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Storia delle epidemie 4

La peste di Cipriano: già nel 250 si parlava degli effetti dei cambiamenti climatici

Il male colpiva duro, l’autore ci parla dei sintomi: bruciore agli occhi, febbre, coliche devastanti, a tanti si amputavano gli arti

Forse aveva ragione Tertulliano quando nel 211, nel suo trattato “De anima”, scriveva che: “…onerosi sumus mundo (siamo di peso al mondo), a stento ci bastano le materie prime, e quanto più stringenti sono le necessità, tanto più si alzano i nostri lamenti, dal momento che la natura è incapace di sostenerci. Le pestilenze, le carestie, le guerre e la scomparsa di intere città, rappresentano un rimedio, uno sfoltimento del genere umano divenuto eccessivo (tonsura insolescentis generis humani)”.

Una spiegazione che ritiene il mondo antico attraversato da un lungo ciclo di crescita e declino; che la popolazione sia andata dapprima aumentando insieme alla produzione di beni; che poi, dal I o II secolo d.C., all’aumento ulteriore non abbia fatto riscontro un’espansione della base produttiva, e cioè dello sfruttamento delle risorse; che si siano avuti, quindi, rendimenti decrescenti del lavoro e peggioramento delle condizioni di vita; che forse una diminuzione delle temperature abbia ridotto ulteriormente la produttività del lavoro; che, infine, lo scoppio della pestilenza e la mortalità molto elevata abbiano riportato un qualche equilibrio fra popolazione e risorse.

Fatto sta, che la “Peste di Cipriano”, esplosa nel 249 d.C., diede un altro colpo alla struttura organizzativa e al coordinamento che lo stato romano cercava di dare a un mondo euro-mediterraneo sempre più vasto sotto il suo controllo.

L’Impero rimase quindi sconvolto da questa epidemia che si protrasse per circa vent’anni, mietendo cinquemila vittime al giorno nel momento della sua maggiore virulenza. Il nome le deriva dal vescovo di Cartagine, metropoli romana e cuore della Chiesa africana, Tascio Cecilio Cipriano (210-258). La sua data di nascita (probabilmente tra il 200 e il 210) ed i particolari della sua gioventù sono ignoti; è certo invece che a 40 anni, verso il 246, egli si converte al cristianesimo e, colto e retto com’è, il popolo gli “impone” il presbiterato e nel 249 lo vuole vescovo.

Diverrà una personalità dominante della Chiesa latina, alla guida di una città e cristianità al centro delle grandi questioni ecclesiali: il battesimo degli eretici, il primato romano, l’unità della Chiesa. Si distinse per la sua coerenza dottrinale, l’accoglienza dei decreti pontifici (ma nella disciplina era più rigorista di Roma) e un grande zelo pastorale. Finito nel mirino dei persecutori Decio e Valeriano, morì martire a Cartagine nel 258, decapitato sul prato di un’altura a picco sul mare.

La pestilenza che porta il suo nome fu dettagliatamente descritta nel suo trattato “De mortalitate”. Tradotto in genere come “La pestilenza”, ci riporta a mortalitas che significa mortalità, fragilità e anche morte.

Probabilmente, la base del suddetto fu un messaggio pastorale scritto da Cipriano nel 252 per i fedeli, forse elaborato da un’omelia, in cui l’autore spiega il significato cristiano della morte, vista come un avvicinamento alla ricompensa finale promessa da Dio.

Il “De mortalitate” attesta anche l’estrema premura pastorale di Cipriano, impegnato sia sul piano sociosanitario sia dal lato spirituale.

Il male colpiva duro, l’autore ci parla dei sintomi: bruciore agli occhi, febbre, coliche devastanti, a tanti si amputavano gli arti. È un “male micidiale”, dice, che strappa i figli ai genitori, i mariti alle mogli, gli amici agli amici.

La pandemia era esplosa in Egitto e si era sparsa nei territori rivieraschi del Nordafrica, causando migliaia di morti e invadendo la popolosa Cartagine. Il morbo arriverà a Roma, dove farà numerose vittime e ricorderà a tutti la peste Antonina del secolo prima, sotto Marco Aurelio. Allora, come nel II secolo, l’emergenza sanitaria si era accompagnata ad altre sciagure (guerre, invasioni, carestie, fame…) che per i pagani erano castighi degli dèi indignati per la libertà data ai cristiani, mentre per questi esse preannunciavano la fine del mondo.

Questa epidemia, che uccise anche gli imperatori Ostiliano (251) e Claudio il Gotico (270), può anche essere vista, sempre nelle analisi di Cipriano, come conseguenza dei cambiamenti climatici già in atto da qualche decennio. Egli accenna a una riduzione delle temperature, a una ridotta efficacia del sole e della stagione estiva in ritardo nel portare a maturazione i frutti della terra.

Che non si sia trattato solo di considerazioni soggettive, sembra in parte confermato dai climatologi, i quali hanno costatato che durante il II e III secolo il clima dell’Europa occidentale fu più freddo rispetto a quello dei secoli precedenti; questa tendenza non cambiò se non a partire dal VI secolo.

Studiando i dati a loro disposizione sulle piene del Nilo grazie alle fonti, naturali o umane, scoprono che negli anni intercorsi fra l’esplosione della peste Antonina e quella Giustiniana, la regolarità del fiume egizio subì dei contraccolpi; molto probabilmente legati a quel genere di variabilità climatica nota come Enso (El Niño-Southern Oscillation) cioè El niño (fenomeno climatico periodico ormai ben conosciuto). Mentre le variazioni legate all’Enso furono molto rare nel periodo dell’Optimum climatico romano, durante il periodo successivo, che va approssimativamente dal 150 al 450 d.C., essi divennero estremamente comuni.

Tanto da determinare un cambiamento globale che si è soliti denominare “Transizione tardo-romana” o anche “Periodo romano di transizione”. Esisteva quindi una sinergia tra mutazioni climatiche e epidemie. Le lingue antiche, all’oscuro, come sappiamo, delle reali origini patogene delle pestilenze, le collegavano però già allora alle condizioni ambientali; i termini greci miasma, loimos e il latino lues collegano il contagio a una sorta di inquinamento gassoso, a nubi venefiche o a corruzione di acque.

Di certo c’è che anche la diminuzione delle temperature ridusse ulteriormente la produttività del lavoro, prova ne è che la “mancanza di braccia” aumentò moltissimo la superficie delle terre non più coltivate. La cosiddetta peste fu probabilmente una epidemia di morbillo o vaiolo e imperversò ventanni in tutto l’Impero, facendo calare gli abitanti dai sessanta milioni del II secolo ai trenta del IV.

In Egitto sono state individuate tracce della pandemia che sconvolse il mondo conosciuto allora. Le ricerche della Missione Archeologica Italiana a Luxor presso il Cenotafio di Harwa situato sulla Riva ovest di Luxor hanno condotto alla scoperta, nel 2014, di un contesto archeologico riconducibile proprio all’epidemia. Questo risultato è stato ottenuto grazie a un paziente lavoro di ricerca protrattosi nel corso di quasi vent’anni e grazie ai dati raccolti è stato possibile ricostruire con precisione le operazioni di smaltimento dei cadaveri degli appestati che ebbero luogo nel monumento. Il Cenotafio di Harwa era stato realizzato alla fine dell’VIII secolo a.C. ed è oggi considerato uno dei capolavori architettonici e artistici dell’epoca. Nei secoli successivi era stato utilizzato come luogo di culto e come necropoli. Alla metà del III secolo, come gli altri monumenti funerari delle necropoli tebane, giaceva in stato di totale abbandono. È forse per questo motivo che fu scelto per smaltire i corpi infetti delle vittime dell’epidemia di Cipriano.

Si è appurato che all’epoca furono costruite alcune calchere (forni per la produzione della calce), nelle quali furono bruciati per circa una settimana blocchi di pietra calcarea provenienti dalla decorazione del cenotafio, per polverizzarli e trasformarli in calcina, con la quale furono coperti i cadaveri degli appestati che venivano deposti uno accanto all’altro nella prima sala ipostila del monumento.

Quando probabilmente il numero delle vittime risultò essere più elevato dello spazio a disposizione, i corpi furono accatastati nel cortile del monumento sopra una pira di mummie e sarcofagi preesistenti alla quale fu infine dato fuoco. L’analisi della dentatura dei resti rinvenuti è al centro di un progetto interdisciplinare e internazionale che ha lo scopo di isolare il genoma del fattore patogeno che provocò l’epidemia.

La scoperta della Missione Archeologica Italiana rappresenta quindi la prima traccia concreta della peste di Cipriano, la cui attestazione era sino a quel momento nota soltanto attraverso fonti scritte. Durante le ricerche sono state recuperate numerose lucerne (dalle quali si è ottenuta la datazione degli strati) e il vasellame utilizzato per mangiare e bere dagli addetti allo smaltimento dei cadaveri. La maggior parte di questo materiale era pressoché intatto: ritenuto con tutta probabilità infetto fu all’epoca prudentemente abbandonarlo.

Il Cenotafio di Harwa subì una medesima sorte. Le tracce di una sua successiva frequentazione risalgono infatti agli inizi del XIX secolo quando i primi tombaroli cominciarono ad aggirarvisi alla ricerca di antichità. Se i risultati si dimostrassero positivi, i dati raccolti potrebbero rivelarsi utili nella lotta di malattie virali o batteriche. Il passato viene in soccorso al futuro. Sembra fantascienza, è invece una delle nuove frontiere della ricerca archeologica.

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