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Storia delle epidemie 2

Nel 430 a.C. la peste sterminò gli ateniesi e portò al collasso il cuore della cultura ellenica

Oggi abbiamo chi parla del virus cinese creato in laboratorio o della sua inesistenza; più di 2400 anni fa, invece, si credeva che fossero stati i nemici Spartani ad avvelenare i pozzi della zona del porto del Pireo.

Abbiamo visto, nella puntata precedente, come nell’”Edipo Re” di Sofocle, Edipo è impegnato a debellare una pestilenza che tormenta Tebe, la sua città. Numerosi dettagli nel testo non potrebbero avere senso se Sofocle non avesse composto questa tragedia alla luce o in risposta alla “Peste di Atene”. Altre tragedie di quel periodo descrivono sintomi molto simili a quelli osservati da Tucidide (di cui parleremo fra poco), come l’Ippolito di Euripide e le Trachinie di Sofocle, un dramma, quest’ultimo, sulla morte di Eracle.

Notizie più certe sulle epidemie le avremo, perciò, solo da quando qualcuno pensò di scrivere degli accadimenti umani. Il primo, dunque, è stato il greco Tucidide. Il primo “storico” del mondo è anche il primo che ci parla di pestilenza. La peste aveva colpito Atene, la più evoluta e ricca città greca, nel 430 avanti Cristo, in quel V secolo che aveva visto Socrate, Platone, Fidia, Pericle e il Partenone costituire l’età d’oro della Grecia. E le sue conseguenze saranno terribili: l’epidemia di peste che si abbatté sul popolo degli ateniesi, ebbe come conseguenza il collasso della società ateniese (cuore della cultura ellenica del secolo) e probabilmente giocò un ruolo essenziale nella sconfitta della polis nella celeberrima guerra contro Sparta, aprendo le porte alla dominazione macedone. Pericle stesso, il principale capo politico e stratega ateniese, trova la morte a causa di essa, e le due cose, causeranno la fine dell’egemonia di Atene sulla Grecia. Nei tre anni che seguirono, circa un terzo della popolazione, fino a 100.000 persone, fu sterminata dalla malattia.

L’epidemia scoppiò improvvisa e devastante all’inizio di una guerra di Greci contro Greci, Atene contro Sparta, che sarebbe durata quasi trent’anni. L’occasione venne dalla ingerenza di Atene nelle relazioni di Sparta con Tebe e le colonie di Megara e Corinto. Sparta e i suoi alleati, ad eccezione di Corinto, avevano delle economie quasi esclusivamente di terraferma, in grado di evocare grandi eserciti di terra. Atene sotto la guida di Pericle, vide gli ateniesi ritirarsi dentro le mura della città mentre combatteva la sua flotta. I riferimenti alimentari arrivavano ad Atene per via marittima. La superiorità della flotta ateniese molestava le truppe spartane. Questo portò molte persone a riversarsi dalle campagne alla città provocando la mancanza di cibo e altri rifornimenti. La scarsa igiene e il sovraffollamento fecero sì che Atene diventasse terreno fertile per le malattie.

Alla fine, la democrazia ateniese sarebbe almeno temporaneamente scomparsa, comunque indebolita; Atene fu sconfitta e fu restaurata la tirannia. Scrive Tucidide, che osserva con lo sguardo freddo, ma non indifferente, dello storico: “…E trovandosi loro da non ancora molti giorni nell’Attica iniziò per la prima volta a manifestarsi la peste per gli Ateniesi, nonostante si dicesse che anche prima si fosse abbattuta da molte parti e a Lemno e in altre zone; tuttavia non si ricordava che si fosse verificata in nessun luogo una simile pestilenza né una strage così di persone…” (Thuc. II 47,2-48,3). L’origine del contagio è quindi probabilmente Lemno, isola egea alleata di Atene. Tucidide riporta anche la voce che gli spartani avrebbero avvelenato i pozzi della zona portuale scatenando la paura dell’untore. Inoltre, oltre alle condizioni di cui si è detto, non è nemmeno più possibile uscire, anche volendo, dalla città, cosa resa impossibile dalla presenza dell’esercito invasore appena fuori le Mura. Con i suoi 300 mila abitanti, un enorme assembramento di persone, la città non potrebbe essere in una situazione peggiore rispetto a un possibile focolaio di una epidemia, una delle costanti storiche di ogni pestilenza.

Per scoprire quali furono gli effetti sulla popolazione scatenati dall’epidemia, si può partire dall’analisi dei sintomi descritti dallo stesso Tucidide e più tardi anche da Lucrezio che, nella parte finale del “De Rerum Natura”, scrive circa duecento versi che descrivono gli accadimenti “immondi e osceni” della peste di Atene del 430 a.C. A tal fine Lucrezio si ispira al modello di Tucidide, denotando tuttavia una maggiore ricercatezza psicologica, con la quale riesce a mettere in evidenza le conseguenze della malattia sui comportamenti squilibrati dei “mortali” già malati nell’animo, pregiudicando in tal modo il benché minimo spiraglio di guarigione, che invece in Tucidide sussiste fino all’ultimo. Leggiamo alcuni passi di questa epica testimonianza, dalla profonda potenza ermetica: De rerum natura (Libro VI, Versi 1138-1286): “Questo tipo di morbo e questo flusso mortifero, un tempo, nel territorio di Cecrope rese i campi impuri a causa dei cadaveri, devastò le strade e vuotò la città di abitanti. Infatti venendo dalle parti più interne dell’Egitto (dove era) sorto, dopo aver attraversato vaste regioni di cielo e le fluttuanti distese marine, si abbatté alla fine su tutto il popolo di Pandione. E allora a mucchi erano consegnati al morbo e alla morte. All’inizio avevano la testa infiammata dalla febbre ed entrambi gli occhi arrossati per la luce rossa (fuoco). Sudavano di sangue anche le fauci, annerite all’interno, e la via della voce cosparsa di piaghe si chiudeva e la lingua interprete della mente si imperlava di sangue, fiaccata dal male, impacciata nel movimento, ruvida nel tatto. Così non appena la forza del male attraverso le fauci avevano riempito il petto e non appena si era estesa allo stesso cuore afflitto dai malati, allora veramente tutte le barriere della vita vacillavano…

Il morbo che passerà alla storia come la “Peste di Atene è un mistero della patologia non ancora chiarito. Si è pensato alla peste bubbonica, al tifo petecchiale, alla salmonella enterica (febbre tifoide), al vaiolo, al morbillo, all’ergotismo sviluppato da granaglie infette, al cimurro, a malattie epizootiche varie, a febbri emorragiche di provenienza africana, all’influenza e, infine, a una combinazione fra alcune delle malattie elencate.

A supporto di una diagnosi si possono segnalare un elemento archeologico e uno storico. Nel 1995 gli scavi delle fosse comuni nel quartiere ateniese del Ceramico hanno consentito l’esame di alcuni cadaveri risalenti all’epoca. Gli esami delle gengive e dei denti hanno mostrato tracce compatibili con la salmonella enterica o la febbre tifoide, da non confondere con il tifo. L’elemento storico che rende probabile l’origine africana dell’epidemia, oltre alla ricostruzione dello stesso Tucidide, è la frequenza dei rapporti fra Atene e Paesi come l’Egitto, la Libia, l’Etiopia, che spediscono merci preziose introvabili in Europa.

Di qualunque patologia si trattasse, la peste era già allora vista come un disgregatore formidabile del tessuto sociale. Messi di fronte alla mancanza di una cura e a una mortalità elevatissima, gli ateniesi mostrano di non avere più rispetto né per le leggi né per gli dèi. Sembra che già allora il morbo non colpisse la stessa persona una seconda volta in modo mortale e quelli che sopravvivevano e acquisivano l’immunità “erano considerati felici dagli altri e loro stessi per la gioia del momento avevano la vana speranza di non essere più uccisi da nessun’altra malattia”.

Alla morte di Pericle, nel 429, e di quasi tutti i famigliari, il solo sopravvissuto è il suo terzo figlio, Pericle il giovane, che al tempo è un bambino di dieci anni, che crescerà nella città in guerra e diventerà navarco (ammiraglio). La sua vittoria alle Arginuse nel 406 costerà a lui e ad altri ufficiali un processo per avere abbandonato i naufraghi. Pericle il giovane sarà condannato a morte in uno degli episodi più sconcertanti nella storia della democrazia ateniese. Ma già vent’anni prima la morte di suo padre e la peste avevano indirizzato le sorti della guerra del Peloponneso.

In conclusione ancora una riflessione su quanto dovremmo imparare dagli eventi passati; nonostante siano passati più di duemila anni dagli eventi raccontati da Tucidide molte sono le somiglianze con l’attualità. La sua descrizione minuziosa della peste dovrebbe avere uno scopo pratico e didattico ancora valido. Lo stesso Tucidide afferma di voler insegnare ai contemporanei quello che è stato, perché possa servire in futuro per coloro che dovessero trovarsi ad affrontare una situazione simile, e prendere provvedimenti basandosi sull’esperienza fatta in quegli anni.

Una sua prima osservazione riguarda i medici e la loro inesperienza: nessuno allora era in grado di poter affrontare dal punto di vista sanitario un male del genere e colpisce il particolare secondo cui furono proprio i medici a morire più degli altri: il contagio continuo cui erano esposti generò probabilmente questo rischio mortale. Allora come oggi c’erano le dicerie, le cosiddette fake news: si cercarono subito gli untori come causa occulta del fenomeno e c’era chi faceva le sue diagnosi, le sue interpretazioni.

Oggi abbiamo chi ancora parla del virus cinese creato in laboratorio o della sua inesistenza; più di 2400 anni fa, invece, si credeva che fossero stati i nemici Spartani ad avvelenare i pozzi della zona del porto del Pireo. Tucidide riporta anche questo, mostrando, però, di non credervi; sembra dirci che in tali circostanze sono immancabili i sospetti, le chiacchiere a ruota libera, le insinuazioni.

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