in alcune località del Lazio, tra cui Frascati e il suggestivo ‘Parco dei mostri’ di Bomarzo. Ovviamente anche i nomi dei personaggi furono cambiati, tranne quello della protagonista Marie D’Aubray, interpretata da Susanna Markintova. Nel cast anche Warner Bentivegna, Corrado Gaipa, Giorgio Bonora, Alessandro Sperlì, Annamaria Gherardi, Paola Bacci, Manlio Guardabassi. La regia è di Silverio Blasi.

La scelta del bianco e nero, in un momento in cui la tv a colori stava vivendo in Italia un vero e proprio boom, sembra dettata, oltre che da ragioni di budget, anche da precise motivazioni stilistiche, dalla volontà cioè di inserirsi nel filone dei classici sceneggiati gotico-parapsicologici (“Il segno del comando”, “ESP”, “Malombra”, “Ritratto di donna velata”) che tanto successo avevano riscosso negli anni precedenti. “La dama dei veleni” rappresenta quindi il canto del cigno di un genere, uno degli ultimi esempi di bianco e nero e di sceneggiato d’impianto classico.

Un altro sceneggiato ancora in bianco e nero, stavolta un poliziesco, lo riscontriamo con “Luigi Ganna detective” trasmesso in quattro puntate dal 22 giugno. Scritto da Luigi Roda, con la regia di Maurizio Ponzi. L’investigatore Ganna (Luigi Pistilli) indaga sui vari casi coadiuvato dal giovane aiutante Ermanno (Franco Bianchi) e dal Commissario Bastogi (Renato Scarpa). È un investigatore vecchia maniera, un po’ingenuo e insicuro, che arriva alla soluzione delle inchieste, quando ci riesce, con fatica, rimanendo a mani vuote in più di una occasione.

Lo sceneggiato “Accadde ad Ankara” narra la vera storia del turco Elias Bazna (nome in codice Cicero), che nel 1943 cominciò a vendere ai tedeschi importanti informazioni riservate sui piani angloamericani ottenute grazie al suo lavoro di cameriere presso l’ambasciata inglese ad Ankara. Essi, tuttavia, non credettero a quanto era contenuto nei documenti entrati in loro possesso e lo pagarono con sterline false. Con la regia di Mario Landi. Personaggi e interpreti Sir Hugh – Walter Maestosi; Mister Bask – Ruggero De Daninos; Esra – Antonella Munari; Elias Bozna – Stefano Satta Flores; Franz Von Papen – Marco Guglielmi; Rose – Linda Sini; Voce narrante – Mario Brusa.

La Rai produsse e mandò in onda dal 20 settembre, in quattro puntate, alcune riduzioni televisive di alcuni romanzi di Simenon sotto il titolo “L’altro Simenon”. Niente Maigret, quindi, poiché la produzione puntò sui cosiddetti romans-durs, ossia la produzione noir di Simenon, che rappresenta la prova più alta delle sue eccezionali abilità di scrittore ed è ancora oggi per il lettore un’autentica rivelazione. Senza voler togliere alcun valore alla splendida serie dedicata al commissario Maigret, questi “gialli” hanno il merito di riuscire a mettere a nudo senza riserve l’animo umano, lo vivisezionano, penetrano in ciascuno dei suoi meandri più oscuri e fanno scaturire in tutte le sue sfaccettature il personaggio che diventa un protagonista assoluto.

Il primo è “Antoine e Julie”, un romanzo scritto alla fine del 1952 a Shadow Rock Farm, l’abitazione di Simenon nel Connecticut (Usa). La riduzione televisiva fu diretta da Mario Landi (lo stesso regista di tutti i Maigret di Cervi) ed ebbe come interpreti Renato De Carmine, Piera Degli Esposti e Ida di Benedetto. Il secondo fu “Il grande Bob” (Le grand Bob – 1954) sempre da un romanzo del periodo americano che vedeva tra i protagonisti una giovane Marisa Laurito, Virginio Gazzolo e Renzo Rossi. La regia fu affidata a Nanni Fabbri. Ai primi di ottobre andò in onda. “Il signor Cardineau” (Le fils Cardineau, scritto nel 1941 ma pubblicato da Gallimard nel 1944) interpretato da Teresa Ricci, Gianfranco Barra e Winnie Riva. Regia di Enzo Tarquini. Nell’ultimo episodio ritroviamo qualche nome più conosciuto. Il romanzo da cui è tratto s’intitola “Il borgomastro di Furnes”, scritto da Simenon nel 1938 e venne portato sul piccolo schermo da José Quaglio, interpretato da Adolfo Celi, Alida Valli e dallo stesso Josè Quaglio. L’altro Simenon non ebbe la fortuna dei Maigret, ma nemmeno fu un insuccesso.

Probabilmente il poco impegno produttivo da parte della Rai (una produzione low-budget come si direbbe oggi) e la difficoltà, anche per un regista attento come Landi, di rendere in una riduzione televisiva dei romanzi soprattutto psicologici e d’ambientazione nel poco tempo a disposizione, ne ha limitato una più benevola accoglienza.

Non fu agevole la trasmissione in Rai dello sceneggiato “L’eredità della priora”, in sette puntate dal 2 marzo 1980. Un lavoro con la regia del noto Anton Giulio Majano. Il tema, certo, non era di facile digestione nell’Italia di allora: il brigantaggio, una vicenda familiare inserita nei giorni della marcia di Carmine Crocco verso Potenza. Basato sull’omonimo romanzo di Carlo Alianello, padre militare italiano e nonno militare borbonico, che aveva iniziato 40 anni prima una rilettura senza pregiudizi sulla caduta del regno delle Due Sicilie. Lo avevano ispirato i racconti di famiglia ed era poi andato avanti con ricerche e documenti. Lo scrittore, lucano di Tito, cattolico, fu autore di decine di libri e consulente storico persino di Luchino Visconti, fu però emarginato dal mondo letterario per le sue idee. Il suo romanzo “L’Alfiere”, pubblicato nel 1942, fu messo al bando dal fascismo, che lo ritenne troppo disfattista in mesi di guerra: raccontava le vicende di vinti, i militari borbonici che non avevano voluto arrendersi o passare con Garibaldi. Discorsi non facili da far passare, anche allora.

Gli esterni sono stati girati tra Melfi, il territorio del Vulture e Tito, aree in cui si sviluppò maggiormente il fenomeno del brigantaggio postunitario. Le riprese degli interni si sono svolte nel Centro di produzione Rai di Napoli. Sceneggiatura: Anton Giulio Majano, Ferruccio Castronuovo, Vincenzo Di Mattia. Cast: Anita Strindberg, Alida Valli, Luigi La Monica, Edda Soligo, Carlo Giuffrè, Evelina Nazzari, Corrado Gaipa, Giancarlo Prete, Ida Di Benedetto, Paolo Bonetti, Antonella Munari.

Le musiche sono state scritte dal gruppo Musicanova, di cui facevano parte Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò, e pubblicate nell’LP “Brigante se more”. Tra le canzoni più celebri, le sigle di testa e di coda, rispettivamente “Brigante se more” e “Vulesse addeventare“, ma anche i temi “Canzone per Iuzzella” ed il “Tema di Isabellina“, associati alle due protagoniste femminili. Lo stesso Eugenio Bennato appare nello sceneggiato in veste di comparsa, suonando la tammorra durante una festa per la conquista di Melfi da parte dei briganti.

Arabella” è la trasposizione televisiva dell’opera di Emilio De Marchi (1892), firmata dal regista Salvatore Nocita e dagli sceneggiatori Fabio Pittorru ed Emilio Vacchetto. È il classico romanzo popolare, con matrimoni infelici, testamenti spariti, eredità contestate, portinai intriganti. Arabella è la nipote di Demetrio Pianelli, e come suo zio tutto sacrifica al senso del dovere. Ella accetta di sposare il giovane e scioperato Lorenzo Maccagno per salvare dalla rovina la famiglia del suo patrigno e si trova implicata senza colpa alcuna in un’infame truffa di suo suocero Tognino. Lo sceneggiato, in cinque puntate, si segnala per una buona resa della Milano di fine Ottocento e di quella nascente classe media, operosa e metodica, che alla città avrebbe conferito un’impronta inconfondibile, Attori quasi tutti lombardi per un cast di qualità: Maddalena Crippa, Cesare Ferrario, Tino Carraro, Gianfranco Mauri, Lina Volonghi.

gian maria volontè

Cristo si è fermato a Eboli“, tratto dal romanzo omonimo di Carlo Levi, è uno sceneggiato dalla doppia memoria: da una parte è una testimonianza-omaggio nei confronti di un mondo (quello contadino, povero dignitoso disperato passionale del Sud Italia) in dissoluzione e oggi definitivamente scomparso; dall’altra per il fatto di essere forse l’ultima testimonia di un’epoca in cui alla televisione pubblica si faceva cultura e si cercava di insegnare valori etico-civili di una certa profondità.

Magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté e da Lea Massari, Alain Cuny, Irene Papas, Paolo Bonacelli, Francesco Callari, con la regia di Francesco Rosi, il teleromanzo ha tutto il sapore delle opere lente, contemplative, introspettive, visivamente sublimi che caratterizzavano tanta parte del cinema e della tv degli artisticamente fecondi anni ’70. L’opera di Rosi è un piccolo gioiello da questo punto di vista e anche oggi colpisce per la poesia, la bellezza, la suggestione delle immagini, delle inquadrature, della storia raccontata.

Il segreto è proprio nella lentezza dei ritmi, i quali servono per “depurarsi”, per introdursi di fatto (mentalmente ed esteticamente) in quel mondo perso, quasi primitivo, che Carlo Levi (e Rosi in rispetto dello spirito del libro) vogliono in qualche maniera celebrare, rilevandone la genuinità e l’istintività (a fronte dell’ipocrisia dei “galantuomini”) e deprecandone lo stato di abbandono, dolore e disperazione in cui versava.

È stato però grazie all’esistenza di questo mondo se si è accesa e sviluppata la cultura di sinistra in Italia. Il tramonto e la scomparsa di questo ambiente ha determinato anche il crollo di questo tipo di cultura. Oggi ci sarebbe da riflettere se il progresso tecnologico e il benessere abbia veramente prodotto tutti i vantaggi sociali e le trasformazioni positive in cui allora si credeva senza riserve; ma molto probabilmente è proprio il benessere e la ricchezza personale che hanno cancellato lo sguardo di partecipazione e interesse alla povertà e al bisogno che animava la generazione di Carlo Levi e Francesco Rosi. Oggi non si guarda più in questa maniera al disagio e al bisogno e sceneggiati del genere sono ormai sentiti solo come testimonianze, come oggetti di un passato ormai a tutti gli effetti remoto. Magari da dimenticare.

Non mancheranno negli anni a venire ottimi sceneggiati, come allora continuavano a definirsi, come “Marco Polo”, regia di Marco Montaldo, 1982; “Cuore”, regia di Luigi Comencini; 1984; “Cristoforo Colombo”, regia di Alberto Lattuada, 1985; “I promessi sposi”, regia di Salvatore Nocita, 1989; ma erano spesso coproduzioni internazionali e lo stile cinematografico.

Forse saranno stati i “tempi moderni”, i “favolosi” incipienti anni Ottanta della “Milano da bere”. Gli anni degli yuppies, dei paninari, delle casalinghe che giocano in Borsa, del trionfante Craxi e del vorace Pacman. Anni leggeri sotto tutti i punti di vista, che si affermano come un rigurgito di periodi cupi fortemente politicizzati, con stili di vita improntati al consumismo, all’esteriorità e allo svago. È il decennio della tecnologia, dell’esagerazione e del narcisismo. Gli anni in cui mosse i primi passi Internet… Fatto sta che anche la televisione ne risente, passando al disimpegno e alla perdita di valori che l’avevano accompagnata per decenni. Naturalmente gli sceneggiati sopra menzionati, ma non solo quelli, erano opere di qualità, ben sceneggiate, dirette e interpretate. Ma la “Nostalgica TV” era tutta un’altra storia.

 

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