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Parla l'esperto

“Eccessivo parlare di Generazione Covid, però i ragazzi perdono ritmo e trovano ansia”

Floriano Bresciani, psicoterapeuta, coordinatore del centro Varenna dell’Ospedale di Bergamo: “Vaccino agli insegnanti per far ripartire la scuola”

Lockdown prolungato, vite confinate all’interno di zone multicolor che stabiliscono cosa possiamo e non possiamo fare, scuole superiori chiuse da mesi, medie ad intermittenza e didattica a distanza che mette a dura prova studenti, genitori e insegnanti. Nonni chiusi in casa che soffrono pure lo stigma del “sei vecchio, chiuditi in casa e lascia passare la nottata” quando la “nottata”, a una certa età non va certo verso una promettente alba. Ansia, depressione e angoscia sono dietro l’angolo. Per tutti.

Sacrosanta l’attenzione ai più giovani, che rappresentano il futuro di questo nostro mondo. La preoccupazione è quella del buco che la pandemia potrebbe causare nello sviluppo della personalità degli adolescenti di oggi, condannandoli ad un futuro “groviera” a causa delle opportunità perse, delle esperienze non vissute e non più recuperabili. Buchi emotivi, relazionali e formativi che hanno portato alcuni a definire quella dei giovani di oggi come la “generazione covid” irrimediabilmente compromessa dalla pandemia.

Mossi dal sospetto che questa definizione sia più una semplificazione giornalistica con in sé, però, la forza narrativa di edificare un nuovo pregiudizio sulle donne e gli uomini di domani, abbiamo chiesto a chi si occupa quotidianamente di salute e benessere mentale di dirci cosa vede dal suo osservatorio.

Floriano Bresciani, dirigente psicologo del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII diretto da Emi Bondi, è anche lo psicoterapeuta supervisore dell’équipe del centro Varenna per lo studio e la cura dei disturbi dell’umore e dell’ansia. Il servizio, dedicato alla diagnosi e cura dei disturbi d’ansia e depressione, si trova nel presidio del Matteo Rota di Bergamo e offre un servizio pubblico, gestito dall’ASST Papa Giovanni XXIII. Il Centro si avvale di una équipe di circa dieci tra psicologi e psichiatri e copre un bacino di utenza di circa 400 giovani (accessi/anno) tra i 17 e 25 anni. L’obiettivo dei terapisti del Varenna è di provare ad offrire risposte concrete ai bisogni di adolescenti e giovani adulti – tra cui le neomamme alle prese con il tempo faticoso della gravidanza e del puerperio – sia in termini di diagnosi precoce che di corretto trattamento dei disturbi.

Dottore, esiste una “generazione covid”?

Sicuramente la pandemia, che ha portato con sé un cambiamento radicale e un’interruzione prolungata di ritmi, abitudini, esperienze di vita e di relazione, causa una certa destabilizzazione anche nei più giovani. Da qui a definire questa come una generazione danneggiata in modo irreparabile, il passo è eccessivo. Gli adolescenti vivono una condizione di destabilizzazione che non ha a che fare necessariamente con lo scompenso psichiatrico ma con un mutamento dei processi tipici dell’età. Quella dell’adolescente la possiamo definire una seconda nascita: questo è il tempo della separazione e individuazione del sé. Gli adolescenti devono prendere la loro personale “andatura”, il loro modo essere, di pensare e di stare nel mondo. Il confinamento ha interrotto bruscamente i processi tipici di questa età: quello dell’appartenenza, del riconoscimento e del confronto. La relazione con gli altri è importante nell’edificazione della propria identità. Appartenere ad un gruppo, pensiamo alla classe e a quello dei pari, degli amici, aiuta l’adolescente a definire la propria identità, a riconoscersi anche per come gli altri ti vedono. È nel confronto tra i propri bisogni e quelli degli altri che si edifica se stessi. La pandemia ha interrotto questa palestra di alfabetizzazione emotiva; questa interruzione comporta una perdita di stabilità ma non necessariamente una psicopatologia. È però importante cogliere questa nuova dimensione di malessere e le sue fenomenologie.

Rilevate disturbi causati o connessi al Covid-19?

Non vedo una correlazione diretta con la pandemia. In ospedale arrivano casi di crisi psicologiche acute e gravi che fatico a mettere in relazione al Covid-19. I giovani che giungono al centro Varenna, direttamente o inviati dal medico di base o da altro specialista, portano con sé il bisogno di condividere un malessere che deve essere raccontato, ascoltato, condiviso. Un malessere che ha anche a che fare con quella brusca interruzione dei processi di definizione del sé tipici dell’età di cui dicevo prima, e che può essere resa bene dall’immagine che in molti usano quando riferiscono “Ho perso il mio ritmo, domo male, respiro male”. C’è bisogno di riprendere un ritmo, trovarne uno nuovo. Viviamo in un clima di tensione che entra nelle menti e nei comportamenti dei ragazzi. Questa tensione può generare ansia.

Un clima di tensione che è alimentato anche dai media e forsanche dalla società adulta in generale?

Posto che nella mia esperienza, non rilevo, ad ora, una franca fenomenologia Covid-19 correlata di spessore psicopatologico, ho come l’impressione che si siano messi in moto una serie di apparati discorsivi, di modelli che interpretano la realtà che, soprattutto nella scrittura e nella narrazione, accelerano ciò che clinicamente riscontriamo oggi.

Quanto alla salute mentale degli adolescenti o in generale?

Negli adolescenti, come dicevo, il Covid19 è entrato a gamba tesa nel delicato processo di definizione dell’identità destabilizzando ancora di più i processi di appartenenza, riconoscimento e confronto. Da un giorno all’altro ai ragazzi in cammino è mancato il terreno sotto i piedi. Da qui, l’esigenza di ricostruire un ritmo, dare un senso all’esperienza, stare dentro alle fatiche dell’adolescenza in un contesto nuovo, caratterizzato da distanze e separazioni. Detto ciò, vedo ragazzi capaci di vivere questo momento e di maturare le capacità di soffrirlo, anche. Il nostro compito, e quello degli adulti e degli educatori in generale, è di sostenerli nel fare ciò, nel dare un senso a quello che stanno vivendo. Vedo, e abbiamo visto tutti, anche una grande capacità di solidarietà tra i più giovani: nel volontariato, nel desiderio di mettersi a disposizione, di sostenere chi ha bisogno, gli anziani in particolare.

Già, gli anziani. Come stanno loro?

Gli anziani hanno paura: a casa, in attesa del vaccino, esposti ad un bombardamento quotidiano di notizie, e bollettini di morte. L’allentamento delle relazioni interpersonali non aiuta. C’è ansia, angoscia, paura della morte. Teniamo aperto, con tutti i mezzi possibili, il dialogo con gli anziani oltre che con i più giovani. La parola è il vero contenitore della nostra esperienza, contrasto all’angoscia, alla solitudine. Freud per spiegare la potenza della parola citava una situazione vissuta da un suo paziente che, da piccolo, restò con la zia in una stanza che divenne buia improvvisamente. La zia sopraffatta dall’oscurità smise di palargli. E lui disse: “Zia, perché non mi parli più? Se mi parli c’è la luce”. Questo per dire che di una telefonata o videochiamata tra nonni e nipoti si avvantaggiano senza dubbio entrambi.

Altro che conflitto intergenerazionale. Cosa possono fare i genitori per sostenere i figli in questo momento?

Sa cos’è che conta? Che la famiglia non rinunci ai miti affettivi prevalenti. E questo non significa tenere sotto controllo il ragazzo o la ragazza in DAD o in altre attività online – certamente giusto, utile, necessario – ma, entrando in profondità, non rinunciare a creare momenti che ritualizzano il senso di appartenenza e riconoscimento, che riescono a legare e rilegare la coesione familiare che dà senso e prospettiva. Stare molto attenti a non far cadere l’abitudine, la voglia di parlare, raccontare, condividere. Non rinunciare alla tavola condivisa, a spazi dedicati all’incontro, all’ascolto, alla presenza che accoglie. L’essere umano non vive solo nel corpo fisico ma anche nella parola. Noi abbiamo bisogno di dirci delle cose. Avvicinate i figli e farteli parlare. Mai rinunciare alla parola.

Oltre alla dimensione familiare, la scuola per ciò che rappresenta per la crescita umana e personale è centrale. Irrinunciabile ma, fino ad ora e per molti, chiusa. Come reagire?

Oggi grazie alle tecnologie possiamo fare esperienze un tempo impensabili. Possiamo fare tanto e bene. Ma non tutto. Siamo parola ma siamo anche un corpo fisico quindi, oggi, lontani tra noi e protetti nel corpo, con la mascherina ad esempio, abbiamo la nostalgia della vicinanza, del viso aperto, del contatto fisico. Ma tutto ciò tornerà, le epidemie finiscono. Dobbiamo accettare questi limiti, per evitare la malattia e le sue conseguenze, con la consapevolezza che finirà. La nostalgia sarà memoria di futuro. La scuola è virtuale ma non inesistente, esiste. Il punto è che si crei un’aspettativa fiduciosa. E che gli educatori contribuiscano in questo senso. Poi si ripartirà. Condivido, per esempio, la richiesta di vaccinare gli insegnanti e gli educatori subito dopo i sanitari per far ripartire la scuola al più presto e in sicurezza.

Nel frattempo, qualche suggerimento ai genitori?

Il compito dei genitori, degli educatori, dei terapisti è quello di insegnare a non rinunciare allo sguardo oltre il presente. Dobbiamo riuscire a dare e trasmettere un senso alle difficoltà del presente. Dicendo però le cose come stanno. Sempre, anche ai più piccoli occorre spigare che c’è la pandemia, che dobbiamo proteggerci. Per poter sognare bisogna avere i piedi ben piantati per terra, nella realtà. Non è pensabile che un adolescente viva questo momento come un adulto, per il processo di crescita, la burrascosità e tumultuosità che lo attraversano. Gli adolescenti sono più esposti ad angosce specifiche, come la paura della morte, che ha a che fare con il tema della perdita, centrale per l’età. Quando l’adolescente perde la nicchia protettiva della classe, le abitudini degli amici, della prima fidanzata, etc. questo determina un vero smarrimento, vera angoscia. Gli adulti sono chiamati a dare il loro contributo per costruire il senso di questa storia, ad ascoltare e trasmettere fiducia.

Genitori che protestano per la scuola: bene o male?

Da un lato i genitori devono restare identificati con l’autorità. Non è una buona scelta mettersi contro le decisioni delle autorità competenti, di chi è chiamato a decidere con competenza e responsabilità. Dall’altro lato, per restare identificati anche coi loro ragazzi, che è il tema, devono stare ad ascoltarli. Sarebbe bene impostare uno spazio di negoziazione e confronto. Ascoltare il malessere, il bisogno di raccontarsi, di dialogare. Ascoltare ed accogliere. Per farlo occorre creare riti e rituali in cui la parola si può estendere…il tavolo condiviso che dicevo prima, per esempio. Coi ragazzi conta offrire loro uno spazio di ascolto per rinegoziare attraverso di noi la loro storia. Perché quella degli adolescenti è una forte ansia di definizione personale.

Il vaccino rappresenta una bella occasione per offrire un orizzonte di speranza e fiducia nel futuro.

Una grandissima occasione, il vaccino. Dovremmo dirlo ai ragazzi. Due i messaggi fondamentali. Il primo, è che il vaccino rappresenta la grandezza dell’intelligenza umana. Il culmine della sapienza, della scienza, del sapere dell’umanità. Un’ottima occasione per spiegare ai ragazzi quanto la tecnica è profondamente umana: l’Uomo è riuscito in brevissimo tempo, con la sua intelligenza, a fare una cosa straordinaria. Facciamo partecipare i ragazzi a questa grande scoperta. Secondo, è che scegliendo di vaccinare, subito dopo la prima linea dei sanitari e degli over80, il personale scolastico diamo un messaggio etico molto chiaro e forte sulla centralità della scuola. È come se dicessimo loro: vi abbiamo tolto il terreno sotto i vostri piedi per proteggervi e proteggerci ma ora ve lo restituiamo. Subito. Al più presto. I ragazzi ne avrebbero un gran bisogno!

Come interpreta il fenomeno no vax, no mask, no covid?

Rappresentano la distruttività nei confronti della scienza, della tecnica, della cultura. Diffondono sfiducia, credono nella superstizione. Da sempre l’umanità ha in sé questi elementi negativi, di distruttività. Rappresentano sul piano macroscopico quello che a livello individuale è il conflitto. Sul versante psicologico, queste negazioni della realtà hanno a che fare con un’angoscia della morte non rielaborata.

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