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L'intervento

Gori: I “proletari” di Trump e la sinistra senza popolo

Un tweet di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, scritto a caldo mentre un gruppo di manifestanti invade il Congresso degli Stati Uniti è stato al centro di una polemica politica. Oggi il primo cittadino spiega quella frase.

L'assalto al Congresso Americano da alcuni manifestanti ha scatenato una serie di reazioni immediate. A distanza di qualche giorno, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori approfondisce il suo tweet contestato per aver definito gli assalitori "proletari". Il testo è stato pubblicato nel blog che il sindaco Gori ha su huffingtonpost.it.

Arrivare, con meno di 280 caratteri, a suscitare migliaia di reazioni indignate provenienti in misura sostanzialmente equivalente da destra e da sinistra è quasi un record. Mi è riuscito qualche giorno fa con un tweet che commentava le immagini degli assaltatori trumpiani di Washington: una lunga sequenza in cui, uno dopo l’altro, decine di questi manifestanti uscivano da Capitol Hill.

Osservandoli mi chiedevo: “Chi sono? Proletari, mi verrebbe da dire. Poveracci poco istruiti, marginali, facilmente manipolabili, junk food e fake news, marionette nelle mani di uno sciagurato che li ha usati per il suo potere. È così che si diventa fascisti?”.

Scontati gli insulti dell’estrema destra. Da quelle parti non amano che si indichi come fascista chi in nome del suprematismo ariano prende d’assalto la sede del Parlamento per sovvertire il risultato di libere elezioni democratiche - quelli per loro sono “patrioti”; e poiché di patrioti si tratterebbe, guai a sostenere che tra loro ve ne siano di bassa condizione sociale e soprattutto di bassa istruzione, perché subito scatta l’accusa di snobismo (“tipico della sinistra sostenere che chi vota a destra è ignorante”), se non di razzismo.

Il tweet non era granché, come capita a volte, a partire dall’idea di appiccicare un’etichetta a una ventina di sconosciuti visti velocemente sfilare davanti a una telecamera, provando da lì a tirar fuori una riflessione generale. Nell’assalto al Campidoglio – abbiamo poi saputo – hanno preso parte anche persone facoltose, il figlio di una giudice della Corte Suprema, ex veterani, poliziotti in borghese provenienti da altri Stati, affiliati del movimento complottista QAnon. Questa pluralità di provenienze – così come la varietà che si ritrova tra i 74 milioni di elettori di Trump, in cui si mescolano anche porzioni dello storico elettorato repubblicano e molti elettori delle fasce più ricche – non consente tuttavia di non vedere quale ne sia la base, il fattore sociologico che ha storicamente determinato l’esplosione del fenomeno Trump così come il recente successo di movimenti populisti e sovranisti in diversi paesi dell’Occidente, e che ancora oggi spiega quale ne sia il principale terreno di coltura.

Dentro questi processi politici si riflette la condizione di masse di cittadini a vario titolo penalizzati dalla crisi e dalla transizione economica in corso, esclusi privi di rappresentanza, persone poco istruite minacciate dal progresso tecnologico, esponenti della classe media impoverita - che in altre stagioni non avrebbero votato a destra.

Si è discusso in questi giorni, a partire da uno schema interpretativo un po’ inflazionato, se siano identificabili come “vittime dalle disuguaglianze”; e la risposta è probabilmente no (o non solo), qualora si guardi unicamente alla crescente polarizzazione dalla ricchezza, e invece sì – a mio parere – ove si adotti uno schema a più dimensioni e si considerino anche profili riguardanti l’educazione, la disponibilità di capitale sociale o l’accesso ai servizi pubblici.

Ciò che definisce la loro condizione di “privazione” non è soltanto la mancanza o la scarsità di reddito, ma un più complesso intreccio di fattori, inclusi quelli di tipo psicologico e identitario.

Duran Barba, uno stretto collaboratore di Jo Biden, ha spiegato perché Trump sia un avversario particolarmente difficile da affrontare per la sinistra: “Perché è il candidato del proletariato”, ovvero di una massa di cittadini accomunati da “perdita di sicurezza di sé, deterioramento dell’educazione da offrire ai figli e sensazione di precarietà, di esclusione e di rabbia”.

Proprio l’uso dell’espressione “proletari” – tornando al tweet – ha provocato le reazioni “da sinistra”, divise tra chi evidentemente ritiene di averne l’esclusiva - “come ti permetti?”, “pvoletavio, si dice pvoletavio” – e chi ha vissuto come una bestemmia l’associazione tra quella parola e le immagini, tra quella parola e le persone che uscivano urlando dalla sede del Parlamento americano. Più ancora, come il furto di un’identità. Perché “i proletari siamo noi”, e “non è vero che siamo tutti ignoranti o poveracci”. Siamo noi perché è la nostra storia.

E vengo al dunque, perché è alla mia parte politica che mi interessa a questo punto parlare. Provando a spostare il ragionamento dagli Stati Uniti al nostro Paese.

Per chi votano (in maggioranza) gli operai in Italia? Non per la sinistra. Per chi votano i disoccupati, i precari e i poveri? Non per il Pd.

Un’analisi della diversa composizione dei bacini di voto di Pd, Movimento 5Stelle e Lega, partendo da dati raccolti da IPSOS in occasione delle elezioni politiche del marzo 2018, fornisce elementi interessanti. Ponendo pari a 100 il risultato complessivo ottenuto da ciascun partito, in percentuale, e confrontandolo con la quota di voti raccolta presso specifiche categorie di elettori, è infatti possibile ricavare degli indici di “concentrazione” che consentono di cogliere meglio il profilo sociale delle diverse forze politiche.

Così, fatta 100 la percentuale di voti ottenuta complessivamente dal Partito Democratico (18.8%), emerge una marcata concentrazione tra gli elettori dei “ceti elevati” (120), in proporzione meno rappresentati tra gli elettori del Movimento 5Stelle e della Lega (95 e 74, rispettivamente), e, per contro, una scarsa concentrazione tra gli operai e i disoccupati (60 e 55 i rispettivi indici). Ben più alti, in proporzione, i valori di concentrazione tra gli operai ottenuti dal M5S e dalla Lega – 112 e 136, rispettivamente -, e così tra i disoccupati (113 e 105). Così l’analisi per titolo di studio: massima concentrazione tra i laureati per il PD (116, superato solo da +Europa e Leu), segmento rispetto al quale M5S e Lega hanno invece indici di concentrazione piuttosto bassi (89 e 65 rispettivamente).

Un sondaggio condotto da SWG nel giugno 2020 restituisce sostanzialmente le stesse indicazioni: il Pd registra alti valori di concentrazione tra gli elettori con scolarità alta (126) e bassa concentrazione tra quelli con scolarità bassa (81), esattamente l’opposto di ciò che accade per il M5S (82 per “scolarità alta” e 115 per “scolarità bassa”) e ancor di più per la Lega (58 e 115, rispettivamente).

Così anche per la condizione professionale: massima concentrazione per il M5S tra gli operai e i disoccupati – 128 e 116 gli indici relativi, con buona concentrazione di operai anche per la Lega: 103 – e viceversa minima concentrazione per il PD (78 tra gli operai e 49 tra i disoccupati), che fa invece il pieno tra i pensionati (187). Infine la “condizione economica percepita”: il Partito Democratico svetta per concentrazione tra gli elettori che definiscono “buona” la propria condizione (indice pari a 124), all’opposto del M5S (84) e per contro precipita tra quelli che la indicano come “bassa” e che si definiscono “poveri” (37 e 25, rispettivamente, gli indici di concentrazione). Speculare anche qui la composizione dell’elettorato del M5S: 148 e 101 gli indici relativi a “bassa condizione economica” e “povertà”; in linea col consenso complessivo del partito quelli della Lega (101 e 99, rispettivamente).

Il quadro che ne emerge è molto chiaro: la sinistra italiana ha smesso di rappresentare il principale punto di riferimento dei ceti disagiati, che in maggioranza hanno scelto di rivolgersi ai movimenti populisti e sovranisti. Chi ancor oggi rivendica l’esclusiva della parola “proletari” è visibilmente stato abbandonato da un’ampia parte del “proletariato” e da quella porzione di ceto medio che negli ultimi anni è andata incontro a un traumatico processo di “proletarizzazione”.

Trovano così conferma tante inchieste giornalistiche condotte in questi anni sul campo – ne ricordo una di Paolo Griseri per Repubblica alla vigilia delle Politiche 2018 – nonché le diagnosi di alcuni osservatori privilegiati: da Walter Veltroni – quando osserva che “Nella società liquida la sinistra si è persa” e che “Senza popolo non esiste sinistra” – a Mario Tronti, che a questo tema ha dedicato un paio d’anni fa “Il popolo perduto”, un libro-intervista che affronta appunto la crisi delle forze progressiste abbandonate dalla loro tradizionale base elettorale.

Cos’è successo? Com’è accaduto che in questo esteso bacino sociale ed elettorale siano finite a pescare a piene mani forze politiche di tutt’altra matrice? La prima ragione è l’abbandono da parte della sinistra di un’agenda di diritti materiali – storicamente attenta alle condizioni di vita delle persone – a favore di una postmaterialista.

La fine del capitalismo centrato sulla fabbrica, unita alla globalizzazione e al progresso tecnologico, è stata interpretata come l’avvento di un mondo ricco di opportunità, per lungo tempo senza coglierne le contraddizioni e gli effetti. Si è data grande (e giusta) attenzione ai diritti civili, tanto da farne l’elemento identitario della sinistra, ma nel frattempo si sono persi di vista lo spaesamento e la fatica di ampi strati della popolazione: “milioni di persone sofferenti – ha sottolineato Tronti – disagiate, abbandonate e arrabbiate”.

Fatte le debite differenze, la stessa dinamica vista negli Stati Uniti. Sulla stessa linea la diagnosi di Luca Ricolfi, secondo il quale la crisi del Pd ha radici che affondano nella “trasformazione del Pci, “partito della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”. (…): Il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti sempre più rappresentativi dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità, immigrazione”.

È il processo – confermato dai dati di IPSOS ed SWG – che porta il Pd a polarizzare il proprio insediamento territoriale: ancora forte nelle città – e all’interno delle città, nelle aree centrali -, molto più fragile nelle periferie, nei territori extraurbani e nelle aree interne. È il processo che porta alcune roccaforti rosse – come Pisa, alla cui vicenda David Allegranti ha dedicato il suo “Come si diventa leghisti” – a voltare le spalle alla sinistra.

A questa prima spiegazione Tronti ne affianca un’altra: l’aver pensato che “il soggetto politico vero fosse ormai il governo, al posto del partito”, così che la gente ha finito per vedere la sinistra politica “come un corpo separato, chiuso, sordo, estraneo”.

Tutto ciò spiega molto, ma non tutto. La forte presa di populisti e sovranisti sulle fasce più fragili e meno istruite della popolazione, tra quanti non percepiscono un futuro per sé e per i propri figli, si deve anche alla maggior efficacia del messaggio politico messa in campo da questi movimenti. I “social-populisti” disegnano una prospettiva di assistenzialismo senza limiti.

La destra sovranista incontra invece questa umanità sofferente perché è in grado di offrirle una narrazione e una speranza, per quanto farlocche. “America first”, “Make America great again”, “Prima gli italiani”: la Nazione come rifugio dal mondo, materiale e identitario. Quando il presente e ancor più il futuro si accompagnano a un’idea di “sempre peggio”, le speranze di miglioramento vengono reinvestite nella mitizzazione di un passato che ci consola con la tradizione.

È la “retrotopìa” descritta (e battezzata) da Zygmunt Bauman e prima di lui tratteggiata da David Lowenthal, particolarmente calzante per descrivere la condizione psicologica di un paese come il nostro, immobile da oltre vent’anni, in cui da tempo si è smesso di investire sul futuro e in cui la paura di perdere il benessere acquisito è diventato il sentimento prevalente: assediati dal senso di perdita e dai cambiamenti in atto, ci aggrappiamo al rimpianto di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità, aiutati dalla lente deformante della scarsa conoscenza o dalla poca memoria.

E ci sentiamo di nuovo forti: “Sottolineare che siamo stati i primi o i migliori – scrive Lowenthal -, celebrare ciò che è nostro e che esclude gli altri: la tradizione è tutta qui”. “La tradizione diventa orgoglio e finalità collettiva”, promette protezione e consente di tracciare una demarcazione tra noi (i buoni) e loro (i cattivi). Da qui nascono le politiche di “ritorno alla tribù” che incitano a innalzare muri, sigillare frontiere ed estradare stranieri (…); politiche che “preannunciano un rifugio per “noi” e odio per gli altri, per “loro”.

La sinistra non possiede una narrazione altrettanto semplice e suggestiva, non ce l’ha più. Finito il mito della rivoluzione proletaria, tramontato il sol dell’avvenire. Il riformismo mal si concilia con l’utopia. Noi abbiamo una sola possibilità: tornare ad essere quelli che concretamente si spendono per migliorare le condizioni di vita delle persone. Interessarcene, condividerne la fatica, e poi cercare di cambiare le cose, trovare politiche che offrano stabilità e prospettive, far sì che la vita non sia una giungla.

Tre sono le priorità che mi sento di proporre. La prima è il lavoro. “Se vogliamo pensare le nostra società in modo diverso – dice Papa Francesco – abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitosi e ben remunerati, specialmente per i nostri giovani”. In queste semplici parole, a me pare, c’è quasi tutto ciò che la sinistra dovrebbe fare per ritrovare la propria ragion d’essere.

Che non coincide però con il mero recupero della propria tradizione. Mettere il lavoro al centro della propria agenda non significa ripartire sic et simpliciter dalla “centralità del conflitto di lavoro”, ma assumere fino in fondo le trasformazioni che stanno rivoluzionando i ruoli, i tempi, le modalità e le relazioni del lavoro.

Non è vero che il conflitto sia evaporato: se un lavoratore di un call center guadagna meno di 3 euro l’ora, il conflitto non solo esiste ma conosce nuove e più dolorose trincee; in moltissimi casi la gig economy produce una compressione dei diritti e delle retribuzioni a livelli preindustriali, e a questo si accompagna una precarizzazione sempre più estesa del lavoro. Ma il quadro è più complesso, a partire dal venir meno di condizioni rigidamente definite. Il proliferare del lavoro autonomo, la frequente trasformazione di operai in piccoli imprenditori, la dimensione sempre più rilevante dell’impiego a tempo determinato, l’impatto delle nuove tecnologie e la diffusione dello smartworking.

Quello del lavoro non è più un universo interpretabile – o non solo - con la lente del conflitto di classe. Anche il Papa sottolinea la necessità di creare posti di lavoro. E i posti di lavoro vengono creati dalle imprese e dagli imprenditori. In un’economia di mercato la competitività delle imprese è la condizione per la crescita e per la creazione di nuovi posti di lavoro. Che devono essere “dignitosi e ben remunerati”, ma che innanzitutto devono esistere. Mettere il lavoro al centro dell’agenda politica significa con ciò assumere la rappresentanza di chiunque viva del proprio lavoro (nonché di chi aspira ad avere un lavoro), nella dimensione pubblica ma soprattutto nel mercato; e nel complesso operare perché produttività, competitività, buona occupazione ed equa remunerazione del lavoro possano crescere insieme.

È una visione del mondo: contrapposta ai privilegi della rendita, al predominio della finanza ma anche a chi prefigura la fine del lavoro e la sua sostituzione con una pioggia di sussidi. Rispetto all’attuale posizionamento del Pd – primo partito solo tra i pensionati – si tratterebbe di un grande rinnovamento, che non può che puntare a una forte alleanza tra pubblico e privato, tra Stato e mercato; un rinnovamento talmente significativo da marcare l’identità stessa del partito, che vorrei si connotasse con decisione intorno ai temi di un (nuovo) laburismo. Di fronte alle grandi trasformazioni del nostro tempo, dalla globalizzazione alla rivoluzione digitale, un partito del lavoro e dei lavoratori – oltre le classi – può rappresentare l’elemento di solidità, di equilibrio e di cambiamento di cui la società italiana ha bisogno.

Poiché per parlare di lavoro non si può che partire dalla scuola, la seconda priorità dev’essere l’istruzione. La qualificazione dei percorsi formativi – dalla primissima infanzia all’università – non è però solo il requisito per la creazione di competenze adeguate e per una maggiore competitività del nostro sistema produttivo: l’accesso universale ad una buona formazione pubblica è il primo strumento di uguaglianza tra i cittadini, il più efficace meccanismo di (ri)attivazione dell’ascensore sociale.

E ancora: se è vero che la carenza di istruzione è uno dei principali fattori di vulnerabilità e di insicurezza – e non a caso caratterizza le persone e i segmenti sociali che manifestano maggiore disagio di fronte alla complessità delle trasformazioni a cui siamo esposti – allora investire sull’educazione significa contrastare le condizioni che alimentano il populismo e rafforzare la democrazia.

Infine il buon funzionamento dello Stato. “Più che la globalizzazione” - ha scritto nei giorni scorsi Marco Bentivogli – l’inefficienza del nostro Stato è garanzia di immobilismo e disuguaglianze”. L’esigibilità dei diritti fondamentali richiede che lo Stato funzioni. E perché questo accada è necessario vincere resistenze, rendite e corporativismi, formare e riconoscere le competenze, premiare il merito: non proprio ciò che ci ha caratterizzato negli ultimi decenni. Anche qui, dunque, serve una svolta.

Lavoro, istruzione, trasformazione dello Stato. Questi obiettivi investono il ruolo e il posizionamento del partito prim’ancora che la funzione di governo, ribadendo che le due cose non possono coincidere. E proprio al partito compete, anzitutto, ritrovare l’empatia che è mancata in questi anni.

Riconoscere la sofferenza per potersene fare carico; comprendere che alcuni temi agitati dalla destra – il bisogno di protezione, la richiesta di sicurezza, una diversa gestione dell’immigrazione, la cura delle tradizioni territoriali e nazionali – corrispondono in realtà a istanze reali delle componenti più fragili della popolazione, e non possono quindi essere derubricati come temi di destra, ma meritano rispetto e risposte. Per ritrovare quel popolo, riconquistarne la fiducia e il consenso.

Non c’è molto tempo. Come ha scritto Massimo Giannini, “ora che l’economia subisce i morsi devastanti della pandemia (…) rischiamo in politica lo stesso dramma che stiamo vivendo con il Covid: l’arrivo di una seconda ondata del populismo”. Per l’Italia sarebbe esiziale. La sinistra ha dunque il compito e la responsabilità di evitare che possa accadere.

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