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Storia delle epidemie 7

La peste del 1348 diede il via alla rabbia e alla violenza: al rogo molti ebrei

I sovrani dovettero accorrere in difesa degli ebrei, adottando anche misure di supporto

Tra il X secolo e gli inizi del XIV si assistette in Europa a una lenta ma costante crescita della popolazione, che arrivò a raddoppiare in Francia e in Italia e addirittura a triplicare in Germania. Ciò fu favorito da una stabilizzazione delle strutture politiche che portò maggior sicurezza e a un periodo di clima mite, conosciuto come periodo caldo medievale. L’economia prosperò: dopo secoli le vie di comunicazione tornarono a essere mantenute in efficienza e così gli scambi commerciali fiorirono spingendosi fin verso il Mar Nero e l’impero Bizantino. All’inizio del Trecento molte città europee contavano oltre 10.000 abitanti, alcune arrivarono ad averne anche 10 volte tanto; in Italia Milano aveva una popolazione di circa 150.000 persone, Venezia e Firenze 100.000, Genova 60.000.

Per far fronte alla sempre maggior richiesta di cereali, alimento base della dieta dell’epoca, si estesero i terreni coltivati e si introdussero migliorie nelle tecniche agricole, come la rotazione triennale e nuovi attrezzi. Tuttavia, nei primi decenni del Trecento, complice anche un generale abbassamento delle temperature, passato poi alla storia come “piccola era glaciale”, la produzione non riuscì più a soddisfare la domanda. Tra il 1315 e il 1317 l’Europa fu investita da una grande carestia, come non ne accadevano da tempo, che in alcune città, in particolare del nord, portò alla morte del 5-10% della popolazione. Altre carestie si succedettero negli anni seguenti; si ricordano soprattutto quelle del 1338 e del 1343 che interessarono maggiormente l’Europa meridionale. Tra il 1325 e il 1340 le estati furono molto fresche e umide, comportando abbondanti piogge che mandarono in rovina molti raccolti e aumentarono l’estensione delle paludi esistenti. Già nel 1339 e nel 1340 vi furono epidemie, si suppone prevalentemente di infezioni intestinali, che provocarono nelle città italiane un deciso aumento della mortalità.

Ad aggravare ulteriormente la situazione, nel 1337 tra il regno di Francia e il regno d’Inghilterra scoppiò un conflitto destinato a durare oltre un secolo. I contadini, impauriti dalla guerra e non più in grado di sopravvivere con gli scarsi prodotti dei loro campi, si riversarono nelle città alla ricerca di sussistenza, andando a creare insediamenti sovrappopolati dalle condizioni igieniche assai precarie, con cumuli di rifiuti giacenti a marcire per strada e assenza di fognature e con rifiuti organici versati direttamente in strada da finestre e balconi. È questo il quadro nel quale la peste trovò le condizioni ideali per scatenare una pandemia.

La peste era endemica nelle regioni ai confini con l’Himalaya già dagli ultimi decenni del Duecento, ma poi l’intensificarsi verso nord e verso ovest, attraverso la Via della Seta fra Cina e Siria, degli spostamenti delle carovane, contribuì al diffondersi dell’epidemia in Russia, Asia Centrale, Iran e Iraq. Nel frattempo i roditori selvatici che vivevano nelle steppe euroasiatiche vennero in contatto con i portatori delle nuove malattie, fra cui la peste, e le loro tane, umide e calde, furono il luogo ideale per la sopravvivenza del bacillo. In seguito, le pesanti variazioni climatiche del regime monsonico falcidiarono i roditori e per sopravvivere le loro pulci, vettori del bacillo della yersinia pestis, furono costrette ad attaccare gli esseri umani e gli animali utilizzati per i trasporti, come cavalli e cammelli. Il morbo venne così trasportato sulle rotte commerciali che attraversavano l’impero mongolo e, nel 1338, raggiunse le popolazioni nei presi del lago Ysykkol, nell’odierno Kirghizistan, tappa obbligata dell’antica via commerciale. Da qui dilagò a macchia d’olio per le steppe russe, fino a raggiungere la Crimea.

In quegli stessi anni l’Orda d’Oro assediava Caffa (l’attuale Feodosija in Crimea), ricca colonia genovese sulla via dell’Oriente. Fu allora che l’epidemia colpì i tartari. Il notaio piacentino Gabriele de Mussis, che ci accompagnerà in questo capitolo, nelle cronache narrate nella sua “Ystoria de morbo sive Mortalis quae fuit Anno Domini MCCCXLVIII” annota: ”L’intero loro esercito fu colto dal panico e ogni giorno erano in migliaia a morire. Agli accerchiati sembrò come se dal cielo fossero scagliati dardi di vendetta che tenessero a freno la spavalderia dei nemici. Dopo poco tempo questi mostrarono nei loro corpi proprio i sintomi caratteristici, vale a dire umori raggrumati alle giunture e agli inguini. Quando a tutto ciò faceva seguito la febbre della putrefazione morivano e i medici non erano in grado di offrire né consiglio né aiuto. Quando i tartari, indeboliti dalla battaglia e dalla peste, sgomenti e completamente allibiti dovettero prendere atto che il loro numero si faceva sempre più esiguo e riconobbero di essere in balia della morte senza speranza alcuna di salvezza, legarono i cadaveri su catapulte e li lanciarono così all’interno della città di Caffa perché tutti morissero di quella peste insopportabile. Si vedeva come i cadaveri che essi avevano lanciato si ammucchiavano gli uni sugli altri fino a formare delle montagne. I cristiani non poetavano né portarli via né fuggire davanti a loro”. Il dettaglio dei cadaveri catapultati su Caffa rimane uno degli aspetti più sorprendenti del brano: siamo infatti in presenza di una guerra batteriologica ante litteram.

Dal Mar Nero il bacillo prese la via del mare lungo le rotte percorse dai navigli genovesi. A bordo delle galee, il contagio si diffuse fino a Costantinopoli (1346), Il Cairo e Messina(1347), da dove poi si propagò in Italia e in tutta Europa. Genova e Marsiglia furono colpite in novembre, la Sardegna e la Corsica in dicembre, Pisa e Venezia nel gennaio del 1348, la Linguadoca in febbraio, Maiorca in marzo, Barcellona e Valenza in maggio, Bordeaux, Rouen e le città del Tirolo in giugno. La corte pontificia, che risiedeva ad Avignone, non fu risparmiata: sei cardinali e novantatré membri della curia morirono nel 1348, e con loro metà della popolazione urbana. Nell’estate del 1348 la peste arrivò a Parigi e poi in Inghilterra, dove il bacillo seminò morte e distruzione per tutto l’anno 1349. Sempre il de Mussis: “…così il morbo velenoso arrivò dalla preziosa terra di Caffa, scendendo da qualche nave governata da pochi marinai infetti. Alcuni sbarcarono a Genova, altri a Venezia, altri in varie parti dei territori cristiani”. Gli stessi marinai sopravvissuti (1 su 10) notarono che, una volta sbarcati e dopo aver salutato con baci e abbracci i parenti e aver fatto ritorno a casa, nello spazio di tre giorni molti “soggiacevano alla morte”.

All’epoca si ignorava che le pulci fossero le portatrici della malattia, quindi non si conosceva l’origine bubbonica del contagio tuttavia, da quanto riportato dal notaio, era stata intuita la variante polmonare, ovvero l’infezione tramite le vie respiratorie. Sappiamo per certo, che si interruppe dappertutto qualsiasi parvenza di vita politica, amministrativa e sociale e che l’epidemia colpì in modo diverso da città a città, con una percentuale di mortalità che variò dal 33% all’80%. Tra le categorie sociali più colpite c’erano quelle che venivano a contatto coi malati: “A Venezia su ventiquattro eccellenti medici ne morirono venti in pochissimo tempo (…) al religioso piacentino fra Bertolino Coxadocha dell’ordine dei minori, morirono ventitré dei suoi (…) e oltre sessanta prelati e rettori della chiesa cittadina e del distretto”. Ne conseguì che: “ …il sofferente giaceva da solo nella sua casa, nessuno si avvicinava e in lacrime i più cari amici si nascondevano. Il medico non visitava. Il sacerdote sconvolto amministrava timidamente i sacramenti”.

Per gli storici delle epidemie, le descrizioni di de Mussis sono da mettere prima di quelle dei medici contemporanei come, ad esempio, Guidone da Cauliaco e Dionisio Colle: “…d’improvviso, sentivano una strana, fredda rigidità nei loro corpi e venivano colpiti da dolori così lancinanti che erano paragonati alle frecce pungenti degli arcieri. Poi li coglieva un sinistro attacco: si formavano delle cotenne durissime, sempre più grosse (…) che provocavano un grande bruciore, venivano poi colpiti da una putrida febbre acutissima e da un gran mal di testa (…) sputavano sangue, si gonfiavano e alcuni cadevano in uno stato di sedazione da cui non si risvegliavano”. Da questo passaggio, si comprende bene quali fossero i tre modi di mutazione dell’epidemia: la bubbonica, la polmonare e la setticemia (quella del sangue).

Le cure erano ancora quelle della tradizione galenica, basate sull’equilibrio dei liquidi, per questo i salassi servivano per liberare il malato dal sangue corrotto e permettere il rigenerarsi di quello sano. Un grave errore medico era costituito dall’incidere i bubboni, perché in quel modo venivano tagliate le ghiandole linfatiche. Poiché ogni cura risultava comunque inutile, non rimaneva che votarsi ai santi, e per questo motivo la relazione del notaio si conclude così: “Era tempo di amarezza e di dolore e la speranza era nelle mani del Signore (…). Infine nel 1350 il santissimo papa Clemente (VI), nel concistoro della sede apostolica, decise l’indulgenza generale dalle pene e dalle colpe (…). Orsù miei cari leviamo pertanto le nostre mani al cielo: non siamo come vipere o ancor più crudeli. Imploriamo Dio…”. Ancora una volta, come abbiamo già visto riguardo all’epidemie dei secoli precedenti, pareva che la pandemia fosse un segno profetico della collera divina contro gli innumerevoli peccati umani, un ammonimento giunto dal cielo per redimere, attraverso il calvario della sofferenza, i popoli della terra.

Per il “nostro” cronista, come per tutti gli altri commentatori dell’epoca, il motivo della peste era quindi l’ira divina per le ingiustizie e i peccati commessi dagli uomini. È utile ricordare, a questo proposito, che dopo lo sgomento iniziale provocato dall’improvvisa ecatombe dalle dimensioni bibliche, alla quale del resto la peste veniva ricollegata, nasce il bisogno di opporvisi. Si organizzano processioni, esposizioni di reliquie, consacrazioni e combustioni di ceri. Ma soprattutto si assiste alla nascita di numerose manifestazioni di origine popolare che si organizzano e via via si radicalizzano fino ad approdare all’isteria collettiva e alla violenza. Una violenza rivolta in un primo tempo contro il proprio corpo (espiare per esorcizzare il male), ma che ben presto si trasferisce su quei corpi sociali e fisici considerati da sempre come non totalmente conformi, in bilico tra tolleranza e ostilità, come gli ebrei e in diversa misura i lebbrosi.

Numerosi cronisti raccontano come da subito in molte città d’Europa le comunità ebraiche vennero perseguitate e decimate in seguito all’accusa di “untura”. I casi più eclatanti si manifestarono a Barcellona, Lerida, ma anche a Strasburgo, Colonia, Stoccarda. I roghi e le vittime si contavano a migliaia. Di questo fenomeno non si trova stranamente traccia nelle città della penisola italiana. Molti furono quindi i cristiani che accusarono gli ebrei della diffusione della malattia, sostenendo che questi avvelenavano le riserve d’acqua pubblica per distruggere la civilizzazione europea. Questa diceria portò a conseguenze terribili e a persecuzioni inaccettabili, e venne alimentata dal fatto che gli ebrei che perdevano la vita a causa della peste erano meno. Il vero motivo, però, della loro minore mortalità è da rintracciarsi nelle migliori abitudini igieniche che gli ebrei avevano sviluppato nel corso dei secoli. Ci furono diversi massacri, scatenati nell’isteria generale della popolazione. I sovrani dovettero accorrere in difesa degli ebrei, adottando anche misure di supporto. Il papa Clemente VI disse pubblicamente che la malattia aveva causa naturale o divina, e non era certo dovuta all’intervento umano. Emesse anche due bolle pontificie, nel 1349, in cui scomunicava chiunque perseguitasse gli ebrei.

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