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Il commento

Son certo che a Faber sarebbe piaciuta questa piazza, tra antico e moderno

Dove c’è perfino una piccola arena in cui, quando sarà finito quest’incubo del Covid, i ragazzi potranno trovarsi a suonare e cantare le sue canzoni.

Era una giornata più o meno come questa, la Santa Lucia del 1973: io ero un ragazzino di tredici anni e non sapevo di rivolte o di scioperi, in quella stagione furibonda che, a cose fatte, avremmo chiamato “anni di piombo”.

Prevedevo che mi sarebbe toccato un regalo e speravo con tutto il cuore che mio padre, che di me aveva capito pochissimo, questa volta indovinasse i miei gusti. Arrivò a casa nel tardo pomeriggio, con un voluminoso pacco sotto il braccio, che, la mattina dopo, si rivelò nascondere un piccolo giradischi portatile e due LP, che erano la sintesi del mio gusto musicale di allora: “Io sono nato libero” del Banco e “Storia di un impiegato” di Fabrizio de Andrè.

La mia formazione cominciò di lì: con quei due dischi ascoltati decine di volte. Conoscevo già bene Faber: anni prima, mio cugino Bruno, in una vacanza a San Benedetto del Tronto, me ne aveva rivelato la meraviglia, grazie a un quadernetto su cui aveva trascritto tutti i testi dei primi dischi del cantatutore. Fu l’inizio di un’ammirazione che non è ancora finita e che, anzi, si è affinata, con l’aumentare della mia capacità di comprendere.

Posso dire che De Andrè abbia rappresentato la colonna sonora della mia esistenza: il progressive rock, il punk, la new wave, passavano, mentre lui restava lì, ad aspettarmi a ogni ritorno, con un sorriso bonario e ironico.

Imparai a suonare la chitarra e i miei primi accordi furono dedicati a “Un chimico” o al “Pescatore”, piuttosto che a Lucio Battisti. Poi, mano a mano che uscivano nuovi dischi, immediatamente mi gettavo su di loro, per riprodurli, un po’ alla buona, in camera mia, con la mia chitarrona fiammante.

Quando a Faber si affiancò Ivano Fossati, mi arresi: troppo complesse le armonie. Ma continuai ad ascoltare, anche quando il dialetto genovese si rivelava troppo ostico per le mie orecchie.

De Andrè è stato un grande artista: non lo definirei poeta (né lui amava questa definizione), quanto, piuttosto, uno straordinario autore di minuscoli melodrammi. La combinazione dei suoi testi, così essenziali e originali, delle sue musiche e della sua voce, ha dato vita a un’arte unica. So bene che quest’arte ha vissuto fasi alterne: che, spesso, Faber ha raccolto suggestioni altrui, da De Gregori a Bubola e da Brassens a Cohen. Tuttavia, anche nei suoi lavori meno riusciti, lui ha sempre raggiunto il cuore della gente: c’è sempre stato, là dove doveva essere.

Quando morì, io scrissi un articolo per ricordarlo, su di un mensile di destra, per il quale scrivevo: me ne derivarono critiche in quantità, determinate dalla dichiarata anarchia per la quale De Andrè propendeva. Erano stupidaggini: un genio appartiene a tutti e valutarlo per le sue convinzioni politiche è operazione riduttiva e miseranda.

Anche di recente, il mio articolo per Bergamonews in cui proponevo di dedicargli una via o una piazza di Bergamo ha raccolto le querimonie di qualche cretino: non importa.

Quello che importa è che una piazza di Bergamo sarà intitolata a questo grande artista: una bella piazza, in una località interamente recuperata, con un aspetto moderno e antico insieme. Un luogo che, probabilmente, a Faber sarebbe piaciuto. E dove c’è perfino una piccola arena in cui, quando sarà finito quest’incubo del Covid, i ragazzi potranno trovarsi a suonare e cantare le sue canzoni. E poi, se la gente sa (e la gente lo sa) che sai suonare…

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