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Sènt che göst

Sènt che göst

“Non dimentichiamo i bergamini: nella loro storia c’è il futuro dei formaggi bergamaschi”

Stanno scomparendo, ma ci lasciano una forte tradizione casearia che continua tutt'oggi: "La loro dinamicità imprenditoriale è ancora un lascito"

I bergamini “storici” erano degli allevatori-casari transumanti, che si spostavano tra le valli orobiche e bresciane e la pianura.

È triste dirlo, ma la cultura dei bergamini è quasi scomparsa. Eppure ci tocca molto da vicino, racconta la nostra storia: parla di una economia di sussistenza, del piccolo allevamento familiare, della produzione di formaggi, ma anche della transumanza e del rispetto per la montagna e delle difficoltà.

“La difficoltà e il costo di trasferire il bestiame su e giù, la trasformazione dei sistemi di alimentazione e di stabulazione che ha ridotto drasticamente i vantaggi della transumanza, ma anche l’aver saputo cogliere le occasioni per acquistare dei fondi o darsi ad altre attività, vendendo per tempo le loro mandrie quando le vacche da latte avevano un valore molto superiore a quello di oggi, hanno influito sulla diminuzione del numero di bergamini”. Ci racconta Michele Corti, professore di Scienze delle politiche ambientali alla Statale di Milano.

Quanta storia di Bergamo c’è nella tradizione dei bergamini?
“L’emigrazione rappresenta un capitolo enorme della storia bergamasca, perché la città era piccola e le valli estese, popolose e attive, quindi era logico che i valligiani si disseminassero nel Nord Italia e oltre. Dentro la storia dell’emigrazione bergamasca, il capitolo dei bergamini è uno dei più importanti per la sua continuità. Se molti milanesi, lodigiani, cremaschi, cremonesi, pavesi, bresciani sono di origine bergamasca è per via dei bergamini. L’epopea dei bergamini, un termine che non è affatto esagerato se applicato a queste figure, dura sei secoli. Dalle valli bergamasche si sono irradiati, oltre che in tutta la pianura lombarda, anche verso il Piemonte, l’Emilia, il Veneto. I bergamini erano personaggi intraprendenti, e spesso affiancati da parenti, gestivano il commercio caseario in diverse città e oltre a questo, parliamo della fine del medioevo e dei primi secoli dell’età moderna, potevano anche commerciare altri articoli (lana, pelli, ferramenta)”.

Per le nostre valli il termine ‘vacca’ significa ‘formaggio’: i formaggi delle nostre valli quanto parlano di quei territori e di chi li tiene in vita?
“Sì, i formaggi significano vacche. Lo è stato per secoli, ma non erano senza importanza capre e pecore da latte. I formaggi artigianali sono figli di un territorio. Anche se non sempre pascolo e fieno locale bastano, il loro utilizzo conferisce al latte e al formaggio caratteristiche determinanti. Conta poi moltissimo il modo di raccogliere, trasportare, conservare. Anche un buon latte se viaggia molto e male, non darà gli stessi risultati quando il formaggio matura. Oltre a ciò conta la mano e l’occhio del casaro capace di adattarsi a diversità di stagione, di condizioni atmosferiche. Conta una cultura del formaggio che non si impara sui manuali ma si assorbe in un ambiente dove competenze specifiche si sono affinate e che circola tra gli addetti al settore del territorio”.

Ma quando sono scomparsi i bergamini ‘storici’?
“I bergamini ‘storici’ sono scomparsi all’inizio del nuovo secolo. Pochissimi continuano a trasferire la mandria di vacche da latte sugli alpeggi, ma sono diventati affittuari o proprietari delle cascine della Bassa. Il bergamino ‘storico’ era un nomade, cambiava cascina di svernamento quasi ogni anno. Non si insediava con contratti d’affitto ma con il ‘contratto malghese’, che prevedeva la compravendita del fieno stoccato in cascina. Il bergamino lo doveva consumare sul posto alimentando le proprie vacche. Il conduttore della cascina dava al bergamino i locali per l’abitazione della famiglia, la stalla, il caseificio, una stalletta per i maiali, la farina e altri generi alimentari, la legna per scaldare i locali e lavorare il latte e la paglia per il letto delle bestie. Il letame restava all’agricoltore”.

Cosa perdiamo con la scomparsa dei bergamini?
“Più che a ciò che si è perso con la scomparsa dei bergamini si deve pensare a ciò che è nato dai bergamini: innanzitutto una forte tradizione casearia che continua tutt’oggi. I bergamini tra il Trecento e il Quattrocento passano dalle pecore da latte alle vacche da latte, la loro attività stimola la proprietà terriera a investire nella rete di irrigazione e nell’edificazione (graduale) delle classiche cascine della bassa Lombardia. È in questo contesto di crescente disponibilità di inedite, grandi, quantità di latte che nasce il grana, come innovazione del procedimento di lavorazione dei formaggi d’alpeggio che i bergamini hanno portato in pianura. Va chiarito che in pianura, prima dei bergamini, i bovini erano solo da lavoro e facevano 2 litri di latte al giorno. È nata poi la tradizione degli stracchini. A partire da piccole formaggette di pochi etti, prodotte con latte ovino e caprino, si è andata sviluppando la famiglia degli stracchini di cui si comincia a parlare nel Seicento. Gorgonzola, Taleggio, Salva, Crescenza, Quartirolo, Robiola, Strachítunt sono i tanti membri della lombardissima famiglia degli stracchini. I bergamini, nei secoli, hanno portato energie fresche di montagna che rinnovavano l’agricoltura della pianura. Un rinnovamento che è stato decisivo nel Novecento. Se i bergamini ‘storici’ sono quasi scomparsi la loro dinamicità imprenditoriale è ancora un lascito”.

Formaggi come lo Strachítunt, che rappresentano storia, territori e persone, hanno ancora un valore sociale nel 2020?
“Non ancora, anche se stanno acquistando sempre più valore. In un mondo di gusti appiattiti, di cibi sempre più artificiali, di carne e latti artificiali, il cibo che reca in sé l’impronta indelebile della materia prima da cui proviene, da una tecnica ben precisa e riconducibile a un territorio diventa sempre più un valore sociale. E diventa l’ambasciatore dei luoghi, delle comunità che l’hanno generato”.

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