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Lettere

La lettera

Covid e lockdown: quando le regole umiliano ristoratori e albergatori

Damiano Amaglio, titolare del Ristorante Albergo Ponte Autostrada, ci ha inviato questo contributo personale che contiene riflessioni e un paio di proposte per il settore della somministrazione e della ricettività in periodo di Covid 19

Pubblichiamo l’intervento di un ristoratore albergatore su questo secondo lockdown che sta colpendo il settore. 

Gentilissimo direttore,
il tempo vola anche in epoca di Covid-19 e sono passati già 6 mesi da quando scrissi dei dubbi, delle fatiche, delle contraddizioni normative che rendevano complicato riprendere un’attività di somministrazione e ricettività dopo il lockdown primaverile.

Sono stati mesi pesanti, mesi nei quali alzare le nostre serrande è significato perdere denaro; i numeri impietosi mostrano tanto la drammaticità dei crolli di fatturato quanto l’insufficienza dei cosiddetti ristori. Qualcuno ha descritto con efficacia la situazione dicendo che le attività sono aperte ma è il mondo ad essere chiuso, e questo sia per obbligo normativo che per scelta legata alla paura. Allora perché incaponirsi e non fermarsi? Perché il nostro mestiere è totalizzante, diventa uno stile di vita, per molti la vita stessa, quindi chiudere a lungo significherebbe non vivere più. Ecco il dilemma: aprire e morire (economicamente), o chiudere ma non vivere (psicologicamente)? In questa scelta siamo soli davanti a cassetto e cuore, entrambi vuoti. Non serve dire che nella maggior parte dei casi si è scelto il cuore, alzando la serranda.

Qualcuno a questo punto obietterà che ogni attività di somministrazione ha caratteristiche proprie e generalizzare è un errore, resta il fatto che il contesto sociale, non solo economico, ha contratto e mutato la domanda di servizi. Take away e delivery sono opzioni, palliativi, fondamentalmente la scusa per dimostrare che si esiste ancora, che si è vitali e vivaci (per chi ne ha la forza mentale), che non ci si vuole arrendere, ma non dimentichiamo che esprimono qualcosa di molto distante dai valori su cui si fonda il nostro lavoro, cioè l’accoglienza, il calore, la cura del servizio e l’elaborazione dei piatti. Cambia l’esperienza, cambia la relazione, cambia il mercato; si aprono opportunità e se ne chiudono altre, ma temo che il saldo non sarà attivo per il Paese. Che ne sarà di ciò che ci rende unici nel mondo, di ciò che ciascuno di noi sa offrire di irripetibile e in-asportabile? I muri dei nostri locali, anche i più semplici e poveri, trasudano di storie vissute e raccontate, ed è questo profumo di vita che condisce, insaporisce, spezia i nostri piatti.

Come se non bastasse ci si mette anche il destino, quasi beffardo: nel momento peggiore della sua storia il locale della mia famiglia, il Ponte Autostrada di Cassinone, ha ricevuto il riconoscimento di storica attività da parte di Regione Lombardia, e credo ci stia dopo oltre un secolo di soglie varcate, calici versati, sorrisi regalati e maledizioni lanciate (perché il cliente ha “quasi” sempre ragione). Sì, beffardo il destino, ma per certi versi anche stimolante provocatore: riconosce i valori della tua storia proprio mentre rischia di interrompersi, come fai a dargliela vinta?

Eh già…In effetti mi son sempre chiesto come avessero fatto i miei bisnonni prima, mia nonna poi, a passare attraverso due guerre e a superarle, o con quale forza i miei genitori abbiano retto i ritmi folli dell’Italia del boom economico. Ora che sono in mezzo alla terza, di guerra, comincio a capire che ci sono energie e valori che si trasmettono ed il tempo consolida, grazie alle quali diventi capace di cose inaspettate e sorprendenti. Un detto medioevale ripreso da tanti ci ricorda che siamo come nani sulle spalle di giganti, e mai come in questo momento dovremmo ribadirlo a noi stessi e a chi ci governa.

Sì perché il tema è sempre lo stesso: guidare o subire i processi? Scrivere la storia o limitarsi a leggerla?

Non voglio ritornare su temi di carattere generale che ho affrontato in altre vesti già all’inizio della pandemia e che valgono tutt’oggi: qui semplicemente rilevo quanta fatica faccia il nostro Paese a darsi una strategia, una visione, a reggere il peso delle scelte che fa. Spesso ci lamentiamo del livello della nostra classe dirigente, ma dimentichiamo che è solo la rappresentazione di ciò che siamo, nel bene e nel male, e che siamo noi ad indurne i comportamenti se non la giudichiamo per la capacità di perseguire il bene comune ma solo per la disponibilità ad assecondare il nostro particolare.

Dopo la ripresa di maggio vi è stato un progressivo “sostanziale” allentamento delle regole per i locali pubblici di somministrazione: la scelta di non fare controlli per non “vessare” una categoria già in ginocchio ha prodotto il tipico effetto all’italiana: le regole stringenti, senza controlli, di fatto restano inapplicate, e colui che le rispetta con rigore e responsabilità è un fesso tra i furbi che si ingegnano per aggirarle ed i “distratti” che nemmeno le considerano. Del resto bisogna sopravvivere, se aspettiamo il Governo…Ed a quel punto mors tua et vita mea!

E così è stato, perché è anche per colpa di chi non ha saputo o voluto gestire i flussi nei propri locali che abbiamo richiuso tutti in queste settimane; e con questi campioni di responsabilità oggi dividiamo i miseri ristori! Non è affatto divertente, e lo sarà ancora meno in primavera, quando questa pandemia planetaria presenterà il vero conto economico. La riformulo cruda: occhio ad abbassare troppo la guardia, perché è facile che in guerra l’arte d’arrangiarsi di italica genìa diventi sciacallaggio del quartierino. Non ci si giri dall’altra parte, perché i costi sociali conseguenti sarebbero persino maggiori di quelli finanziari.

E qui entra in campo il legislatore, che spesso ci mette del suo con norme che sembrano scritte più per chi le infrange che per chi le rispetta, e faccio due esempi facili da comprendere.

Gli hotel possono somministrare ai propri ospiti, solo a loro. Ebbene, sono settimane che in ogni angolo del Paese trasportatori e trasfertisti pranzano e soprattutto cenano negli alberghi simulando di alloggiarvi. Chi non adotta questo “semplice” metodo, ve lo dico per esperienza, viene guardato come un pirla che non vuole lavorare e che non tiene ai propri clienti, costringendoli a mangiare per strada. Perché per l’italiano medio una regola ingiusta si può violare. A che serve protestare, cercare di correggerla, quando basta aggirarla?

E ancora…Il DPCM consente alle mense convenzionate con le aziende di continuare il proprio servizio. O almeno parrebbe consentirlo. Peccato che ogni Prefettura d’Italia dia una propria interpretazione, ed ogni Comune la recepisca con attenzione diversa: in questo caos c’è spazio per gli intraprendenti che fanno accomodare al tavolo ogni cliente disposto a sottoscrivere una convenzione di mensa.

Convenzione cestinabile appena il cliente lascia il parcheggio, evidentemente…Et voilà sfornato il nuovo concetto di mensa diffusa, che i più rigorosi sanciscono facendo una Scia, perché almeno il codice ateco corretto bisogna averlo…Ma il punto non è la burocrazia, non è la salvaguardia della forma, non è il pararsi le spalle in caso di controllo, il punto è che si sta umiliando la categoria. Pensiamo di essere furbi giocando sulla salute, e invece proprio questo individualismo esasperato è la ragione della nostra debolezza e di chi tenta di rappresentarci.

Che fare quindi, morire commercialmente?

Evidentemente no, ma la battaglia si fa cercando di correggere le regole sbagliate, non fregandosene. A riguardo, fatto salvo il quadro di regole in vigore su sanificazione e distanziamento, faccio due proposte organiche e compatibili, credo, con la ratio normativa portata avanti sinora.

– Legare la somministrazione a fatturazione: pranzare o cenare per i lavoratori è un’esigenza, alla fine il ristoratore è un fornitore funzionale all’attività lavorativa; con la fatturazione elettronica ormai tutto è tracciabile, lo Stato si assicurerebbe gettito e trasparenza.

– Prevedere un contributo per le aziende di trasporto a copertura delle spese alberghiere, anche solo in termini di credito d’imposta: a quel punto i pernottamenti non sarebbero aggravi insostenibili ma diverrebbero reali e produttivi sostegni al settore ricettivo, producendo indotto e (di nuovo) gettito.

È evidente come questo non basti, ma può servire a gestire una fase di transizione in sicurezza: se si consente al mondo del lavoro di non fermarsi, bisogna pensare a tutta la filiera con razionalità. Vietare ufficialmente per tollerare ufficiosamente è da repubblica delle banane, ci rende ridicoli e ricattabili. Lo dico con amarezza e franchezza.
Se lo Stato chiede di fermarci per il bene comune, dobbiamo fermarci. Possiamo replicare che non può lasciarci morire, certamente, e pretendere ristori dignitosi, dobbiamo insistere perché lavorare si possa, e alla luce del sole, ma le regole in vigore vanno rispettate perché proteggono i nostri clienti prima che noi stessi.
Non sta a noi scegliere l’epoca in cui vivere, ma possiamo decidere come viverci. E questo nostro Belpaese non cambierà se prima non cambieremo noi.

Damiano Amaglio
Ristorante Albergo Ponte Autostrada

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