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L'intervista

Il violinista Scarpanti ricorda: “Quella ‘Lucia’ con Maria Callas al Donizetti nel 1954”

Oggi la Prima della Scala avrebbe dovuto proporre Lucia di Lammermoor del compositore bergamasco, saltata a causa Covid

Non basterebbe una giornata intera per raccontare una vita al servizio della musica. La lista degli aneddoti non ha fine, le emozioni sono infinite. Si tratta di esistenze vissute a pieno, storie incredibili e travolgenti.

Classe 1936. Ottantaquattro anni. Oltre settantacinque di musica. Antonio Scarpanti è un’anima sempre verde, la prova che la vera giovinezza sta nel cuore e nella mente, di certo non nel corpo. “Se dovessi raccontarti tutto quello che ho fatto nella vita grazie alla musica, la nostra chiacchierata durerebbe almeno tre giorni”, esordisce al telefono. “Per me la musica c’è sempre stata, tutta quanta la musica, senza distinzioni”, anche se ammette che il suo grande amore rimane la classica.

Tutto è iniziato a cinque anni, quando il papà, violoncellista, gli portò un regalo speciale. “Era un violino minuscolo, un quartino”. Da quel momento, Antonio non ha mai smesso di suonare. Dagli anni del conservatorio, ai concerti in trio con il padre – la maggior parte a prima vista -, dalle collaborazioni con la Scala, i Pomeriggi musicali, i Solisti Torinesi, alle tournée in Messico e in Giappone. La musica c’è sempre stata, anche nella vita comunitaria: quarantotto anni come direttore della banda di Sforzatica e fondatore dell’orchestra “Città di Dalmine”, gli sono valsi una benemerenza come cittadino onorario dalminese.

La musica c’è ancora adesso, soprattutto in questo periodo “triste, anzi tristissimo”. “Le giornate passate in casa per me non sono facili da sopportare – racconta Antonio – ma io ho la compagnia di mia moglie Franca, la mia più grande sostenitrice, che ancora adesso, mi sprona a prendere in mano il violino e ad arrangiare nuovi brani per l’orchestra, che suoneremo quando tutto sarà finito”.

La storia che oggi vogliamo raccontarvi parte da una serata di tanti anni fa. 1954, Teatro Gaetano Donizetti, Bergamo. Un giovanissimo Antonio, appena diciottenne, è in orchestra con il suo violino. Quella sera in programma c’è la “Lucia di Lammermoor”, una delle opere più celebri del compositore bergamasco. Sul palco, la cantante più celebre di tutti i tempi, Maria Callas.

Scarpanti

La Lucia di Lammermoor e la Callas al teatro Donizetti. Una serata sicuramente indimenticabile…

Come dimenticare. Devi sapere che in quel periodo a Bergamo si esibivano i più grandi. Era una sfilata di talenti internazionali. Il merito era anche di Bindo Missiroli, il direttore artistico, che riusciva a porta in città il meglio. In quella serata c’era davvero il meglio del meglio. Maria Callas, nel ruolo della protagonista. Al suo fianco il tenore Ferruccio Tagliavini, una colonna dei tempi. La direzione era stata affidata a Francesco Molinari Pradelli. E poi, i bozzetti delle scene avevano la firma di Trento Longaretti, celebre direttore dell’Accademia Carrara di Bergamo. Insomma, Stiamo parlando di professionisti d’eccezione.

Che cosa ricorda in particolare di quella messinscena?

Ricordo che la Callas fu memorabile nel secondo atto. Perfetta nella famosa scena della pazzia. Tornai a casa con il cuore in gola. La stessa emozione che hop provato in tantissime altre occasioni, come quando ho avuto il privilegio di suonare per la messinscena di Otello diretto dal grande Gianandrea Gavazzeni. Se devo essere sincero, ogni concerto mi ha sempre lasciato un’emozione nel cuore. Compreso ‘ultimo fatto quest’anno, a settembre prima del secondo lockdown. Con l’orchestra “Città di Dalmine” abbiamo suonato nella chiesa di Martinengo in commemorazione delle vittime del Covid. È stato un momento molto intenso.

Come è iniziata la sua storia con la musica?

Era un bambino, non avevo nemmeno iniziato ancora la scuola elementare. Vivevamo all’epoca in città alta, in un palazzo di via Salvecchio, dove ora c’è l’Università. Mio papà, che è stato un grande violoncellista, tornò a casa con un regalo, un violino minuscolo. Da quel momento il violino ha sempre fatto parte della mia vita. Pensa che a cinque anni sapevo suonare e leggere le note, ma non sapevo ancora leggere e scrivere. Il violino era il mio gioco e il mio dovere allo stesso tempo. Diciamo che, soprattutto in adolescenza, lo studio della musica mi ha un poco tarpato le ali. Le ore da dedicare allo strumento erano tante e spesso dovevo rinunciare ai passatempi da ragazzo. Mio papà era stato chiaro. Mi disse: “Antonio devi scegliere: o il violino, o il pallone!”. Ed io scelsi il violino, senza rimpianti.

Cosa ricorda di quegli anni? Della Bergamo di allora?

Città alta era bellissima, come lo è adesso. C’era la guerra e c’era la dittatura. Non erano di certo tempi facili. Nelle città si pativa la fame, ma si riusciva comunque a fare musica. Anzi, ad essere sincero, Forse si faceva più musica allora di oggi. Escluso ovviamente il tragico periodo che stiamo vivendo, in cui, per motivi di sicurezza pubblica, l’arte dal vivo è sottoposta a limitazioni. Ricordo che negli anni della guerra mio padre si recava spesso a Torino per la musica e più di una volta si ritrovò nel bel mezzo dei bombardamenti. Io in quel periodo studiavo in conservatorio. A nove anni feci il mio primo concerto in sala Piatti: suonai il Concertino di Alberto Curci per violino, rigorosamente a memoria!

Quale è stata la prima produzione operistica a cui ha partecipato?

“La Boheme”, di Puccini. Stupenda. Avevo quattordici anni. Ricordo che avevo studiato le parti sino quasi a conoscerla memoria. Questo era l’impegno che veniva richiesto agli orchestrali. Il destino ha poi voluto che “La Bohme” sia stata anche l’ultima produzione a cui ho partecipato. In quell’occasione mi trovavo in Giappone con La Scala.

Si riferisce alla primissima tournée della Scala in Giappone?

Esattamente. Parlo del tour del 1981, durato quaranta giorni. Quello è stato sicuramente il periodo più bello della mia vita dal punto di vista musicale. Mi capitò questa occasione e la colsi al volo! I giapponesi ci accolsero con grande ospitalità. Anzi, nei teatri – sempre stracolmi di pubblico – la gente andava in delirio. Quanta passione per la nostra musica e la nostra cultura! E poi l’orchestra era diretta di due musicisti storici: Claudio Abbado e Carlos Kleiber. È stata una esperienza stupenda.

In quali altre terre lontano l’ha portata la musica?

Nel 1956 partii con mio padre e altri dodici musicisti per il Messico, dove rimanemmo per sei mesi. Eravamo stati ingaggiati da un importante impresario per una serie di concerti di musica leggera italiana. Anche in quel caso, l’accoglienza fu strepitosa. Ricordo che i muri di Città del Messico erano tappezzati di nostre gigantografie. Le persone addirittura ci riconoscevano per strada. Fui anche ingaggiato per una pubblicità televisiva (ovviamente mi cimentai senza pensarci due volte: avevo vent’anni e tanta energia). La gente impazziva per la nostra musica. L’Italia all’estero è sinonimo di musica e cultura! Ma nel nostro Paese chiudono le orchestre e le occasioni per i giovani di fare il musicista con dignità sono sempre meno.

Quasi ottant’anni di musica. Chi è la persona che l’ha sostenuta di più nel suo sogno?

Franca, mia moglie, il mio diamante, la mia più grande sostenitrice. La musica mi ha portato ovunque, lei è sempre stata al mio fianco. Non si è persa mai un concerto. Ancora adesso, dopo cinquantaquattro anni di matrimonio, è la prima a spronarmi, a dirmi: “Toni, prendi il violino e suona”. Devo ammetterlo, sono un uomo fortunato.

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