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Storia delle epidemie 3

La peste Antonina, la peggiore di tutta la storia antica

Nei primi anni del secodno secolo dopo Cristo, durante il regno dell’imperatore Marco Aurelio, una tremenda epidemia minò le fondamenta e la solidità dell’impero: nella sola città di Roma pare che si contassero fino a 2.000 decessi giornalieri

Plutarco, storico e filosofo greco, in uno dei “Moralia”, più precisamente nelle “Questioni conviviali”, si pone il problema se possano esistere malattie nuove. L’autore stesso conversando con i suoi interlocutori sostiene infine che sì, sono possibili. Ma viene contraddetto: il cosmo è un’entità chiusa e perfetta e la natura non inventa mai nulla; anche perché “le malattie non hanno dei loro semi particolari”.

Mentre Plutarco compone questa squisita dissertazione in un ambiente altamente civilizzato, la natura, in qualche luogo remoto, stava preparando i semi di un nuovo morbo. La rassicurante nozione classica di una natura immutabile, del tutto ignara di germi virus e batteri, infatti, stava approntando qualcosa di nuovo, di terribile e di proporzioni sterminate: la cosiddetta “Peste Antonina”, che infuriò per una quindicina d’anni a partire dal 165 dopo Cristo.

Nei primi anni del II secolo d.C. l’Impero Romano, sotto la guida di Traiano, raggiunse il punto di sua massima espansione, ma pochi decenni dopo, durante il seppur positivo regno dell’imperatore Marco Aurelio, una tremenda epidemia minò le fondamenta e la solidità dell’impero. La peste Antonina, chiamata così dal patronimico della gens imperiale, divampò all’improvviso, decimando la popolazione e provocando grande penuria di uomini da utilizzare nel lavoro nei campi e per l’arruolamento nell’esercito. Questa epidemia fu probabilmente la peggiore di tutta la storia antica, arrivando a decimare la popolazione, in alcuni centri, addirittura del 90%; nella sola città di Roma pare che si contassero fino a 2.000 decessi giornalieri. La scarsità di epigrafi rivenute risalenti agli anni fra il 167 e il 180 d.C., testimonia il notevole tasso di mortalità di quel tragico periodo. Probabilmente fu sempre a causa di questa epidemia che anche l’imperatore Marco Aurelio morì nel 180 d.C.

A Roma non esisteva un’organizzazione sanitaria con ospedali pubblici o privati per la cura dei malati, a parte il Tempio di Esculapio sull’Isola Tiberina, ma allo scopo esistevano medici per tutte le tasche, più cari o meno cari a seconda della fama che si erano procurati nella cura dei loro malati. Viceversa diverse strutture sanitarie erano invece presenti in ambito militare con ospedali da campo, medici e infermieri per la cura dei soldati feriti in battaglia. Indubbiamente la medicina romana aveva un grosso limite nell’ignoranza delle infezioni e delle contaminazioni, cosa che del resto sarà acquisita solo in epoca moderna.

Tuttavia, pur senza vederli, gli antichi percepivano la presenza di esseri invisibili, basti pensare a Marco Terenzio Varrone, che così li descriveva nella sua opera “De re rustica – libro III” (36 a.C.): “animalia quaedam minuta quae non possunt oculi consequi” (animali così piccoli che non possono essere visti con gli occhi). Varrone, microbiologo ante litteram e visionario, affermava anche che essi “…ae non possunt oculi consequi et per aera intus in corpus per os ac nares perveniunt, atque efficiunt difficiles morbos”, cioè che “ esistono certi animali piccolissimi che per mezzo dell’aria, attraverso bocca e naso penetrano nel corpo, causando gravi malattie”. Dunque, percepiva l’esistenza di “microbi” e li descriveva, da quel precursore che era, anticipando alcuni concetti dell’epidemiologia moderna avvertendo, ad esempio, di stare lontani dalle zone paludose perché queste zone ospitano dei corpuscoli, minuscole creature che possono provocare gravi malattie. Una primissima teoria sulla pericolosità dei germi, dimenticata poi per 1900 anni.

l violentissimo morbo divampò quindi velocemente in tutti gli angoli dell’impero, colpendo gravemente anche le legioni dislocate in Gallia ed i contingenti militari acquartierati lungo il fiume Reno, che da tempo cercavano di tamponare le scorribande lungo i confini imperiali delle tribù germaniche. A causa dell’insufficienza di uomini che si venne a creare, l’imperatore Marco Aurelio faticò non poco ad opporre una valida resistenza contro i barbari, i quali riuscirono a penetrare fin quasi al cuore dell’impero, prima di essere definitivamente fermati ad Aquileia.

Anche il medico greco Galeno (le cui teorie avrebbero improntato la medicina occidentale per tredici secoli, e dal cui nome deriva tuttora la “galenica”), era presente fra le truppe stanziate ad Aquileia nell’inverno del 168 d.C., dove l’epidemia inizialmente si diffuse maggiormente. Le sue indicazioni, riportate all’interno dei suoi voluminosi trattati “Methodus Medendii”, sono brevi, ma ci danno un quadro abbastanza chiaro della malattia. Il morbo ci viene descritto come “grande” e “di lunga durata”, citando inoltre episodi di febbre alta, diarrea e infiammazioni alla faringe, aggiungendo poi che in molte occasioni si riscontravano eruzioni cutanee che comparivano una decina di giorni dopo la comparsa dei primi sintomi.

Fatto sta che l’epidemia, dopo una prima ondata che sembrò attenuarsi, tornò a svilupparsi e diffondersi in modo ancor più violento circa nove anni dopo, protraendosi per circa 30 anni e uccidendo una innumerevole quantità di persone che oggi è impossibile conteggiare, ma è possibile stimare in un numero che va dai 5 ai 30 milioni, potenzialmente circa un terzo dell’intera popolazione dell’Impero.

Due sono le teorie sulla sua origine: cinese, visto che tra 110 e 180 d.C. il lontano Oriente affrontò sei eventi epidemici definibili come pesti, oppure etiopica, in quanto la città africana di Nisibis era occupata dai soldati romani. Così Orosio, biografo di Lucio Vero descrive la modalità di propagazione della pestilenza: “A Babilonia un vapore pestilenziale si sviluppò nel tempio di Apollo da una cassetta d’oro che un soldato aveva accidentalmente aperto, e si diffuse poi sulla Patria e sull’intero mondo”.

Ammiano Marcellino, storico del IV secolo d.C., concorda: “Da una teca chiusa dalle arti occulte dei Caldei, il germe della pestilenza si sviluppò e dopo avere generato la virulenza di una malattia incurabile contaminò ogni cosa con contagio e morte”.

Il sofista Elio Aristide, contemporaneo agli eventi, riporta, con una certa enfasi: “Mi trovavo nei dintorni (di Smirne) nel pieno dell’estate. Una pestilenza colpì quasi tutti i miei vicini. (…) Quindi tutti finirono a letto, giovani e vecchi. Io fui l’ultimo ad essere contagiato. Anche il bestiame si ammalò. E se qualcuno avesse cercato di muoversi, immediatamente sarebbe morto davanti all’ingresso”.

Sconvolta da una tale calamità, la popolazione inerme reagì in vario modo, in moltissimi si affidarono perfino alla magia; riguardo a questo, famosi sono i racconti dello scrittore greco Luciano di Samosata, che ironizza su di un mago ciarlatano chiamato Alessandro di Abonutico, e che afferma in un suo verso “…che aveva spedito a tutte le nazioni durante la pestilenza (…)fu visto scritto ovunque sulle porte”.

Gli effetti che l’epidemia ebbe su tutto il mondo politico e sociale furono a dir poco drastici e il mondo antico non riuscì più a ritornare ciò che era in precedenza, tant’è che molti studiosi attribuiscono proprio a questa epidemia l’inizio del vero declino dell’Impero Romano. Alcune conseguenze del largo contagio furono subito evidenti quando Lucio Vero, co-reggente dell’impero insieme a Marco Aurelio, si mosse al comando delle truppe dopo che il Re dei Parti, Vologase IV attaccò l’Armenia. Le difese romane a causa della diffusione della pandemia si ritrovarono in un numero davvero esiguo.

Lo scrittore iberico del V secolo Paolo Orosio ci racconta, a questo proposito, che addirittura alcuni insediamenti della penisola italica, e altri sparsi per il resto d’Europa, persero tutti i loro abitanti. Quando l’epidemia si spostò verso nord, infettò anche le tribù barbariche che da tempo premevano sui confini, e le legioni stesse, provocando un pesante indebolimento delle difese romane che furono così sempre meno in grado di respingere gli invasori, in quanto essi, pur colpiti dalla malattia, rimasero numericamente superiori.

Si ipotizza che il principale indiziato come causa scatenante la pandemia, sia un curioso roditore dall’amabile aspetto: il gerbillo dalle zampe glabre, Gerbilliscus kempi, che vive nella fascia di savana che attraversa l’Africa come una striscia posta tra il deserto del Sahara e l’umidità di tropici. Questo animaletto ospita, solo lui, un virus chiamato poxvirus Tatera, e tale distinzione lo rende di particolare interesse, perché il suddetto è il parente più prossimo dell’agente patogeno che causa il vaiolo dei cammelli ed entrambi sono a loro volta i parenti più vicini del Variola maior, meglio conosciuto come virus del vaiolo. Infatti la peste Antonina (detta anche peste di Galeno, in quanto da lui studiata) fu con ogni probabilità una forma particolarmente grave di vaiolo emorragico.

Quando e dove esattamente avvenne il salto di specie e chi fu il paziente zero, questo non lo sapremo mai. Però quello che sappiamo con sicurezza è che l’Impero Romano dell’epoca degli Antonini, in quanto zona di elevatissima connettività, di traffici incessanti tra Oriente e Occidente e tra Nord e Sud del mondo conosciuto, fu un ambiente propizio per l’ampia diffusione della malattia. Si può quindi affermare che l’Impero Romano, con la vastità dei territori posseduti, rappresentava un superconduttore per le malattie infettive allora emergenti e che la pestilenza scaturì dalla combinazione casuale di un’evoluzione microbica da una parte e una particolare società umana dall’altra. Una sovrapposizione tra geografia fisica, reti di comunicazione e ritmi biologici dell’agente patogeno che ritroveremo ai nostri giorni.

Infine, e a proposito del salto di specie dagli animali all’uomo ipotizzato poc’anzi, è un fatto assodato che è stato (ed è tuttora) una delle cause delle pandemie. La zoonosi (questo è il termine scientifico) si manifesta in situazioni di stretta prossimità con gli animali e scarse condizioni igienico-sanitarie. In sintesi, lo stretto connubio uomo/animale in cui si formò l’humus ideale per questa contaminazione iniziò intorno ai 12-10.000 anni fa, dopo l’ultima glaciazione, quando l’ideale plateaux termico diventa favorevole allo sviluppo della vita umana sul pianeta e l’Uomo passa quindi da piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori ad agricoltori stanziali, con la successiva domesticazione di piante e animali. Questo cambiamento di abitudini favorì il passaggio di virus e batteri all’uomo, il cui sistema immunitario si trovò ad affrontare questi parassiti patogeni per la prima volta, a differenza degli animali che da millenni avevano imparato a convivervi grazie a un lento meccanismo di coevoluzione e selezione che ne aveva mitigato la virulenza e patogenicità.

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