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L'intervista

Isabella sensibilizza all’ambiente coi social e con passione

Isabella Forchini, classe 1999, è una giovane ambientalista bergamasca, studentessa di “Events Management” all’Università di Breda e ha realizzato un grande progetto sui social network

Le case raccontano storie. I luoghi che scegliamo, come li rendiamo nostri e sono i luoghi, più che le parole a raccontare la storia di Isabella Forchini, classe 1999. Ci incontriamo su Zoom: lei dall’Olanda, io dall’Italia. Isabella frequenta il secondo anno di Events Management all’Università di Breda con specializzazione in Social Innovation. Il suo interesse da sempre è l’ambiente. Passione che l’ha portata a realizzare un progetto di sensibilizzazione sui social network, su cui le abbiamo fatto qualche domanda.

Come è nata l’idea del progetto?

Ho sempre usato i social come divulgazione e come uno strumento per sensibilizzare. Credo che coinvolgere le persone e usare il proprio network sia fondamentale. Prima di questo progetto, ho svolto numerose ricerche. A un certo punto avevo da una parte questo peso emotivo, dall’altro questa mia voglia di comunicarlo con le persone. Ci ho pensato un paio di settimane a questa idea, ossia una campagna di sensibilizzazione social della durata di 3 settimane, con attenzione alla deforestazione e alla preservazione delle comunità indigene. In realtà questo progetto è il frutto di anni di interessamento generale, questa necessità di portare l’argomento online è stata sia diluita del tempo, sia immediata. Il giorno in cui ho registrato il primo video, mi sono svegliata la mattina e ho detto: “Oggi è quel giorno”. Ho realizzato il video e l’ho postato.

Quali sono state le prime reazioni?

Il primo video inaspettatamente è stato molto ricondiviso. Non mi aspettavo così tanto riscontro. La difficoltà con i social è che è necessario diluire le informazioni. Una cosa però l’ho notata: se posti troppo e quotidianamente, soprattutto in relazione a certe tematiche “importanti”, le persone smettono di seguirti se non sei influencer. Però altri invece sono rimasti molto entusiasti e mi hanno chiesto altri contenuti.

Perché la scelta di dare all’argomento così ampio del cambiamento climatico un’ottica diversa, ossia quella delle popolazioni indigene?

Ho deciso di trattare questo argomento perché penso che senza una giustizia sociale non si possa avere una giustizia climatica, a parità di sesso, di genere, di diritti, di uguaglianza. Secondo, perché le persone indigene sono la chiave per comprendere e capire la natura. Loro potrebbero essere la chiave per la comprensione del problema e la rispettiva soluzione. Ultima: io sono nata in un piccolo paese della provincia di Bergamo e fortunatamente a casa mia abbiamo un grande giardino pieno di piante e animali e mia mamma mi ha sempre insegnato a prendermi cura di loro. Mi rendo conto che ho sempre visto mia mamma come una persona indigena: lei ha sempre dato se stessa per la natura, senza mai chiedere nulla, questo è il succo delle persone indigene: loro non prendono mai più di quello che possono dare indietro.

La tua è stata una scelta particolare. Non solo di taglio, ma anche di narrazione: quella di portare un punto di vista diverso, atto fondamentale per comprendere realtà diverse dalle nostre.

Attualmente sto leggendo “A field guide to climate anxiety”, un libro che spiega come approcciare il problema del climate change nel quotidiano. Fondamentale è non prendere una parte troppo estrema, ma mediare. Cercare di entrare nei panni di molte persone, di tenere il focus sulle popolazioni indigene e portare il loro punto di vista nell’ottica della nostra società, di cui faccio parte anch’io. È un esercizio fondamentale per riconoscere l’opinione degli altri, senza considerarsi onniscienti. Un esempio: in Brasile la piantagione di soia è una delle maggiori cause di deforestazione. Mi sono imbattuta in un’intervista di un coltivatore di soia, il quale non vedeva il problema della deforestazione: è il suo lavoro, deve sfamare la sua famiglia. Mentre la persona indigena vede l’abbattimento di alberi in maniera diversa. Ma quando si tratta di questi problemi, è importante prendere in considerazione tutti i punti di vista. A vedere l’altra prospettiva. Altrimenti non arriverai mai a una soluzione.

fridays for future

A proposito di punti di vista che filtrano realtà diverse. Tu sei nata in un paesino della provincia di Bergamo. Quanto ha modificato la tua visione e quindi la tua realtà?

Da una parte ho preso tanto dalla provincia, dall’altra, sono sincera, mi è sempre stato un po’ stretto. E anche in ottica lavorativa, questo potrebbe limitare il tuo futuro. Comunque mi porto con me tanti insegnamenti dal mio paesino e dall’Italia e questo fa la differenza quando ti ritrovi in una grande città con molte persone. Questi insegnamenti sono stati fondamentali per me.

Il tuo progetto rientra nel vasto mondo dell’attivismo e si lega a un’altra tua passione, ossia la fotografia. La fotografia e l’attivismo sono strettamente unite, si potrebbe quasi dire che una completi l’altra.

La fotografia è il mezzo migliore per comunicare: con un’istantanea del momento rappresenti emozioni e colori. La fotografia ha una forza impressionante: la vedi e la capisci subito. La fotografia va a braccetto con l’attivismo. Sono sempre stata un’attivista fin da piccola, mia mamma infatti continua a ripetermi che sono nata nel periodo sbagliato, che i miei anni sarebbero stati gli anni Sessanta. Ho sempre avuto questo spirito di attivismo e di giustizia. Con il passare degli anni sono cresciuta e mi sono approcciata alla fotografia. Ho iniziato ad andare alle proteste quando ho iniziato l’università in Italia e con me ho sempre portato una macchina fotografica. Qualche mese fa mi sono recata ad alcune manifestazioni di Black Lives Matter in Italia ho fatto qualche foto e ho aperto la mia pagina @isabellalens. Adesso sto diventando fotografa ufficiale del gruppo Extinction rebellion di Breda: gruppo che organizza proteste per sensibilizzare riguardo al cambiamento climatico.

Quale è stata la tua prima manifestazione?

A Padova, Fridays for Future nel giorno di protesta mondiale. Eravamo penso 20.000 persone, c’erano tantissimi studenti, adulti e famiglie. È stata un’esperienza molto grande, in una città enorme e da sola.

Cosa consigli a chi vorrebbe andare per la prima volta a una manifestazione?

Non ci sono regole base, però ecco qualche suggerimento. Fondamentale è capire come si svolge la manifestazione e se è in linea con i tuoi valori. Per esempio, quando sono andata a BLM a Milano, me ne sono andata quando la manifestazione ha iniziato a prendere una piega violenta. Secondo me una manifestazione per essere davvero efficace non deve essere violenta, ma pacifica o se no il tuo messaggio prende completamente una strada diversa. Un altro fattore molto importante: capire se te la senti di andare, perché se la paura ti frena forse è meglio non andare. E se non te la senti, non devi sentirti in colpa: ci sono molti modi per intervenire e contribuire. Ci sono tanti modi per fare attivismo.

Spostiamoci dalla tua passione per l’attivismo e la fotografia, alla tua situazione attuale. Adesso vivi e frequenti l’università in Olanda. Quando hai preso questa decisione?

Lasciata l’università in Italia, avevo un sogno: quella di vivere una città all’estero. Ho fatto molte ricerche e ho trovato una facoltà di Events Management, corso che nel nostro Paese non esiste. Allora mi sono armata di tanto coraggio e pazienza e sono partita. Vivo qua da un anno e mezzo. E vedo tante differenze: la maggiore è che l’Italia è molto basata sulle tradizioni, mentre l’Olanda è dirottata verso l’innovazione: è aperta alle culture, alle sperimentazioni. Però il valore riconosciuto alla famiglia e alla tradizione è molto meno forte e questo mi manca.

Questa divisione fra tradizione e innovazione è visibile anche nel sistema universitario. Tu che hai avuto entrambe le esperienze, quali sono le differenze maggiori che hai riscontrato?

Le differenze purtroppo sono abissali. L’Italia mi ha preparato molto sul metodo teorico, di studio, cosa che raramente ho trovato negli studenti olandesi e stranieri che ho conosciuto. Dall’altra parte ho vissuto 6 mesi di Università in Italia: sei in aule grandissime, il professore ti chiama per un numero, studi per un esame di dieci minuti. In Olanda le classi sono di 30 persone, il professore vuole avere un contatto con te, vuole capire chi sei e ti vuole seguire e nel farlo mostrano un interesse genuino. L’Università offre anche dei counselor, per qualsiasi tipo di problema. Inoltre, il mio corso è pratico, quindi applicato immediatamente tramite progetti. Per esempio, l’anno scorso ho realizzato un progetto di business innovation al primo anno per la squadra di calcio a Eindhoven, una delle più famose dell’Olanda. Qui non importa ciò che una persona sa, o i voti, ma ti vengono date le possibilità per fare e metterti alla prova. Qua danno molto valore alla rete di contatti che una persona si crea. Sono metodi diversi, qua è più pratico ed è quello che si addice di più a me.

La tua è un’Università Internazionale. Come è relazionarsi con persone che provengono da tutto il mondo?

A volte dimentico che c’è una differenza culturale, cosa che deve essere presa in considerazione. Per esempio, gli olandesi sono super schietti e all’inizio questo può essere destabilizzante. Interagire con essere umani da tutto il mondo ti arricchisce in maniera incredibile, allarga la tua persona. Questo ti renderà una persona che sa portare persone insieme, avvicinare le persone e creare conservazione. E questa connessione di tutte le età, di diversi paesi è il punto di forte della mia istruzione qua in Olanda. La comunicazione è fondamentale per ogni dinamica sociale.

Oltre all’Olanda, che è la tua città attuale, molti altri luoghi hanno segnato la tua persona. Tu hai viaggiato molto, quali sono stati i tuoi viaggi più importanti?

Sono cresciuta fortunatamente in una famiglia molto aperta: mio papà ha sempre lavorato in giro per l’Europa, come mio nonno. Anche mio fratello è all’estero. Sono cresciuta viaggiando, all’interno di questa famiglia curiosa e aperta e una curiosità innata. Quando ero alle superiori, al liceo linguistico, sono sempre stata un lupo solitario e ho sempre preferito fare viaggi in solitaria, evitavo i viaggi di gruppo. Questo perché ho sempre voluto vivere il mondo sulla mia pelle, come volevo io, dove volevo io. Quando ho iniziato a essere più indipendente, un viaggio sicuramente importante è stato in Islanda nel 2016/2017: è stato uno dei viaggi più belli della mia vita. Ho visto nella cultura un attaccamento e un rispetto alla natura unico. Un altro viaggio molto importante è stato a 17 anni in Interrail. Austria, Germania, Danimarca, Francia. Il 2017 è stato un anno ricco di viaggi significanti, esperienze che hanno segnato la persona che sono adesso.

Se avessi preso scelte diverse nel passato, che Isabella saresti oggi?

Credo fortemente che tutto sia successo per portarmi qua a fare quello che sto facendo adesso. Ma se il destino avesse voluto altro, starei ancora studiando astronomia in Italia per arrivare un giorno alla stazione spaziale europea. Questa passione per l’astronomia è andata un po’ scemando, ma un’altra versione di me probabilmente avrebbe scelto quella strada.

Dove ti vedi fra dieci anni?

Ho dei piani in mente, so per certo che non voglio stare in Olanda o tornare in Italia. Mi piacerebbe esplorare il Canada. Voglio vivere in un posto dove la natura ha un valore importante, dove ci siano anche opportunità per il mio futuro e quello della mia eventuale famiglia. Fra 10 anni spero di essere all’inizio con un’eventuale famiglia con una casetta in Canada, a lavorare per qualche associazione per la salvaguardia dell’ambiente. Per adesso mi immagino così, magari cambierò idea. Allo stesso modo di come sono passata da Astronomia a Events Management.

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