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“Formaggi, polenta, cereali: la riscoperta della dieta alpina è un bene per tutti”

La dieta alpina, patrimonio immateriale, protocollo alimentare, esperienza di lavoro e di libertà, strumento identitario e di comunicazione culturale, che ha fatto crescere i nostri nonni e i nostri genitori: ce la racconta Michele Corti, professore di Scienze delle politiche ambientali alla Statale di Milano

In principio fu il mais, poi arrivò la patata. I latticini non sono mai mancati e le carni rappresentavano la festa, ma solo per chi se le poteva permettere.

In questi ultimi tempi stiamo riscoprendo la dieta alpina, patrimonio immateriale, protocollo alimentare, esperienza di lavoro e di libertà, strumento identitario e di comunicazione culturale, che ha fatto crescere i nostri nonni e i nostri genitori.

Quando parliamo di dieta alpina parliamo della capacità delle popolazioni locali di sfruttare al meglio quanto la natura offriva, e della loro abilità nel trasformare quanto avevano creando prodotti, dai vini, ai formaggi, agli insaccati, oggi sempre più riscoperti e apprezzati.

“Nel corso del Novecento, la dieta alpina era andata perdendosi – spiega Michele Corti, professore di Scienze delle politiche ambientali alla Statale di Milano -. Il riso, cereale tipico delle pianure, aveva sostituito l’orzo nelle minestre sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Poi la pasta secca, prima come piatto domenicale, poi anche di tutti i giorni, nel Novecento ha in parte sostituito il riso e la polenta. Non parliamo della segale, diffusissima, che era resistita solo nelle ultime ridotte dell’alta Valtellina e dell’alta Valcamonica, non parliamo del grano saraceno, diffusissimo in tutta la montagna lombarda che stava per perdersi anche a Teglio. Le castagne erano già in declino da secoli ma nel Novecento hanno visto un crollo della produzione e del consumo”.

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Poi cosa è successo?
“Poi c’è stata quella che potremmo definire ‘la riscoperta’. La ripresa dei cereali ‘minori’ negli ultimi decenni è stata fortissima. La segale e il grano saraceno, che oggi sono presenti anche in prodotti da forno, dietetici, sono coltivati in larghissima misura altrove ma il loro consumo è aumentato e continua ad aumentare. Non vi è certo il ritorno alle quantità di consumo di polenta di una volta (quando la si mangiava tutti i giorni, più volte al giorno), ma si osserva la valorizzazione delle varietà antiche di montagna (spinato di Gandino, rostrato di Rovetta, delle Fiorine di Clusone, orobico della val Brembana, Scagliolo della val San Martino). Il mais delle varietà antiche entra anche in preparazioni alimentari diverse dalla polenta, come biscotti e gallette”.

Bergamo, in Italia, oggi viene accostata alla taragna…
“La taragna è il trionfo della dieta alpina che ritorna, con l’accoppiata della polenta dei mais antichi bergamaschi di montagna e dei formaggi e del burro”.

Anche i formaggi stanno tornando ad avere un posto d’onore nelle nostre tavole.
“È vero. Nel campo dei formaggi il ritrovato apprezzamento per quelli d’alpeggio e per quelli di capra è un palese ritorno alla dieta alpina. Va osservato che negli ultimissimi anni dopo il revival della capra si sta assistendo a quello della pecora da latte (che fu abbandonata sin nell’Ottocento)”.

E le carni?
“Quanto alle carni un elemento che segna decisamente un ritorno alla dieta alpina è la valorizzazione di quelle della pecora gigante bergamasca, una carne che si trovava nell’Ottocento e nel Novecento nei migliori ristoranti di Parigi e che lo stesso bergamasco ha snobbato per omologare i propri consumi all’anemica ‘fettina’ della cultura delle grandi città. Solo a Lugo (Ravenna) e Argenta (Ferrara) hanno conservato la tradizione di piatti con il castrato bergamasco, il top della carne ovina. La carne ovina bergamasca oggi ritorna anche nelle modalità tradizionali di conservazione di un tempo, giustamente rivisitate, ed ecco allora che bergna e violini diventano specialità gourmand”.

Quanta fantasia e creatività servivano, allora, per trasformare in cibo quel che la natura donava?
“La creatività e la fantasia non erano individuali. Oggi è lo stimolo commerciale a spingere verso nuovi prodotti o nuovi procedimenti di produzione. Nel passato della dieta alpina la creatività era qualcosa di collettivo che si sedimentava nel passaggio tra le generazioni e si arricchiva di innovazioni. Restare legati alla tradizione, in un mondo in cui non erano possibili analisi di laboratorio, controlli di qualità, test, era l’unico modo per non rischiare di perdere risorse alimentari preziose. I cambiamenti avvenivano ma con gradualità. Fatte queste precisazioni dobbiamo riconoscere che la scarsità di mezzi spingeva a soluzioni ingegnosissime che si adattavano a quanto, localmente, la natura metteva a disposizione. I modi per trasformare e conservare i prodotti variavano in funzione delle condizioni ambientali: pensiamo ai tanti modi di conservare le castagne (fresche, essiccate, affumicate) , di conservare la carne (sale, aria, fumo)”.

Oggi le industrie la fanno da padrona, complice anche il poco tempo che molti di noi hanno a disposizione dopo lavoro o studio: quanto sarebbe importante riscoprire le sane tradizioni che la dieta alpina conserva?
“Il lockdown ha fatto aumentare i consumi di farina e di altri ingredienti base per le preparazioni alimentari. Buon segno: invece di deprimersi davanti alla televisione, molti hanno pensato di recuperare le sane abitudini alla preparazione del cibo. È uno sfizio? Se fossimo un po’ meno pigri nell’informarci e nel leggere le etichette noteremmo che quanto più un prodotto è elaborato, quasi pronto per il consumo, e quanto più contiene (un po’ per necessità di conservazione, un po’ per renderlo più invitante) conservanti, stabilizzanti, additivi. Il vantaggio del tempo risparmiato si paga con una qualità inferiore delle materie prime. Spezzare una lancia a favore del ritorno alla cucina cucinata ha anche un altro significato oltre a quello: sai cosa mangi”.

Quindi, quale poteva essere il tradizionale pranzo natalizio dei bergamini?
“Con la memoria orale non si va più indietro di un secolo e poco più. Dai frammenti di ricordi degli anziani si ottiene innanzitutto l’idea di una festa grande, sottolineata da piatti che per noi paiono “normali” ma che allora (periodo tra le guerre mondiali) erano un miraggio nel vitto quotidiano. Un pezzo di manzo bollito con il brodo per fare il risotto era proprio “da Natale”. Il tacchino poi (o tra i bergamini più abbienti) ha rimpiazzato la più modesta gallina. Va notato che i bergamini erano di una sobrietà che impressionava anche i loro contemporanei. I loro consumi, salvo la polenta e i latticini erano molto più ‘risparmiosi’ di quello che le loro condizioni economiche avrebbero potuto permettere. Però tendevano a risparmiare e, al momento giusto, ad acquistare aziende agricole in pianura. A Natale, però un dolce fatto in casa e anche della pasta fatta in casa se li potevano concedere anche i bergamini. Il dolce era una pagnotta condita con uova, zucchero e panna. Non sarà mancato sulle tavole lo Strachítunt e il mascarpone”.

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