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L'intervista

“È dalla transumanza che sono nati i nostri formaggi migliori”

Un fenomeno ancora vivo alla fine del 2020, che resiste nonostante la società sia fortemente cambiata: "Soprattutto a Bergamo e a Brescia"

Partire, tornare, anno dopo anno, un millennio dopo l’altro, uomini e animali, la natura come una seconda pelle, accordandosi al procedere delle stagioni. È la transumanza, un fenomeno ancora vivo alla fine del 2020, che resiste nonostante la società sia fortemente cambiata, nonostante gli stili di vita siano completamente differenti.

Tradotta letteralmente dal latino, la parola transumanza significa ‘oltrepassare la terra’ (trans = oltre, humus = terra), ma oggi è vista in chiave moderna, quasi trendy: “La mentalità e il modo di vivere post-moderno, che con la pandemia ha subito un’accelerazione, amano trovare compensazioni in dimensioni antiche, evocatrici di condizioni percepite come più vicine alla natura – spiega Michele Corti, professore di Scienze delle politiche ambientali alla Statale di Milano -. La transumanza stimola sensazioni di grandi spazi, di passaggio di confini, di libertà, di sintonia con i ritmi (stagionali) della natura”.

Ma che cos’è la transumanza oggi, nel 2020?
“Nella cultura di massa la transumanza entra da non più di vent’anni, e oggi rappresenta un elemento storico di recuperato interesse, che corrisponde a movimenti di animali che percorrono, secondo il ciclo delle stagioni, itinerari spesso antichi. In Italia parlare di transumanza rimanda ai grandi movimenti di greggi che in passato collegavano l’Appennino centrale con la Puglia e la Maremma. Ma i grandi spostamenti lungo i tratturi sono finiti da molto tempo, non solo con le ferrovie ma anche con la coltivazione degli stessi dagli agricoltori frontisti già nell’Ottocento”.

Ma, in concreto, esiste ancora?
“Oggi la transumanza storica nel Sud è un ricordo. Qualche gregge si sposta in camion, rare mandrie di bovini podolici si spostano a piedi. Realtà molto più attuale è la transumanza dei pastori lombardi, trentini, veneti, piemontesi. Una realtà costituita da 170mila pecore in grossi greggi da circa mille l’una. Il nucleo principale è bergamasco-bresciano e la pecora in movimento è sempre quella bergamasca”.

Perché da noi è rimasta viva la transumanza?
“Perché i pastori si erano già adattati da secoli ad utilizzare i residui pascolabili di un territorio ad agricoltura intensiva. Vero che i canali, le ferrovie, le autostrade hanno creato barriere, ma il pastore ha una grande capacità di muoversi”.

Quanto e come è cambiata negli anni?
“I greggi transumanti bergamaschi sono passati da 150 capi di media consistenza di inizio Novecento ai 1000 e oltre di oggi. Devono utilizzare molti più asini (12-20) per il trasporto delle attrezzature. Il pastore da parecchi anni è munito di telefonini, mezzi fuoristrada, camper, quando sino a 50 anni fa doveva ancora dormire all’aperto di notte, in inverno, coperto solo dal mantello. Per molti aspetti il passato ritorna, ad esempio i cani da difesa dal lupo erano stati abbandonati ai tempi della prima guerra mondiale, ma oggi hanno dovuto essere re-inseriti. Il pastore transumante sorveglia le pecore giorno e notte, anche se oggi grande vantaggio è fornito dalle reti elettriche che consentono di tenere il gregge radunato e forniscono anche una difesa dai predatori”.

Per molti, oggi, la transumanza è guardare con entusiasmo una mandria di pecore che attraversano il centro abitato: ma la transumanza nasconde nella sua storia l’origine dei nostri formaggi. Non è così?
“È vero, grazie ai bergamini che il formaggio lo facevano già anche quando avevano prevalentemente pecore. Erano formaggi stagionati come quelli prodotti in alpeggio con le stesse attrezzature; si lavorava il latte in capanne con il tetto di paglia. Disponendo, una volta trasformata la campagna in prati irrigati, di molto più latte, il formaggio è diventato l’attuale grana, che è un formaggio d’alpeggio ‘alzato’. Ma a farlo erano sempre loro, i malghesi – in fase di transizione a bergamini – delle valli orobiche. Gli stracchini, che appaiono nel Seicento, sono la specialità dei bergamini, ma i bergamini hanno sempre fatto grana. Gli stracchini, famiglia che comprende lo Strachitunt, hanno iniziato ad essere prodotti prima o dopo la peste? Manzoni fa mangiare a Renzo un famoso stracchino, ma servono conferme. Nel Settecento quello ‘di Gorgonzola’ assurge a fama europea. Il taleggio ha un nome che si afferma ai primi del Novecento, ma il ‘quadro’ o ‘quartirolo’ c’era già. Molto ricercata era la “crescenza” a doppia panna, che si usava come ‘regalia’ nei contratti che i bergamini stipulavano con gli agricoltori che vendevano loro il fieno e che li ospitavano nelle cascine bassaiole in inverno. Nell’Ottocento c’era già anche il ‘salva cremasco’, il cui nome è recente). A molti può parere strano o eccessivo ma i nostri bergamini hanno ‘inventato’ anche il bitto-branzi-formai de mut-formaggio grasso. Un formaggio che nasce insieme al grana, quindi tra Quattrocento e Cinquecento in pianura facevano grana, in estate, sugli alpeggi, ‘grasso’. Capire perché altrove, alla stessa epoca, hanno iniziato a fare burro e formaggi semi-grassi come il bagoss, il formaggio dei bergamini bresciani sarebbe interessantissimo. Poi c’era l’antenato del ‘nostrano di Valtrompia’ e il ‘bergamasco’, formaggio estinto della famiglia dei semi-grassi”.

E i grassi?
“I grassi sono i formaggi legati alla val Brembana e al ‘triangolo orobico’, ovvero alle valli intorno al pizzo dei Tre Signori. Nel Cinquencento e nei secoli successivi, in estate parecchi bergamini brembani caricavano alpeggi nelle valli valtellinesi, le ‘valli del bitto’. I documenti dell’epoca dicono che valtellinesi e bergamaschi erano a volte soci nella gestione di alpeggi, anche se va detto che i valtellinesi orobici avevano spesso cognomi e origini bergamasche. Il nome ‘bitto’ si afferma tardi, quando decade la fiera di Branzi che dal Settecento ai primi del Novecento faceva furore e raccoglieva la produzione non solo della val Brembana ma anche di quella delle valli del Bitto. Il formaggio fatto dai valtellinesi, che avevano imparato dai bergamini bergamaschi secoli prima, era venduto come ‘branzi’. Per concludere: abbiamo detto che lo ‘stracchino di Gorgonzola’, prodotto con il latte delle mandrie dei bergamini che sostavano a lungo in autunno nei grandi prati intorno a Gorgonzola, era famoso già negli ultimi decenni del Settecento. Divenne un formaggio molto richiesto in Inghilterra nell’Ottocento. La produzione si è spostata a Novara solo negli anni ‘30 del Novecento. Ma chi lo produceva erano sempre i bergamini, chi lo stagionava discendenti dei bergamini orobici (valsassinesi e bergamaschi). Sino a oggi”.

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