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Storia delle epidemie 1

Lebbra, peste, colera… da secoli l’uomo alle prese con malattie infettive

La Storia aiuta a capire il presente. Ai tempi del Covid impariamo ad ascoltare di più cosa gli eventi passati ci hanno insegnano e a non contare solo sulle capacità reattive e adattative del genere umano.

Premessa

Il famoso storico francese Marc Bloch ha definito la Storia, nel suo libro “Apologia della storia” uscito postumo nel 1949, “Scienza degli uomini nel tempo”; un tempo che è il plasma stesso in cui nuotano i fenomeni, il luogo della loro intelligibilità in un continuum che porta in sé il seme dei futuri cambiamenti. Con ciò intendendo che l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Da questa condivisibile affermazione, capiamo quanto la Storia sia spesso inascoltata e, solo a volte, ci è maestra; mentre raramente ci conforta.

La storia è un lungo processo di eventi che lasciano tracce, indizi, possibilità interpretative, strumenti di analisi e, se fossimo più accorti e ascoltassimo i segnali del passato, saremmo meno indifesi e costernati quando si manifestano fatti nuovi che, magari, tanto nuovi non sono affatto. Per nostra fortuna, l’umanità ha sempre avuto una straordinaria capacità di reagire a eventi drammatici, compensando un po’ quelle lacune di cui si diceva poc’anzi.

Impariamo, quindi, ad ascoltare di più cosa gli eventi passati ci hanno insegnano e a non contare solo sulle capacità reattive e adattative del genere umano.

Le guerre, gli sviluppi tecnologici, i cambiamenti economici e sociali sono stati il “motore” delle civiltà e del progresso, ma anche i focolai di malattie infettive hanno avuto un ruolo nel plasmare il mondo in cui viviamo. Le epidemie sono da sempre state una costante nella storia dell’uomo, con l’unica differenza che per molti anni non hanno coinvolto i Paesi più sviluppati e ora per la prima volta, grazie alla globalizzazione, un virus ha potuto circolare in tutto il mondo ad una velocità che era impensabile quando le barriere di spazio e di tempo erano molto più pesanti. E anche questa pandemia cambierà il corso della storia in un modo che (per adesso) non possiamo prevedere, proprio come è successo con quelle precedenti.

L’attuale crisi pandemica viene spesso etichettata come “inedita” o senza precedenti ma, come detto, non è affatto così. Cosa ci può insegnare quindi la storia dalle esperienze passate? Come hanno reagito i popoli, le nazioni, le economie alla diffusione di virus anche più letali ed aggressivi di quello che stiamo sperimentando in questi giorni? Da questa settimana cercheremo di rispondere a questi interrogativi, ripercorrendo la Storia delle Epidemie, offrendo anche alcune testimonianze di tipo letterario che possono essere usate come fonti storiche, fondamentali per conoscere e ricostruire l’immagine di una società di un determinato tempo, attraverso cui meglio interpretare fatti e contesto storico.

Queste informazioni, utilissime a ricercare la verità storica dei fatti riguardo al tema di questa narrazione, diventano indispensabili quando ci occuperemo di quelle dei testi trasmessaci dagli autori classici greci e latini, che ci faranno incontrare numerose descrizioni di peste legate al mito o alla storia. Esse ci permettono di acquisire una rappresentazione più ampia e profonda delle epidemie del passato, soprattutto quando erano pochissime la testimonianze scritte. Per mezzo dei testi greci e latini, è quindi possibile anche trovare le analogie con la contemporaneità e capire in che misura noi siamo debitori nei loro confronti. Senza trascurare le differenze che intercorrono con l’attualità, sono testimonianza realistica di situazioni vissute, ma anche, è bene ricordarlo, patrimonio per tutta l’umanità. Le parole del filologo Italo Lana ben riassumono il concetto: “Il classico è un autore che contemporaneamente riesce a parlare al suo tempo e a tutti i tempi”.

Nei testi antichi, le testimonianza di cui si è detto, erano per lo più narrazioni mitologiche: attraverso le gesta di dèi , semidei ed eroi, si tramandavano anche gli accadimenti di un popolo; e anche le epidemie sono presentate come forma della vendetta divina verso la tracotanza degli uomini, verso il peccato della loro finitezza mortale. Un tema, quest’ultimo, sempre attuale. Sperando, magari, che dal passato si possano trarre buoni auspici per il nostro futuro.

Le prime testimonianze

Le epidemie ci perseguitano e non solo quelle causate dai virus. Dalla più remota antichità, le civiltà hanno dovuto affrontare varie ondate epidemiche che si sono spesso protratte per molti anni. Spesso definite pestilenze, comprendevano malattie causate da batteri o da virus. Le più tristemente famose sono la peste, il colera, il vaiolo e il tifo. Accompagnando le carestie e le guerre, fluttuando con i grandi periodi di freddo, queste malattie contagiose hanno imperversato una dopo l’altra, o contemporaneamente, apparendo e scomparendo con il trascorrere dei secoli.

Pestilenze e pandemie sono state quindi una delle più gravi piaghe che hanno funestato la storia dell’uomo. Non solo per la loro enorme capacità di morte, ma anche per il terrore che suscitava nell’umanità questo nemico invisibile e da cui non si trovava riparo.

L’epidemia è anche un argomento che gode di fama nella letteratura antica: l’effetto di un morbo che esplode all’improvviso senza apparenti motivazioni, dona agli scrittori del tempo che analizzano la realtà dei fatti, un modo per descrivere la sua incidenza sui corpi e sulla psicologia delle masse. Tant’è vero che, come emerge dai poemi classici, comunemente si pensava che il flagello fosse inflitto dagli dèi, in collera per qualche motivo col genere umano.

Come ne “L’Edipo Re” di Sofocle (scritto fra il 420 e il 430 a.C.), il quale analizza una delle più famose pestilenze conosciute come strumento preponderante per compiere il proprio destino. Nella scena iniziale, Tebe è in preda a una terribile epidemia. I sudditi di Edipo vengono a palazzo, implorandolo di salvare la città dalla pestilenza: panico, urla e cadaveri per strada: “…la città è piena di fumi e d’incensi insieme con peane e gemiti (…) ho pianto tanto e tante strade ho tentate e finalmente ho mandato il figlio di Meneceo, mio cognato Creonte, al tempio delfico di Febo a domandare cosa fare o dire per salvare la città…”. In seguito Creonte fa del suo meglio per leggere le parole dell’oracolo di Delfi: “riferirò ciò che ho udito dal dio: il miasma è nutrito in questa terra, si cacci per non renderlo insanabile. È il sangue che travaglia la città”. L’Oracolo disse che la peste non sarebbe finita fino a quando la gente di Tebe non avesse espulso l’assassino di Laio; è un ultimatum: o risolvete l’omicidio o la peste continua. Una comunità che si interroga sulla responsabilità dell’uomo nel disastro, capi di stato che cercano salvezza per il proprio popolo appellandosi agli dèi, in un crudele gioco del destino in cui si è ora vittime, ora colpevoli.

L’opera presenta anche un’etica che si accinge a sottolineare l’inesorabilità del fato: la pestilenza è usata da Sofocle come chiave per permettere a Edipo di compiere il proprio destino. Si sviluppa quindi il conflitto fra volontà divina e responsabilità individuale: l’epidemia è la conseguenza delle colpe di Edipo che ha oltraggiato e sovvertito, l’ordine naturale dell’esistenza: inconsapevolmente, per aver ucciso suo padre e, in seguito, per aver giaciuto con la madre, Giocasta.

Ma tralasciando, per ora, i miti, da quando abbiamo prove tangibili sulla esistenza delle epidemie? In pratica dall’inizio della storiografia. La prima descrizione dei sintomi di una malattia simile all’influenza fu redatta da Ippocrate circa 2400 anni fa; quindi essa gira per il mondo da secoli, mutando in continuazione. È molto probabile, però, che fosse in circolazione da qualche millennio prima. Lo dimostrerebbe il sito archeologico Hamin Mangha, nel nord-est della Cina, l’insediamento preistorico più grande e meglio conservato trovato fino ad oggi in Cina risalente al 3000 a.C. Uno studio archeologico e antropologico indica che ci fu un’epidemia e che sarebbe stata rapidissima, e non avrebbe concesso il tempo necessario per rendere sepolture adeguate agli abitanti colpiti. Prima della scoperta di Hamin Mangha, un’altra sepoltura di massa preistorica che risale all’incirca allo stesso periodo, è stata trovata nel sito di Miaozigou, sempre nella Cina nord-orientale. Queste scoperte suggeriscono che un’epidemia avrebbe devastato l’intera regione.

Una delle più antiche malattie infettive è la lebbra (dal greco lepra, squamoso). Non si conosce con certezza l’epoca della comparsa di questa malattia ma si pensa che abbia avuto origine in India o in Africa. I più antichi resti umani con segni indubbi di lebbra risalgono al II millennio a.C. e sono stati ritrovati nei siti archeologici di Balathal in India e Harappa in Pakistan, ma era ben conosciuta nell’antica Grecia, in Egitto e in Cina.

Questa malattia fu descritta anche nell’antica Roma dagli autori Aulo Cornelio Celso (25 a.C.- 45 d.C.) e Plinio il Vecchio (23–79 d.C.). La lebbra è un’infezione causata da due batteri, il Mycobacterium leprae o il Mycobacterium lepromatosis e i suoi sintomi possono manifestarsi anche dopo 10 anni dal contagio. Causa granulomi su nervi, tratto respiratorio, pelle e occhi; col tempo si perde la capacità di provare dolore e si manifestano deformità. Nel corso del racconto avremo modo di riparlarne.

Nell’”Iliade” di Omero, convenzionalmente datata nel 750 a.C., e narrante la Guerra di Troia avvenuta circa cinque secoli prima, leggiamo, nel primo canto, che la peste fu provocata dal dio Apollo come punizione per i torti commessi dagli uomini; dunque le sciagure secondo gli antichi erano opera degli dèi. In particolare, il dio era adirato con il capo degli Achei perché Agamennone aveva peccato di ybris (tracotanza), sfidando gli dèi nell’atto di non accogliere la richiesta di un loro sacerdote. L’immagine con cui viene descritta la causa della pestilenza è molto poetica: il dio scende dall’Olimpo furente, con i dardi pestilenziali e il suo arco d’argento, attraverso i quali diffonde la peste nell’accampamento. Gli aedi non descrivono i sintomi della peste o il decorso della malattia, sappiamo solamente che prima si ammalarono gli animali, più precisamente i muli e i cani, successivamente gli uomini. Di certo Omero descrive il propagarsi di una pestilenza nel campo degli Achei; ed è noto che durante gli assedi i contagi sono all’ordine del giorno: molti soldati, poca pulizia e una nutrizione non regolare favorivano il propagarsi di qualsiasi malattia.

Oggi la percezione che abbiamo delle epidemie è molto scientifica, tuttavia è anche affascinante immaginarle come un dio infuriato che scaglia dardi pestilenziali.

Nel V secolo a.C. Ippocrate utilizzò per primo il termine “kolera”, anche se non si hanno prove certe che si riferisse a questa malattia; anzi, molto probabilmente non si riferiva al colera epidemico di provenienza asiatica che imperversò molti secoli dopo. Comunque fu il primo a teorizzare che le cause fossero interne, cioè lo squilibrio dei quattro “umori” che costituivano il corpo. Successivamente e, per molto tempo, dominò la scena la cosiddetta “teoria dei miasmi”, che attribuiva la capacità di minare la salute umana a determinate condizioni ambientali, come la sporcizia, l’inquinamento, la presenza di acque stagnanti o certi fenomeni atmosferici. Una teoria certamente più “moderna”, molto differente da quella dei popoli più antichi, che inizialmente credettero che le malattie fossero l’espressione di forze soprannaturali.

Nell’ estate del 399 a.C. vi fu una pestilenza a Roma non ben identificata. L’unica prova è che fu celebrato il primo “lettisternio” (sacrificio o convito sacro) allo scopo di placare l’ira degli Dei che avevano inviato un inverno rigidissimo, cui era seguita nell’estate una pestilenza. Ma anche nei secolo successivi Roma ne fu periodicamente colpita. Il come e il quando lo scopriremo nelle prossime puntate.

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