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L'intervista

Voci dalla zona rossa, Moroni: “In un libro ho raccolto le testimonianze della pandemia”

Il giornalista Gabriele Moroni, storico inviato de Il Giorno, illustra il libro "Zona rossa. Testimonianze e storie dal cuore della pandemia", pubblicato da Edizioni Meravigli

“Ho raccolto tante voci delle persone comuni durante la pandemia: era un patrimonio notevole ed era un peccato che andasse disperso”. Così il giornalista Gabriele Moroni, storico inviato de Il Giorno, illustra il libro “Zona rossa. Testimonianze e storie dal cuore della pandemia”, pubblicato da Edizioni Meravigli.

Un reportage che si riferisce alla prima drammatica fase della pandemia da Covid-19: abbiamo intervistato Moroni per saperne di più.

gabriele moroni

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?

È nato da solo, seguendo la cronaca della prima terribile fase della pandemia. A un certo punto – eravamo arrivati a primavera inoltrata, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno – mi sono accorto di avere raccolto un patrimonio di testimonianze che era un peccato disperdere. Il mio collega Tiziano Troianello, capo servizio per l’edizione di Lodi, Pavia e Crema de Il Giorno, abita a Codogno, quindi aveva seguito l’inizio e gli sviluppi dell’epidemia da un osservatorio drammaticamente privilegiato e ho chiesto anche a lui di riordinare le voci di cui aveva scritto ed è nato questo libro.

Che ricordi avete raccolto?

Il volume contiene le testimonianze raccolte da Troianello relativamente a Codogno e dai miei servizi da tutta la Lombardia e precisamente da Bergamo, Cremona, Crema, Pavia e Varese). Sono testimonianze: questo libro non è la storia della pandemia e nemmeno un saggio, un’analisi o un’inchiesta, contiene racconti di gente comune, fra le quali alcune persone che si sono trovate a compiere atti di eroismo quotidiano rendendosene conto probabilmente dopo. Sono voci di dolore, angoscia, preoccupazione e rabbia – penso alla questione tuttora aperta della mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, e spero che da cittadino si possa definire cosa accadde – ma ci sono anche voci di speranza e forza, persone che mentre stavano vivendo il dramma quotidiano erano già proiettate al futuro. C’è tanto spazio per le emozioni e la grande umanità che ho trovato: si tratta di vissuti singoli che insieme formano un coro.

Ci sono storie che l’hanno colpita in modo particolare?

Ogni storia mi ha colpito e lasciato qualcosa. Nel nostro lavoro siamo come pietre sulle quali gli avvenimenti scorrono come acqua ma in questo caso non è così. Inizio citando frate Aquilino Apassiti, uno dei cappellani dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, di 84 anni, appartenente all’ordine dei cappuccini, che per 18 anni ha lavorato come infermiere, per 25 anni è stato missionario in Amazzonia – quindi conosce la lotta alla malaria, alla lebbra e alla miseria – e nel 2003 ha combattuto una battaglia personale per sconfiggere un tumore. Si è accorto che stava cambiando qualcosa notando che i reparti dell’ospedale venivano modificati e protetti: aveva capito che si trattava di una gravissima emergenza, che la gente moriva e continuava a morire entrando in obitorio. Di solito le stanzette occupate erano 10-12 mentre in quelle settimane stavano arrivando tantissime bare. Un giorno ne ha vista una con un numero, era quella di un uomo che la moglie aveva accompagnato in ospedale tre giorni prima e la signora gli aveva chiesto una benedizione.

Cosa è accaduto in quell’occasione?

Ha preso il suo smartphone, l’ha chiamata e le ha detto che era di fronte alla bara di suo marito: le propose di pregare insieme e anche gli infermieri si fermarono per pregare. Svolgo la professione di giornalista da tanti anni e se dovessi indicare un uomo toccato dalla santità indicherei frate Aquilino: gli ho chiesto se non avesse paura e mi ha risposto che a 84 anni non temeva niente, avrebbe dovuto morire sette anni fa per il tumore, ha vissuto una vita lunga e bella e ha realizzato tanti sogni, anche quelli che aveva da piccolo come la partenza per il Basile da missionario, e al Signore dice di lasciarlo qui se pensa che possa essere ancora utile. Un’altra figura che cito è Sangeetha Bonaiti.

Chi è?

Un’infermiera con una storia particolare: è nata in Bangladesh nel 1984, sua mamma è morta di parto, suo padre se n’era andato e lei rimase in un ospedale per bambini orfani fino all’arrivo di suor Armida, una suora italiana, e all’età di due anni venne adottata da una coppia di Seriate. Le è stata chiesta la disponibilità a far parte della task force del Covid e ha accettato: con la sua testimonianza racconta di come è stata accanto ai malati a cui ha dato anche conforto religioso. Il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, infatti, ha autorizzato medici e infermieri a portare la benedizione ai malati: Sageetha ha benedetto due persone e un altro paziente le ha chiesto di pregare insieme a lui. In questa situazione così drammatica e difficile dietro la mascherina ha incrociato sguardi profondamente umani e colleghi nuovi con i quali si è creata da subito collaborazione e sintonia. Sempre in ambito ospedaliero racconto del dottor Angelo Vavassori.

Ci spieghi

È un medico rianimatore del Papa Giovanni, che si è ammalato ed è stato ricoverato in rianimazione – nel suo reparto – e appena si è sentito meglio, dopo aver parlato con la pneumologa e aver avuto l’autorizzazione ha lasciato il suo letto e il suo respiratore a chi ne aveva più bisogno. Un altro bergamasco di cui scrivo è Francesco Doneda, di 85 anni, che nel maggio del 79 è stato rapito ed è rimasto ostaggio dell’Anonima Sequestri fino al 24 giugno. Dopo quarant’anni ha vissuto una nuova prigionia, una nuova paura, il contagio del Covid e la malattia. Quando gli ho chiesto come è andata mi ha risposto che quando è stato ricoverato e ha visto tutti quei letti ha provato una gran paura, aveva tosse, catarro, era così spossato da non avere nemmeno la forza di alzare le braccia. Gli hanno messo il casco, stava male e vedeva le immagini alla tv, le bare in attesa della cremazione e i mezzi militari che le portavano via: ha pensato che non sarebbe tornato a casa e ha chiamato i suoi tre figli raccomandando di volersi bene. Quando i valori dell’ossigenazione sono migliorati gli hanno tolto il casco e aveva ripreso a mangiare qualcosa, poi è stato trasferito all’istituto Palazzolo e alla vigilia di Pasqua è tornato a casa. Vivere un’esperienza come questa lo ha segnato molto: alla mia domanda se sia stato più duro il sequestro o il Covid ha risposto quest’ultimo. Ma non è tutto.

libro gabriele moroni

Ha altre testimonianze?

Cito la perdita di un amico, don Fausto Resmini, prete degli ultimi e uomo toccato dalla santità. Non si è risparmiato fino alla fine lui che aveva dedicato la sua vita a carcerati, emarginati, detenuti ed ex detenuti, senzatetto e tossicomani, e non si è fermato nemmeno durante la pandemia. Un’altra figura di cui ho scritto è quella di Beltramino Roncalli, che abita a Sotto il Monte e ha 81 anni. Figlio di Giuseppe il più giovane dei 12 fratelli di Papa Roncalli, è stato malato di Covid e ha spiegato che come tanti altri bergamaschi ha invocato l’aiuto di suo zio pontefice. Nel libro, inoltre, hanno trovato spazio i sindaci di Alzano Lombardo e Nembro, gli esposti in procura delle famiglie dei morti di quella zona. L’ultima testimonianza, infine, è quella di Michele Colledan, direttore del dipartimento funzionale insufficienze d’organo e trapianti del Papa Giovanni, un medico musicista che racconta di quattro trapianti effettuati durante l’emergenza Covid che danno un segnale di speranza simboleggiando che vince sempre la vita, magari con fatica e sacrificio ma prevale.

Per concludere, lei ha seguito molti casi di cronaca e tragedie. Questo è stato il più grave?

Nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante catastrofi come l’alluvione del Piemonte nel ’94 e la tragedia all’aeroporto di Linate nel 2001, ma questa è stato l’avvenimento più grave: è stata un’emergenza mondiale, ci siamo trovati ad affrontare qualcosa di sconosciuto e subdolo. I ricordi delle persone con cui ho parlato mi hanno lasciato molto: molte volte svolgere il lavoro da giornalista è come scrivere sull’acqua ma stavolta credo di aver scritto qualche pagina di storia e soprattutto di averla vissuta. La sensazione a posteriori è quella di aver preso parte a una guerra che non è terminata anche se alla fine sono certo che con lo sforzo e il sacrificio di tutti vinceremo: è una guerra alla quale come giornalista era impossibile non partecipare.

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