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L'intervista

Il ruolo dei social nell’attacco al Congresso

Aldo Cristadoro, amministratore delegato e fondatore di InTwig e docente di metodi digitali, spiega: "L'uso poco consapevole ha accelerato il processo di crisi della democrazia occidentale che era già in atto".

Un assedio senza precedenti, un attacco alla culla della democrazia americana: nel pomeriggio di mercoledì 6 gennaio, la sera italiana, la frangia più estrema dei sostenitori del presidente Donald Trump ha fatto irruzione nel Campidoglio che si stava apprestando a certificare il successo elettorale di Joe Biden.

È la deriva improvvisa presa da una giornata di tensione che, per buona parte, si è giocata online, a colpi di tweet, lanciati prima, durante e dopo quella che senza troppi giri di parole è stata definita “un’insurrezione”.

Proprio l’uso ambiguo dei social network è una delle accuse più ricorrenti rivolte al presidente Trump che, anche nella folle giornata di mercoledì, ha strizzato comunque l’occhio a chi ha guidato la rivolta.

Un intreccio, quello tra social e politica, sempre più stretto: ne abbiamo parlato con Aldo Cristadoro, fondatore e amministratore delegato di InTwig e docente di Metodi Digitali che da anni si occupa di opinione pubblica.

Cristadoro, nell’ultimo decennio la politica ha scelto con forza la via delle nuove tecnologie, e dei social in particolare, con pro e contro: cosa è cambiato?

I social sono diventati ormai uno strumento cardine per ogni campagna elettorale, pareggiando quella centralità che dagli anni ’70 in poi ha assunto la televisione, che a sua volta aveva sostituito o integrato giornali e radio, con uno stile diverso. La tv ha messo in campo volti nuovi e sorridenti, da Kennedy a Clinton, da Blair a Berlusconi. Un nuovo stile poi minacciato dai social che hanno precise regole e caratteristiche e che hanno contribuito a una parziale modifica del messaggio veicolato: sempre più breve, semplice, accompagnato da immagini e sempre più di impatto. Non a caso la comunicazione di Donald Trump, più che “pop”, è stata definita “punk”. Il processo, da stampa e radio alla tv e dalla tv ai social è più o meno lo stesso, ma sono cambiati gli strumenti e la velocità con la quale si è completato: la tv ci ha messo decenni, i social pochi anni.

Quali sono i rischi di questo processo?

Siamo abituati in modo erroneo a fare una netta divisione tra ciò che è “online” e ciò che è “offline”, convinti che ci sia un mondo reale e un mondo virtuale. Ma il mondo virtuale ha ormai una componente quasi fisica, che ci porta nel nostro quotidiano a confrontarci con degli algoritmi senza nemmeno accorgerci. Il confine è sempre più labile. C’è un esempio che faccio spesso, ed è quello della ricerca dei contenuti che in fin dei conti ci racconta: prima si andava in biblioteca e si consultava uno schedario, ora i contenuti non sono più catalogati a mano ma tutti organizzati automaticamente da una macchina.

Anche la profilazione dell’utente a fini politici è sempre più precisa.

La profilazione di consumatori e utenti è una cosa che si fa dal dopoguerra in poi, non nasce di certo coi social. La pericolosità, ancora una volta, sta nella velocità con la quale avviene e nella capillarità degli strumenti. Ed è un po’ quello che è successo con lo scandalo Cambridge Analytica.
Da non sottovalutare nemmeno l’effetto echo-chambers che si crea online: i contenuti, dicevamo, vengono gestiti da un algoritmo, che impara dalle tue ricerche e sceglie quali mostrarti e come mostrarteli. Così ci sembra sempre che tutti siano d’accordo con le nostre idee, anche le più assurde: non vediamo versioni differenti, perché il nostro comportamento viene registrato e viene creata una realtà virtuale coerente con esso. Ed è così che alcuni regimi totalitari hanno consolidato la propria posizione di potere: lo erano già prima, ma questo processo social li ha aiutati a essere più efficienti. Nel caso specifico americano l’algoritmo ha polarizzato due bolle di opinione, ha creato il mondo Trump e il mondo Biden, senza la possibilità di metterli in contatto e quindi di capirsi. Così le posizioni sono state estremizzate, annullando la via di mezzo.

Questi strumenti, secondo lei, stanno mettendo in crisi la democrazia?

Vale ciò che stavamo dicendo poco fa: la democrazia occidentale era già in crisi prima della diffusione così capillare dei social network che, inevitabilmente, ora hanno accelerato quel processo.

I fatti di Washington possono essere considerati la deriva di un uso poco consapevole o sconsiderato dei social?

Washington è qualcosa di eclatante, il punto più alto di un processo che negli ultimi anni ha visto tutte le istituzioni venire un po’ meno del loro ruolo. L’intermediazione dei social le ha mandate in sofferenza, facendo passare il messaggio che sia del tutto legittimo che una serie di manifestanti irrompano al congresso. Può essere il risultato dell’uso sconsiderato dei social nella misura in cui ci sono persone che non riescono a distinguere l’online dall’offline. Quello che facciamo sui social ha un impatto sul reale: qui si è prevalicato, dalla competizione social si è passati all’aggressione. Sono cose che succedevano anche senza questi strumenti digitali, ma è la loro potenza e la capacità di diffusione ad amplificarne le conseguenze. Quello che manca nelle democrazie occidentali è la capacità di reagire velocemente: pesi e contrappesi che ci siamo sempre immaginati, legittimi e fondamentali, non sono adatti alla velocità contemporanea.

Ritiene, dunque, che manchi un’educazione all’uso dei social?

Assolutamente e credo che sia fondamentale, già a partire dalla scuola e a 360 gradi: bisogna trovare dei punti comuni ed educare gli utenti alla portata che hanno questi strumenti, positiva e negativa. Già dai politici andrebbero ristabiliti i confini della convivenza legittima, perché estremizzare non va a vantaggio di nessuno. Ma, paradossalmente, la vicenda americana ci dà una piccola speranza.

In che senso?

Osservando la risposta dei social alla campagna elettorale americana osserviamo come Biden, che ha vinto in modo netto le elezioni e ha trionfato nuovamente nelle scorse ore in Georgia, in realtà ha avuto sui social un’eco bassissima. Ha investito 20 milioni in meno di Trump, 52 contro 74, raccogliendo un engagement di 4 volte inferiore a quello del candidato repubblicano e venendo surclassato sull’indice di “reach”, di 10 volte inferiore. Anche per questi numeri in molti mettevano in dubbio i sondaggi e i risultati. Questo dimostra come inizi a spuntare un barlume di anticorpo, abitudine o cautela nei confronti dei contenuti che circolano sui social: c’è spazio per leadership che non siano così urlate e che facciano invece della mediazione un valore importante. È vero anche che ci sono territori in cui quel modo di fare comunicazione è più appetibile e i risultati elettorali dimostrano come i grandi centri urbani italiani siano meno affini alla retorica, nella stessa misura in cui negli Usa grandi città e le coste siano più democratiche e le pianure pro repubblicane.

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