Tutti o quasi tutti abbiamo visto l’assalto al Campidoglio di dimostranti incitati appena prima da Donald Trump. Sappiamo come è andata a finire.
Cinque morti.
Cinque vite da vivere finite sul marmo bianco di una morgue di Washington D.C.
Ma come si erano trovati lì tutti così convinti tutti così motivati?
Beh, semplice.
È bastato un tam tam social dei followers (un tempo si sarebbe detto sostenitori) di Donald Trump, che da mesi reclamava brogli alle elezioni. Ogni giorno più volte al giorno.
E dove? Ovviamente sui social.
Facebook e Istagram colossi della comunicazione che fanno capo a Mark Zuckerberg, che dal loro uso ottiene ricavi miliardari in dollari, così come Twitter fa capo a Jack Dorsey.
Tutte piattaforme con regole assolutamente condivisibili, ma che raramente sono fatte osservare quando davvero servirebbe se è vero come è vero che gli hate speeches, i discorsi d’odio e non solo, sono sempre più diffusi e oggetto di diffusione esponenziale.
Ma, debbo dirlo, spesso le testate che postano sui medesimi social sembrano rinforzare e acutizzare l’aggressività naturale di ciascun utente (nel numero ormai di miliardi) in un pericoloso gioco alla “ciccio mi tocca, toccami ciccio” .
Ogni visualizzazione è denaro in più in raccolta pubblicitaria et pecunia non olet, si sa.
Ma il meccanismo ha ora mirato al cuore della democrazia più grande del mondo e anche Zuck si è spaventato.
Chiusi tutti gli account di Trump. In un battibaleno.
E legittimamente.
A casa sua Zuck fa quel che vuole.
Ma il problema, a parer di chi scrive, non è il messaggero né il messaggio, ma lo strumento che elimina ogni filtro tra i cittadini e il politico, che a prescindere dalle proprie abilità e conoscenze fa centro solo quando diventa personaggio.
Quanti hanno costruito la propria fortuna su questa disintermediazione?
Epperò.
Come hanno mostrato i gravissimi accadimenti nella capitale americana i filtri comunicativi, che sono cose ben diverse dalla censura, invece servono.
Drenano. Raffreddano animi incandescenti.
Impediscono l’autolesionismo.
E in passato hanno impedito o rallentato deflagrazioni sociali anche peggiori di quella di Capitol Hill.
Eggià. Per occuparsi del bene comune bisogna avere idee saperle attuare e saperle comunicare.
Ma tutto ciò attraverso opportune mediazioni, che siano garanzia di riflessione e temperanza, oltre che di pluralismo.
Sempre attuale dunque l’insegnamento di Seneca nelle lettere a Lucilio. La cultura è come una riflessione intima: nessuno si mette a riflettere in mezzo alla piazza.
Neanche virtuale, aggiungo io.
Dal che l’unico disinnesco di questa tragica deriva io la vedo nello studio dei giovani.
E nel sacrificio degli insegnanti.
Due categorie così neglette eppure così indispensabili alla società tutta.
Pensateci.
Anche quando commenterete questo articolo una volta che sarà divenuto post.
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