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L'intervista

Psicologia, videogiochi e università: la nuova frontiera della didattica

Federica Pallavicini, professoressa a contratto di psicologia della comunicazione in UniBG e autrice di “psicologia della realtà virtuale” edito da MondadoriUniversità, ci ha spiegato come l’accostamento tra scuola ed educazione sia tutt’altro che forzato.

Scuola e videogiochi sono due concetti che generalmente mal si amalgamano nella concezione comune delle persone.

L’una è infatti il luogo per eccellenza dove ognuno di noi, in differenti fasi della vita, ha faticato, si è concentrato ed ha lavorato sodo per raggiungere traguardi importanti e per acquisire competenze sempre più approfondite, mentre gli altri sono passatempi che, per quanto divertenti, poco hanno a che fare con il lavoro, la fatica e soprattutto con la didattica.

Sempre più ricerche scientifiche sembrano però dimostrare l’esatto opposto e l’educazione di tipo “videoludico” si sta piano piano inserendo nei piani didattici delle più importanti scuole di tutto il mondo.

Per capire un po’ meglio questa rivoluzione educativa abbiamo chiesto a Federica Pallavicini, giovane professoressa a contratto dell’università di Bergamo, di spiegarci un po’ meglio cosa si nasconda dietro a tale rinnovamento.

Per alcuni i videogiochi sono fidati compagni che permettono di vivere fantastiche avventure, mentre per altri una banale perdita di tempo. Per lei cosa rappresentano?

I videogiochi sono da sempre una fra le mie più grandi passioni. Penso rappresentino una delle forme artistiche più interessanti ed innovative di quest’epoca, oltre che un importante fenomeno sociale e culturale. Come per molte altre persone, i videogiochi sono poi un momento per ritagliarmi durante la giornata un attimo per distrarmi e per vivere emozioni positive. Credo che ciò non sia affatto da poco in quanto – come dimostrato ad esempio dalla teoria Broaden and Build di Barbara Fredrikcson – provare emozioni come gioia e sorpresa ha importanti effetti positivi a livello psicologico.

Molto spesso l’essere videogiocatori incalliti non coincide con l’essere studenti modello, durante i suoi anni sui libri come se la cavava?

Sin da piccola ho sempre amato videogiochi e libri più o meno allo stesso modo. C’è da dire che, come la maggior parte delle persone, ho sempre giocato per un tempo limitato: si parla di circa 12/15 ore a settimana. In questo caso anche la ricerca scientifica indica un possibile effetto positivo del gioco a livello per esempio di abilità attentive, matematiche e linguistiche. Altro discorso va fatto per coloro che utilizzano i videogiochi all’eccesso. In questo caso può diventare un ostacolo rispetto allo studio. Come ogni cosa, il troppo danneggia.

È sufficiente fare un breve ricerca su Google per leggere decine e decine di studi che descrivono scientificamente i benefici che i videogiochi portano alla mente. Crede che in futuro potranno essere sfruttatiti per una didattica più efficace?

Assolutamente sì, se andiamo a guardare al panorama mondiale ci sono già moltissime scuole che utilizzano alcuni videogiochi, talvolta anche famosi, per la didattica. Per esempio, Minecraft ha addirittura una versione dedicata agli insegnanti creata appositamente per essere utilizzata all’interno della scuola. Ciò è fatto per stimolare gli alunni in tutte quelle competenze che vengono definite come trasversali: la creatività, la capacità di affrontare i problemi e la collaborazione insieme ai compagni. A queste poi vanno aggiunte competenze specifiche come fare calcoli matematici o imparare la storia; addirittura ho visto un mondo di Minecraft in cui degli studenti, nelle sole ore scolastiche, hanno ricostruito tutta la storia dell’umanità, dalla preistoria ad oggi.

Ricerche scientifiche dimostrano che apprendere in modo esperienziale è molto più utile di uno studio svolto in modo prettamente teorico. I videogiochi sono utili in questo senso in quanto permettono di fare esperienza diretta.

È anche vero però che da qualche anno il DSM-5, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, annovera l’Internet Gaming Disorder tra le dipendenze che colpiscono maggiormente i giovani.

Quali possono essere a suo avviso i lati oscuri di tale attività?

Prima abbiamo accennato a come una quantità limitata di ore di gioco possa influire positivamente sul rendimento scolastico di una persona, ma ciò chiaramente non vale per coloro che utilizzano il gioco come modo per evitare di uscire con altre persone o per cercare un conforto da problemi più profondi. Sinceramente vedo difficile che una persona, solamente perché gioca tanto, trovi dei problemi nella vita di tutti i giorni. E’ più probabile che tale comportamento si leghi a condizioni importanti di sofferenza mentale, come ad esempio disturbi d’ansia o del tono di umore. La chiave probabilmente sarebbe istruire ed educare le persone ad un utilizzo intelligente del mezzo, dando il videogioco giusto nel momento corretto ed evitando di sottovalutare la cosa dando per esempio “GTA” ad un bambino di 6 anni. In quel caso è chiaro che l’individuo non ha ancora le capacità per comprendere e per poter utilizzare lo strumento. Il problema non è nel videogioco in sé, ma nella sua conoscenza e utilizzo corretto.

Com’è nata l’idea di unire la psicologia della comunicazione ai videogames?

L’idea nasce dal mio percorso di studi. Dopo psicologia ho fatto il dottorato in scienze della formazione in Bicocca e già 10 anni fa in quell’ambito si iniziava a capire come i “game” potessero essere applicati all’ambito educativo e formativo. Tale idea deriva sicuramente da una tradizione che mi è stata data da colleghi molto importanti in questo settore, tra cui Luigi Anolli con cui ho avuto la fortuna di lavorare per pochi mesi prima che mancasse. Quello che faccio oggi con gli studenti è discutere degli effetti che hanno sulle persone a livello psicologico videogiochi, realtà virtuale e altre tecnologie.

Come hanno risposto gli studenti?

La risposta è la cosa più bella, vedo davvero un forte interesse e molti sono piacevolmente sorpresi del fatto che anche in classe parliamo di cose che li riguardano. Sono curiosi e coinvolti, devo dire che ciò mi rende molto felice.

Ha notato differenze tra il coinvolgimento maschile e quello femminile, comunemente visto lontano dalle passioni videoludiche?

A livello mondiale i dati parlano di una divisione che si aggira intorno al 50 e 50 con una piccolissima prevalenza maschile. Ciò che cambia, e che può ingannare chi s’interessa solo superficialmente al fenomeno, sono le modalità di utilizzo dei videogiochi. Quando chiedo in classe “voi giocate?” molte ragazze rispondono negativamente. Se poi si corregge il tiro aggiungendo “e sul cellulare non vi capita mai?” allora le risposte diventano affermative con addirittura studentesse che affermano di giocare tutti i giorni. Molto più raro, anche se esistono tante eccezioni, è trovare giocatrici su pc o console in giochi più action o RPG, ma per quanto riguarda l’interesse in classe noto moltissima curiosità anche da parte loro.

Un progetto a cui molte società stanno lavorando negli ultimi anni è quello dei visori per la realtà aumentata: calando tali oggetti nel campo educativo, crede che nel futuro potranno portare un qualche tipo di miglioramento nella didattica?

La realtà aumentata è una tecnologia che ha un effetto importante anche a livello dell’apprendimento poiché la nostra mente, detta “incarnata”, apprende molto più facilmente dal mondo esterno attraverso un’esperienza diretta e “corporea”. Se tale modalità viene dunque traslata in ambito didattico ci può facilitare molto il processo di apprendimento proprio perché è più vicino al nostro metodo naturale.Già tanti libri scolastici integrano immagini in realtà aumentata che tramite un’app permettono allo studente di vedere ciò che sta studiando tramite il suo smartphone.

Crede inoltre che possano portare benefici ai ragazzi con difficoltà di apprendimento o disabilità?

Sicuramente il discorso è interessante. Oggetti di questo tipo permettono infatti a chiunque di apprendere nel modo più funzionale e personalizzato possibile. Esistono musei che hanno creato interi percorsi per persone con disabilità, per esempio, esistono audioguide in realtà aumentata totalmente fatte con il linguaggio dei segni per coloro che hanno difficoltà uditive o estremamente descrittive per chi ha problemi alla vista. È chiaro dunque come la tecnologia possa permettere a chiunque di ricevere un’informazione nel modo più corretto e idoneo per lui.

Videogiochi e violenza sono due concetti che paiono inscindibili nella concezione di molti, soprattutto fra gli adulti. Crede che le console abbiano il potere di promuovere certi tipi di comportamenti?

No, non lo penso. Per me sarebbe come dire che un libro o una particolare musica può incentivare le persone a far del male a delle altre. La questione di fondo è probabilmente una grossa confusione sul termine “videogioco”. Molte persone pensano che un videogioco sia associato alla violenza perché per loro esiste solo “GTA”, “Call of Duty” o “Doom”. In realtà sono presenti moltissimi generi di videogiochi, non riuscire ad uscire da questo stereotipo crea davvero molta confusione.Oltre a questo è stato provato scientificamente come non esista alcuna relazione diretta tra giochi considerati “violenti” ed aggressività del fruitore. Molte ricerche fatte in passato erano parziali poiché si fermavano all’effetto immediato che il videogioco esercitava sull’individuo. È una reazione umana normalissima rispondere a livello emotivo proporzionalmente a quanto ci viene mostrato da un media, succede anche nei film romantici o negli horror. E’ dunque normale che giocando a qualcosa di forte le reazioni a breve termine siano un aumento dei livelli percepiti di aggressività. Un conto è però l’effetto nel breve periodo, mentre un altro, ed è quello che interessa davvero, è quello che succede dopo mesi o anni di esposizione. Ad oggi la scienza, grazie anche a un articolo pubblicato a riguardo sulla rivista Nature nel 2018, ci dice che non cambia assolutamente nulla.

Giocare ad un videogioco nel 2020 significa vivere sulla propria pelle una storia vera fatta di emozioni forti e totalizzanti, colpi di scena inaspettati e personaggi carismatici. Come può agire questo sull’identità del videogiocatore?

In questo senso sono stati fatti degli studi che hanno notato un fenomeno, denominato “effetto Proteo”, che avviene quando noi assumiamo un avatar in un mondo virtuale. In pratica il giocatore tenderà a comportarsi per come appare il suo personaggio e dunque se impersonerò un individuo particolarmente attraente sarà più facile per me relazionarmi con gli altri utenti, viceversa con un avatar meno attraente. Incarnarsi in un personaggio significa dunque assumere il suo punto di vista e questo può essere positivo, poiché ci dà modo di metterci nei panni degli altri per riflettere su aspetti legati all’empatia. Per esempio, c’è un gioco che si chiama “Detroit: Become Huaman” in cui io assumo contemporaneamente il punto di vista dell’oppressore e della vittima androide. Io giocatore sarò continuamente costretto a spostarmi da una parte all’altra e ciò mi spingerà a riflettere sulla possibilità che non possa esistere una visione univoca del mondo. D’altro canto è stato visto che la personalità di un individuo influenza il modo di giocare, si può dire quasi “dimmi come giochi e ti dirò chi sei” perché a seconda delle motivazioni o degli atteggiamenti in gioco possono far capire molti tratti celati della personalità

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