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Gianmariano marchesi

Medico in pensione torna in prima linea contro il Covid: “Ora siamo più preparati”

A riposo dal 2018, il dottor Marchesi, compreso lo tsunami in arrivo non ci ha pensato due volte: ha ripreso il camice ed è tornato a collaborare col suo ospedale, il Papa Giovanni di Bergamo

Gianmariano Marchesi è un medico da prima linea. Uno degli eroi – così li abbiamo chiamati anche se a loro non piace – che ha combattuto sin dalla fase più critica contro un nemico tanto spietato quanto sconosciuto, il covid19. Per molti anni direttore dell’Anestesia e Rianimazione 3 dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, a riposo dal 2018, il dottor Marchesi, compreso lo tsunami in arrivo non ci ha pensato due volte: ha ripreso il camice ed è tornato a collaborare con il suo ospedale, in particolare con la Pneumologia.

L’incontro con lui ci offre l’occasione per capire e condividere la fatica, la solitudine, la responsabilità di cha sta provando ogni giorno a curarci pur tra mille difficoltà.

Cosa ha visto e cosa ha vissuto, dottore, nei giorni più difficili?

Molte cose mi hanno colpito durante i mesi di marzo e aprile: un evento mai visto, una situazione da rincorrere nel modo meno caotico possibile, una malattia diversa da quelle che avevamo trattato in precedenza. Eravamo un po’ come pionieri. Abbiamo cercato di curare il covid19 considerando le analogie con altre patologie che avevano qualcosa in comune con quello che capivamo del virus, accorgendoci poi che alcune cose erano diverse e andavano affrontate in modo diverso. Tanto lavoro senza sosta, ma non è stato questo il problema principale.

Qual è stato il problema principale?

Molto peso ha avuto per tutti noi la solitudine che si respirava. La solitudine era dei malati, dei familiari, degli operatori. Soli erano i malati, che arrivati in ospedale venivano tagliati fuori dal mondo. Abbiamo cercato di favorire il più possibile i contatti con la famiglia, ma non tutti potevano comunicare col cellulare per vari motivi o perché non lo sapevano fare – e noi li aiutavamo un poco, anche attraverso le videochiamate rendendoci però conto che era ben poca cosa rispetto al bisogno di vicinanza – o perché a causa dei supporti respiratori non potevano né parlare né scrivere né leggere messaggi.

I morenti erano soli, e soli i vicini di letto che assistevano con paura agli eventi.

Soli i familiari che attendevano nell’angoscia di avere notizie. Ogni giorno cercavamo di chiamare, ma era poca cosa; qualche volta non riuscivamo e l’attesa per loro si allungava. Soli pure gli operatori, nonostante le numerose manifestazioni di solidarietà, dalle pizze ai sacchetti per il pranzo alle uova di Pasqua, agli striscioni. Tutte cose che certamente hanno aiutato. Ma quando tornavi a casa cercavi di isolarti, di mangiare da solo; molti hanno vissuto anche separatamente dalla propria famiglia per non rischiare di portare a casa il virus. Certamente c’è stato anche uno spirito di squadra tra gli operatori che raramente si è visto così forte: tutti assieme per reggere l’onda d’urto e cercare di spuntarla. Questo è ciò che si è visto e che rimarrà di certo nella memoria. Ma non solo questo.

Si riferisce alle difficili decisioni da prendere ogni giorno in una terapia intensiva?

Una situazione difficilissima. Tanti malati, tutti assieme, con risorse inevitabilmente limitate e sottodimensionate rispetto ai bisogni: in queste condizioni è inevitabile affrontare la scelta di “quali e quante” cure applicare. Di fronte alla singola persona abitualmente si applicano i criteri clinici, ovvero si attuano procedure diagnostiche e terapeutiche solo se possono sortire un qualche beneficio; se ci sia accorge che tutte le cure esistenti non possono dare risultato, si sospendono e il malato viene accompagnato alla fine della sua vita. Ma di fronte alla collettività si deve rispettare anche un criterio di equità, di equa distribuzione delle risorse affinché queste, che sono un bene comune, siano utilizzate nel miglior modo possibile. Il sistema sanitario è chiamato ad assumersi importanti responsabilità.

Si deve decidere chi curare e chi no?

Al Papa Giovanni abbiamo curato tutti, grazie al lavoro straordinario svolto da tutti gli operatori e grazie all’aiuto che ci è stato dato da altri ospedali italiani e stranieri. Quaranta persone sono state mandate in terapia intensiva in Germania con voli militari. Sono scelte non facili da compiere ma in quelle settimane era l’unico modo per dare una risposta concreta ai bisogni dei tanti pazienti, tutti gravi, che arrivavano al nostro Pronto Soccorso, anche cento al giorno, numeri che manderebbero in tilt ogni ospedale del mondo. Anche in “tempi di pace” comunque le cure vanno decise con appropriatezza e ponderazione tenendo conto dei fattori di rischio che possono determinare il “fallimento” del trattamento, a cominciare dall’età e fragilità dei pazienti connessa alla presenza di più patologie e al rischio di complicanze. Anche nella fase più drammatica abbiamo comunque cercato di curare tutti nel miglior modo possibile, anche ricoverandoli nei normali reparti di degenza, trasformati in una sorta di grandi terapie sub intensive. Siamo arrivati ad avere 9 reparti covid19, in ogni reparto c’erano 48 letti e dalle 20 alle 30 Cpap (un supporto pneumatico che assicura la respirazione del paziente che non riesce a farlo in autonomia, ndr).

E ora, con la seconda ondata, come sta andando?

Si sta ripresentando, anche se per ora in modo quantitativamente assai minore, quanto già accaduto: il numero dei malati cresce costantemente – anche se molti provengono dalle province lombarde limitrofe – perché i contagi sono aumentati. Si sta tornando a erogare nei reparti di degenza il trattamento che fino a una settimana fa veniva effettuato solo in ambienti più protetti come la terapia sub intensiva, come appunto la Cpap. Però lo scenario è completamente diverso e ora siamo più preparati. Non abbiamo più un maxi-afflusso quotidiano di pazienti al nostro Pronto Soccorso; gli accessi diretti dal territorio di Bergamo e zone limitrofe sono limitati e gestibili. Poi ci sono i trasferimenti da altri ospedali, tramite una cabina di regia regionale, che smista i pazienti sui diversi ospedali in base alle disponibilità.

Come si prendono le decisioni in una terapia intensiva?

Aspetto fondamentale è la collegialità della decisione del limite di trattamento applicabile sia per un confronto che per una condivisione del peso decisionale. Si tende comunque sempre a fare qualcosa in più piuttosto che in meno. Utili anche le linee guida e le indicazioni dei comitati di bioetica. Anche se, a tal proposito, il documento del Comitato Nazionale di Bioetica (aprile 2020, ndr) mi ha lasciato molto perplesso perché non è riuscito a tracciare delle linee che potessero davvero aiutare nella riflessione chi doveva poi prendere decisioni in corsia. Dire, come è stato detto, che si devono sempre usare solo i criteri clinici è come dire che tutti devono sempre mangiare ma in una situazione di mancanza di cibo estrema ciò non sarà comunque possibile.

Non ci si doveva preparare meglio, forti dell’esperienza della primavera?

Dovevamo essere più pronti. Penso che il sistema sanitario avrebbe dovuto fare in modo di curare a casa più ammalati possibile, ospedalizzando solo quanti non potevano ricevere le cure al domicilio. Le cose non mi sembra siano andate così: si è nuovamente riversato tutto sugli ospedali facendoli andare in tilt una seconda volta e rendendo difficile lo svolgimento anche dei trattamenti indifferibili per altre patologie. Se la prima ondata è stata affrontata con uno spirito pionieristico perché non conoscevamo la malattia e non sapevamo bene cosa fare e ci riorganizzavamo in continuazione rincorrendo gli eventi, questa seconda sta generando stanchezza ed amarezza maggiori.

Prima o poi si tornerà alla normalità. Quale?

Una normalità certamente diversa. Stiamo vivendo la prima pandemia dell’epoca globale. Ne arriveranno delle altre, che circoleranno sempre più velocemente tanto quanto velocemente ci potremo muovere. Dobbiamo farci trovare preparati ridando centralità alla medicina del territorio per cogliere i bisogni sul nascere, preservare gli ospedali per i casi acuti, adeguare le risorse ai bisogni, formare sanitari. Richiede tempo ma si può fare.

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