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L'intervista

Pizzolato: “Vaccino obbligatorio? La Costituzione offre una traccia: si può con seri limiti”

Tema delicato che affrontiamo con Filippo Pizzolato, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università degli Studi di Padova e di Dottrina dello Stato all’Università Cattolica di Milano: "Dobbiamo guardarci dalle risposte troppo semplici e da argomenti unilaterali"

Il tema dell’obbligatorietà o meno del vaccino anti Covid è di grande attualità e tiene banco non solo tra politici e ministri, ma anche tra le associazioni di categoria dei medici e operatori sanitari, nel mondo del lavoro in generale, nella scuola…

Per cercare di capire cosa prevede la nostra Costituzione ci siamo affidati a un vero esperto, Filippo Pizzolato, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università degli Studi di Padova e di Dottrina dello Stato all’Università Cattolica di Milano, da anni è impegnato nella formazione socio-politica dei giovani con la scuola We care di Bergamo. A lui abbiamo posto una serie di domande.

Allora professore: può già dirci un sì o no sul vaccino anti Covid obbligatorio?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo guardarci – come quasi sempre avviene – dalle risposte troppo semplici e da argomenti unilaterali. Potrà sorprendere – e forse anche deludere – ma tra gli stessi giuristi le risposte sono (e possono legittimamente essere) diverse.

Nella Costituzione non c’è una risposta?

Diciamo che la traccia di una risposta, e comunque l’orizzonte di riferimento di ogni possibile soluzione, deve essere la Costituzione, la quale, specificamente all’art. 32, dispone che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“. Insomma, già la Costituzione riconosce che, con legge, si possano prevedere trattamenti sanitari obbligatori. E tuttavia, questi sono come l’eccezione rispetto alla regola che è – e deve rimanere! – quella della libertà di cura (libertà, cioè, di sottoporsi o di non sottoporsi a trattamenti sanitari). Lo ha chiarito la stessa Corte costituzionale, autorevole interprete della Costituzione, la quale ha ancora recentemente affermato che il trattamento sanitario può essere imposto se “diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato” (sentenza 5/2018).

La sentenza che cita vale per tutti?

Dobbiamo fare attenzione a non estrapolare meccanicamente per gli adulti conclusioni tratte per i minori. La richiamata sentenza 5/2018 si riferiva a vaccinazioni obbligatorie per minori. In questo caso, il legislatore deve contemperare, da un lato, il diritto dei terzi alla salute, e, dall’altro, l’interesse del bambino, ma non la sua auto-determinazione (il minore ne è infatti privo), anche nei riguardi di scelte dei genitori.

L’obbligo vaccinale può essere imposto solo per tutelare la salute altrui più di quella del vaccinato?

Per gli adulti, l’obbligo è legittimo solo se necessario per evitare di mettere a rischio la salute altrui. Il trattamento sanitario obbligatorio può dunque essere previsto – con legge – solo se vi corrisponde il dovere, in capo a ogni individuo, “di non ledere né mettere in pericolo con il proprio comportamento la salute altrui” (Corte costituzionale, sent. n. 218 del 1994). Sulla base di questo criterio, anche i vaccini possono essere imposti “per la semplice ragione che, soprattutto nelle patologie ad alta diffusività, una cura sbagliata o la decisione individuale di non curarsi può danneggiare la salute di molti altri esseri umani e, in particolare, la salute dei più deboli, ossia dei bambini e di chi è già ammalato” (così il Consiglio di Stato nel 2017). In nessun caso, il trattamento può essere reso obbligatorio in quanto strumento paternalistico di protezione della salute del vaccinato medesimo. Né, a maggior ragione, deve diventare un sacrificio imposto al soggetto stesso, la cui salute venga messa a repentaglio da un trattamento non ragionevolmente sicuro.

Immunità di gregge

Non basta dunque che chi voglia proteggersi sia messo in condizioni di vaccinarsi volontariamente, senza costrizioni per chi non voglia farlo? Perché imporre a un adulto la vaccinazione?

La risposta, nella giurisprudenza costituzionale, si può trovare nel concetto di immunità di gregge. L’immunità di gregge, che si consegue con soglie di percentuali di vaccinati, raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è un obiettivo cui corrisponde l’interesse collettivo alla salute, in quanto il raggiungimento di un congruo numero di vaccinati garantirebbe protezione (indiretta) a coloro che, per motivi di salute, non possono vaccinarsi. Quando infatti una percentuale elevata (il professor Garattini, in un’intervista, ha ipotizzato che, per il Covid, possa attestarsi attorno all’80%) della popolazione è vaccinata, la profilassi va a vantaggio anche dei non vaccinati, tra cui possono esserci soggetti che non hanno scelto di non vaccinarsi, ma che, in quanto particolarmente fragili, in ragione delle loro condizioni di salute, semplicemente non possono sottoporsi a profilassi. Ecco dunque la base logica e giuridica per un possibile obbligo di vaccinazione degli adulti: la necessità di proteggere quanti non possono essere vaccinati. Ciò tuttavia, con precisi limiti e a certe condizioni.

Altrimenti?

Altrimenti, estremizzando lo stesso argomento, si dovrebbe esigere l’obbligatorietà di ogni vaccino anti-influenzale, cosa che risulterebbe sproporzionata visto il danno – assai limitato – alla collettività (ma c’è sempre qualcuno che ci rimette la vita anche per una semplice influenza…). E tuttavia, la pandemia da Covid ha risvolti disastrosi sanitari, sociali ed economici che potrebbero giustificare, entro certi limiti, questo obbligo.

Con quali limiti e a quali condizioni?

Anzi tutto, l’obbligo deve essere previsto con legge (o con atto con forza di legge), e non con d.p.c.m, ad esempio, perché il Parlamento non può essere esautorato da una decisione simile. Nemmeno si può pensare che siano i privati (datori di lavoro, compagnie di volo, etc.) a imporre di fatto obblighi vaccinali. La legge stessa deve poi basarsi su evidenze di tipo scientifico. Non è cioè ipotizzabile un arbitrio del legislatore, ma vi è la necessità della ragionevolezza delle sue scelte alla luce delle cognizioni scientifiche cui è giunta la ricerca medica. La citata sentenza 5/2018 insiste molto su questo punto, valorizzando l’importanza dell’istruttoria legislativa, che dà conto del parere di organismi tecnici, come l’OMS, l’Istituto superiore di sanità (ISS) e, per i profili etici, il Comitato nazionale di bioetica. Le scelte normative in campo sanitario non possono prescindere dalle evidenze scientifiche. La comunità scientifica deve anche poter garantire, secondo le procedure previste, la sicurezza del vaccino che va adeguatamente testato. Occorre inoltre che, quand’anche fosse resa obbligatoria, la vaccinazione sia corredata da adeguata informativa, perché i cittadini siano messi in condizioni di comprenderne la necessità e non siano trattati come sudditi su cui ricade un obbligo opaco e indiscutibile.

E come si può fare?

Occorre, e questo è il punto più delicato, che, nel definire i contorni dell’obbligo il legislatore segua un criterio di proporzionalità e cioè ne gradui l’estensione per preservare al massimo grado la libertà di cura. La libertà di cura è infatti un diritto costituzionalmente riconosciuto e non può essere sacrificato senza una corrispondente contropartita di rilievo costituzionale. Occorre cioè che il legislatore faccia ricorso allo strumento che permetta di ottenere l’obiettivo prefissato (proteggere i più vulnerabili) con il minor sacrificio possibile di altri diritti o interessi costituzionalmente protetti (tra cui la libertà di cura). Va dunque fatto un lavoro di fino, non un’imposizione generalizzata a furor di popolo…

Si devono fare delle scelte dunque.

Questa gradazione può riguardare anzitutto la sfera delle persone (le “categorie”) da sottoporre all’obbligo e la scansione temporale dello stesso (prima di un obbligo si potrebbe procedere con la raccomandazione e l’incentivazione che potrebbero conseguire comunque l’obiettivo atteso). La profilassi potrebbe ad esempio risultare particolarmente utile e necessaria per l’esercizio della professione sanitaria (medico o infermiere) o per chi lavori in residenze per anziani. Già oggi, il nostro ordinamento contempla casi di vaccinazioni obbligatorie “speciali”, previste cioè soltanto per alcune categorie di lavoratori in ragione dell’attività svolta o per particolari circostanze (ad es. antitetanica, antitifica, antitubercolare e così via). E dunque la strada è in qualche modo tracciata.

Ci sono dei precedenti chiari, dice?

Già nel 1994, a riprova di questa logica di gradualità, la Corte costituzionale (sentenza n. 218) aveva riconosciuto la legittimità dell’obbligatorietà di accertamenti sanitari “diretti a stabilire se chi è chiamato a svolgere determinate attività, nelle quali sussiste un serio rischio di contagio, sia affetto da una malattia trasmissibile in occasione ed in ragione dell’esercizio delle attività stesse“. In quel caso, che si riferiva al rischio di trasmissibilità dell’HIV, la Corte aveva stabilito che “le attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge, rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse“. E, tuttavia, pur legittimando questi accertamenti, la Corte si era premurata di precisare che non si dovesse trattare di “controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi possono essere tenuti, costituendo un onere per poter svolgere una determinata attività, sia nel contenuto degli esami“. E, per la Corte, che stabilisce così un criterio guida utile anche oggi, “gli accertamenti che, comprendendo prelievi ed analisi, costituiscono “trattamenti sanitari” nel senso indicato dall’art. 32 della Costituzione, possono essere legittimamente richiesti solo in necessitata correlazione con l’esigenza di tutelare la salute dei terzi (o della collettività generale). Essi si giustificano, quindi, nell’ambito delle misure indispensabili per assicurare questa tutela e trovano un limite non valicabile nel rispetto della dignità della persona che vi può essere sottoposta. In quest’ambito il rispetto della persona esige l’efficace protezione della riservatezza, necessaria anche per contrastare il rischio di emarginazione nella vita lavorativa e di relazione“.

Quali domande porsi per fare le scelte più corrette?

Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se la sicurezza della salute dei terzi non possa essere conseguita anche da chi non intenda sottoporsi a vaccino obbligatorio mediante accertamenti periodici (i famosi tamponi). Un’altra avvertenza che si dovrebbe garantire è la temporaneità/reversibilità dell’obbligo, che, al mutare delle condizioni e della situazione emergenziale, può essere rivalutato e rimodulato. Infine, ancora in base all’esperienza che abbiamo, deve essere previsto un indennizzo per la persona che dovesse subire conseguenze dal vaccino, quand’anche quest’ultimo rimanesse meramente raccomandato e non obbligatorio.

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