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Il ricordo

Pepi Merisio, geniale fotografo “architetto” della quotidianità

Il cuore di Bergamo, il respiro del mondo

Aveva una certa idea della fotografia e si può ben capire: uno che era arrivato a quella scelta di vita dopo una laurea in filosofia è quasi naturale che alla dimensione del documento accosti anche quella della valenza artistica.

Pepi Merisio, morto a 90 anni, carico di meritati onori e gloria maturati in campo internazionale , aveva raggiunto la splendida sintesi.

Le sue foto erano anche un’opera d’arte. Non a caso ha visto accendersi un firmamento di mostre: stelle che punteggiavano la sua lunga, prestigiosissima carriera. Il suo nome ha varcato presto i confini nazionali. Ancora giovane iniziò una qualificata e qualificante collaborazione con la rinomata rivista “Du” e con la Atlantis, a Zurigo, con numeri monografici per lui e per le sue ricerche, specialmente nel campo della religiosità popolare. Pepi ha il merito di aver fissato sulle sue pellicole gli ultimi bagliori di una fede vissuta, praticata e testimoniata anche con processioni storiche in ogni angolo d’Italia e – meno – all’estero.

La sua fortuna cominciò da una intensa e feconda collaborazione con mons. Luigi Chiodi, culminata e sublimata poi nella monumentale “Terra di Bergamo”, tre volumi con testi e foto di quei due nomi che fecero titolo sulla stampa nazionale. Lì c’erano tutti i semi e i segnali del film olmiano “L’albero degli zoccoli”. Credo di poter dire – da molte conversazioni con lui – che fosse l’opera alla quale Pepi rimase più affezionato. Era il cippo iniziale di un percorso protrattosi per mezzo secolo sempre ai massimi livelli. E Pepi voleva la massima cura anche quando curava personali considerate “minori”, un termine che gli dava l’orticaria.

Ho avuto la fortuna di conoscere Pepi Merisio, e poi di godere della sua amicizia, quasi all’inizio del mio giornalismo, grazie ad un collega che ha scritto molti libri illustrati da Merisio, Gino Carrara, direttore del “L’Eco di Bergamo”. E fu proprio Gino a propiziare molte finestre aperte dagli anni Sessanta in poi nella Svizzera, con mostre sui Sacri Monti delle Alpi, poi diventata una permanente nel santuario che domina Locarno; o sui suoi passi con l’obiettivo al collo dalla città della Limmat ai territori di Segantini, a molti mondi, costantemente alla ricerca di un “altrove” che per Merisio si traduceva in “ovunque”– dall’artigianato al folclore, da storici eventi a feste di popolo – per l’universalità del suo linguaggio. Memorabili alcune rassegne con cui facemmo il giro della Svizzera, da Zurigo a Chiasso, da Emmen a Winterthur. Dappertutto, apprezzamenti per il suo estero.

Oltre il cuore della “sua” Bergamo, era un cittadino d’Italia, di tutta la penisola che ha fissato nei libri andando a scovare gli angoli più caratteristici, uomini e storie, riti che affollano il calendario dal primo all’ultimo giorno dell’anno. Pepi sapeva distinguere i luoghi e gli avvenimenti di valore da quelli innalzati dal consumismo, dalla pubblicità, spesso anche dal cattivo gusto. Questa sobrietà, che sapeva però cogliere il particolare come pochissimi, era un tratto del suo intendere la fotografia.

Possedeva uno stile nella sua creatività e lo si percepiva e a questo si deve il suo successo.

A corredo delle sue immagini si sono spese le penne più celebrate della letteratura, da Piero Chiara a Luigi Santucci, da Geno Pampaloni a Giovanni Arpino. E ancora, Giovanni Testori, Carlo Bo, Domenico Agasso, Enzo Fabiani, Roberto Barzanti, Federico Fazzuoli, lo stesso Gino Carrara, Claudio Sorgi, nomi illustri di giornalisti affermati.

Ogni titolo, un itinerario alla scoperta di tesori il più delle volte poco conosciuti. Con un cast di “principi della penna” Merisio, un sovrano dell’obiettivo, ha portato milioni di lettori a scoprire “L’Italia della nostra gente”, titolo di una fortunata, annosa collana curata per le Casse Rurali e Artigiane, dove di anno in anno comparivano personalità di prim’ordine, ministri, artisti (fu grande amico di Floriano Bodini, Enrico Manfrini, Trento Longaretti), registi, cardinali, vescovi…

Poderosi capolavori di Merisio sono “Il Palio di Siena”, “Italia”, “Terre di Lombardia”, “Le chiavi pesanti”. E qui bisogna aprire una parentesi per accennare soltanto al legame di familiarità che Merisio aveva stabilito con Papa Montini, Paolo VI oggi santo, al quale scattò primi piani epocali. Pepi sapeva unire e usare discrezione, sommo rispetto, crescente venerazione verso l’uomo al quale toccò far planare sulla terra l’astronave del Concilio lanciata da Papa Giovanni XXIII. Di lui conosceva la letizia e la sofferenza, grazie anche alla fraterna amicizia che aveva con mons. Pasquale Macchi. Fu Merisio che accompagnò Papa Montini nel primo storico viaggio in Terra Santa, seguito poi da altri e ancora Merisio ha documentato alcuni tra i più significativi viaggi di Giovanni Paolo II.

Stare con lui era una lezione di vita, un viaggio nella memoria, dentro una galleria interminabile di nomi, di volti, di persone dalle più umili alle più grandi che ha esaltato – tutte in ugual misura – con la magia del suo obiettivo. Con lui se ne va un pezzo di storia d’Italia: un uomo che ha onorato il suo Paese, stando sempre a schiena dritta con quell’autorevolezza che gli consentiva in ogni luogo e con chiunque di dire pane al pane, in nome della ricerca della verità, così come con la macchina fotografica certificava la realtà, firmandola con nome e cognome: Pepi Merisio, architetto della quotidianità.

Valle Imagna - Pepi Merisio
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